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PREFAZIONE

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Alla Gioventù Italiana

Eccovi un altro mio lavoro—questo lo dedico a voi, non perchè sia migliore degli antecedenti, ma perchè voi troverete dei fatti compiuti dai vostri antesignani e fedelmente narrati da me, testimonio oculare.

Il male che dico del governo, credo sia inferiore ai meriti dello stesso, e desidero si creda che non per sistema io lo maledico, ma per puro convincimento di far bene, accennando al male.

Che la Monarchia per interesse proprio abbia secondato le aspirazioni nazionali nell’unificazione patria credo assurdo il negarlo, siccome assurdo sarebbe il negare aver la Democrazia seminato i campi di battaglia coi suoi martiri nell’intento solo generoso dell’unificazione dell’Italia e della sua emancipazione dal dominio straniero e teocratico.

Alcuni pochi che nelle fila della Democrazia pugnarono per il proprio avvenire, oggi si trovano nel Consorzio Monarchico, e quindi divisi dalla stessa, ed obbligati a continuar col governo la via di perdizione.

Il governo italiano modellato su quello imperiale di Francia, in tutto lo somiglia, ne segue esattamente le traccie, ed avrà le stesse conseguenze.

Non credano i moderni Machiavelli d’Italia d’esser più furbi dell’uomo di Sédan; essi lo ponno uguagliare in malvagità, non in malizia.

Come quello, questi edificano su fondamenta putride della sacerdotale menzogna, e come quello saranno sepolti nelle immondizie da loro stessi accumulate.

Perseguitino pure l’Internazionale, cioè la miseria da loro creata e mantenuta—spargano pure sulla superficie dell’Italia, colla solita intenzione di corromperla, i soliti agenti del corruttore supremo di Roma—ed invece di costruire degli Ospizi d’asilo per i tanti condannati a morir di fame in questo inverno di carestia, comprino pure delle nuove tenute di caccia per divertirsi—e nuovi palazzi vescovili—vedremo come se la intenderanno colla fame della moltitudine.

In Germania, tutti lo dicono, non v’è più un solo individuo che non sappia leggere e scrivere. La Francia grida: istruzione ad ogni costo. E l’Italia prodiga il suo erario a pagare dei vescovi e simili agenti delle tenebre.

Ripeto: ve la intenderete colla fame—!

Dei preti dico poco male, me lo perdoneranno i miei concittadini, considerando che pur qualche cosa dovevo mollare alle paterne ammonizioni dello Spigolatore Bolognese all’Unità Italiana (giornale) sulle mie antifone contro i preti.

Sui meriti della gioventù Romana, per cui ho una predilezione speciale, alcuni mi troveranno esagerato. Ebbene, se sono largo di elogi agli odierni discendenti dei Quiriti, ciò sia un pegno per il loro contegno avvenire.

Essi, sin ora sotto la diretta educazione del prete, ed in presenza delle sue carceri, de’ suoi birri, e de’ suoi istrumenti di tortura, dovevano essere ciò che erano veramente.

Oggi però, abbenchè poco meglio governati, essi non sono più sudditi o schiavi del clero—e devono sottrarsi intieramente da quel vergognoso servaggio, abiurarlo, maledirlo, distruggerlo sino alle ultime vestigia—ricordandosi che dal clero, essi, dall’apice delle Nazioni furono precipitati all’infimo grado della scala umana.

E che non vengano qui gli uomini a dottrine che puzzano di sagristia e di ceppi a dottoreggiare, che non conviene agli operai (come si preconizza in Roma oggi) di trattare di politica.

Se io, povero mozzo, non m’inganno, politica significa affare dei molti—ed intendo i molti dover essere coloro che menan le braccia nella società quando ben costituita—ed i molti naturalmente interessati a sapere se la barca va negli scogli o a salvamento.

La gioventù Romana—operai od altro—deve quindi occuparsi di politica—e convincersi che il suo contegno calmo, dignitoso, ma energico nello stesso tempo nella insofferenza d’oltraggi od esigenza di diritti—il suo contegno, dico, deve servire di stella polare alle città sorelle, per ottenere un’Italia prospera e rispettata nel mondo.

Posta così a capo del progresso nazionale—e partecipando alla buona ed alla cattiva fortuna del resto della Penisola, la vecchia matrona—sarà impossibile esser la nostra bella patria trascinata indietro nell’anfiteatro del fanatismo e della tirannide.

Emancipata dall’idolatria, e spinta col suo culto del vero e della giustizia verso la fratellanza universale, Roma potrà salutar finalmente l’alba d’un terzo periodo intellettuale nell’immortale ed impareggiabile sua esistenza.

La nazione ha quindi il diritto di sperare nel buon andamento che il popolo dell’illustre Capitale saprà dare alla Vita Italiana.

Vecchio—e poco più atto, o nulla, all’azione materiale—devo limitarmi a consigliare i giovani che ponno utilizzare la mia esperienza.

Accennerò alle esagerazioni.

Non credete voi che le esagerazioni dell’ultima rivoluzione di Parigi l’abbiano perduta? Io lo credo—e credo le esagerazioni dei dottrinarii manterranno ancora per molto tempo l’Internazionale in uno stato spaventoso per le classi agiate—ciocchè servirà di puntello e di propugnacolo alle monarchie ed al clero per combatterla.

Dall’altra parte noi diremo ai governi:

«Combattete il male di cui siete artefici, e non l’Internazionale, se ne siete capaci.

«I creatori dell’Internazionale e delle rivoluzioni siete voi.—Giacchè se voi combattete il vero e la fratellanza umana, non valete più dei preti abbagliati dalla luce, e che condannano alle fiamme chi non crede alle loro menzogne.

«Se continuate nella via del privilegio, voi rinnegate il diritto e la giustizia, e l’Internazionale—complesso della classe soffrente—finirà per rovesciarvi e distruggervi—E se mal diretta, per precipitare il mondo in uno di quei cataclismi da far tremare la terra.

«Istigatori del malcontento e delle miserie, voi siete i creatori del brigantaggio sempre crescente—e siccome siete la malizia e la fallacia—profittate degli stessi disordini suscitati da voi per accrescere il numero dei vostri puntelli. E vediamo quindi ogni giorno un aumento di preposti, di questurini e di benemeriti, di cui la nazione vi dà vistoso contingente, perchè povera e depravata da voi.

«Correggete tutti cotesti cancri, se lo potete, e non cercate di distruggere l’Internazionale—opera vostra e composta di vostre vittime—di cui non potete passarvi perchè poltroni e lussuriosi. L’Internazionale, dico, è emanazione dei vostri vizii!»

Troppo aspri i miei detti troveranno molti, ma scendano un istante costoro nella loro coscienza, e mi dicano se normale sia il presente stato d’Italia.

A che impoverire la maggior parte della Nazione per mantener la parte minore nell’agiatezza e nelle lussurie?

E non è forse questo stato anormale, che mantiene la rivoluzione in uno stato latente, ma inevitabile?

Le lezioni dell’Impero Napoleonico a nulla han servito dunque! Poichè si vedono i governanti, alunni di quello, marciare come prima alacremente verso l’abisso seguendo il sentiero tracciato dall’uomo che rovinò la Francia.

Io non capisco come si chiamino conservatori gli uomini che appartengono a tale sistema.

Cosa diavolo conservano? il marciume, ma questo—entrando nell’appannaggio dei vermi—porta già l’impronta d’uno schifoso passato.

Cotesti conservatori siedono perennemente sul cumulo di un vulcano, i di cui crateri tempestano sotto i loro piedi, e finiranno, riunendosi in uno solo, coll’esplodere la montagna ed inghiottirli nelle latebre della terra.

Io ho la coscienza di non appartenere a setta nè a partiti—vorrei vedere il mio paese prospero e rispettato—vorrei vedere gli uomini del capitale conformarsi ai progressi dei tempi presenti—e persuadersi che le masse d’oggi non devonsi guidare cogli espedienti del passato.

In tutti i tempi, quasi, i popoli si son governati coll’ignoranza e la violenza—cioè coi preti e coi soldati.

«Porque tal es mi voluntad—yo il Rey!» era la firma del re di Spagna.

«L’Etat c’est moi» diceva Luigi XIV.

La Spagna e la Francia provano oggi che quei tempi son passati—e se si pensa alle convulsioni cagionate dalla cecità ed ostinatezza di quei signori—credo i conservatori moderni, che somigliano certamente agli antichi—si persuaderanno di conservar nulla alla fine—e le nazioni pure procureranno di non ritentar le prove spaventose.

Perchè dunque non evitar il pericolo?

Sarebbe cosa facile: i tanti che mangiano per cinquanta, contentarsi di mangiare per venticinque.

Per persuadersi che i tempi sono cambiati, date un colpo d’occhio all’Austria. Chi non preferisce oggi la condizione d’un onesto contadino a quella ormai ridicola di cotesto imperatore e re?

Non vi par di vedere un cacciatore, cui una caduta ha mandato la gabbia in pezzi, faticantesi a correr dietro agli uccelli fuggiti e ben contenti di seguir ognuno la loro via liberissima nello spazio?

Poveri imperatori! Ed è strano vederne dei nuovi che—per la sventura umana—si aggraffano a troni putridi e maledetti.

Il lavoro presente avrà certo l’impronta della trascuratezza—per tanti motivi, ai più conosciuti—e per esser stato ripreso tante volte.

Finisco contando sulla vostra simpatia nel credere ch’io avrei desiderato d’esser capace di far meglio.

Caprera, 21 e 22 gennaio 1873.


G. Garibaldi.

I Mille

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