Читать книгу Casta diva - Gerolamo 1854-1910 Rovetta - Страница 3

I.

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— Opportunisti irresoluti, ambiziosi e... paurosi!... Nient'altro che interesse, vanità e paura! Hai capito?

— Sissignore.

— Il partito, il paese, l'ordine, le istituzioni! Hanno tutto sotto la suola delle scarpe quella gente là! Hai capito?

— Sissignore.

Chi si arrabbia e grida è l'onorevole, cioè no, Sua Eccellenza, o meglio l'ex S. E. Gerardo Parvis, appena arrivato da Roma col diretto della notte.

Ha «offerte» le proprie dimissioni da Ministro delle Poste e Telegrafi, nauseato della debolezza dei suoi colleghi che non hanno avuto nè il coraggio di tener testa all'ostruzionismo, nè l'abilità di disarmarlo.

— Mille volte meglio quegli indemoniati dell'Estrema Sinistra! Sinceri non sono nemmeno quelli là... accozzaglia di idee e di ideali che fanno a pugni. Tutt'insieme, non andrebbero d'accordo neanche loro nel proclamare ciò che vogliono, ma sanno però quello che non vogliono! Contro l'ordine, contro lo stato presente, contro le Istituzioni sono d'accordissimo sempre, tutti, come un uomo solo! E qualche volta riescono persino simpatici per la loro audacia, e hanno ragione di rider di noi e di non lasciarci più nemmeno il diritto di parlare! A che cosa siam ridotti noi? A un branco di pecore, di nullità, gonfi di quattrini, di boria e d'ignoranza. Dall'altra parte anche quelli che non hanno ingegno si affermano con la loro combattività... Dove manca il carattere, la coltura, abbonda la sfacciataggine e la violenza... È vero sì o no?

— Sissignore.

Chi risponde all'ex-Eccellenza è il suo vecchio servitore che gli disfa le valigie, mentre dal gabinetto attiguo alla camera da letto si sente il rumore dell'acqua che riempie la vasca del bagno.

— Furboni, sai, quegli Estremi, con tutta la loro retorica! Furbi e scettici... Gente di poca fede!... Sono i primi loro a ridere dei paroloni coi quali accendono la testa alla folla, ma almeno capiscono i tempi e nel cacciarsi avanti per conto loro, per le loro mire, cacciano avanti anche le loro idee, il loro partito...

— Sissignore.

Prospero, il servitore, è taciturno, quanto il padrone è verboso. Non risponde mai più che «sissignore» o «nossignore» e soltanto quando non può farne a meno. Ogni volta che il padrone arriva da Roma lo accoglie con un: «Ha fatto buon viaggio?» del quale si sente appena: «fat... bon... viag...» perchè il resto delle quattro parole si perde fra le labbra grosse e le rughe del faccione sbarbato, mentre un tenero luccichio degli occhi rivela un affetto intenso per il padrone, il piacere vivo di rivederlo.

— E così, capisci... L'onorevole Parvis, che si è levata la giacca e la sottoveste, siede sulla bassa poltroncina accanto al letto, mentre il servo gli leva le scarpe. — E così; quattro ossessi, ostinati, prepotenti, a furia di parole, di urli e di scenate, sono riusciti a metterci in un sacco e a violare la Camera nel suo diritto sacrosanto, che è poi anche il suo dovere: quello di fare le leggi! Basta, per Dio! Da parte mia, capirai bene, li ho piantati là e non mi ci pigliano altro! A Roma, capisci, non torno più!

— Non torna più a Roma? E il Governo da... comandare?

Prospero non dice queste parole, ma alza il capo, e fermo, colle scarpe fra le mani, guarda il padrone che gli legge la domanda negli occhi. Era avvezzo alle sfuriate del padrone e non udiva nè capiva tutto quanto egli diceva. Era forse anche per questo che l'onorevole Parvis si sfogava così, le sue parole si spegnevano, una dopo l'altra, come tanti fiammiferi buttati nell'acqua. Ma quella dichiarazione di non voler più tornare a Roma, ha fatto al vecchio Prospero una straordinaria impressione. E l'ex-ministro delle «Poste e Telegrafi» — gli avevano dato quel portafogli secondario, perchè in Italia, dove tutto va innanzi per anzianità, egli era parso troppo giovane per un ministero più importante — si sente lusingato constatando che il fatto veramente enorme del suo ritrarsi sull'Aventino, stupisce anche uno zotico testone come il suo servitore.

— Precisamente così! Li ho piantati con tanto di naso! Avranno capito adesso che non facevo per burla, allorchè ripetevo loro che io con i timidi, con i conigli non ci sto, assolutamente non ci sto!

Gerardo Parvis continua per un bel pezzo ancora, ma il vecchio — svanito quel lampo fugace di maraviglia — è ritornato impassibile ed accudisce metodicamente alle sue incombenze, prepara la biancheria calda e fredda, le spugne, le babbucce, tutto l'occorrente per il bagno.

Ad un tratto gli sfoghi dell'ex-ministro contro i colleghi e il silenzio rispettoso e affaccendato del servo, sono interrotti da un abbaiare festoso, poi da un quattire affannoso all'uscio, finché un bolide vivo si slancia contro le imposte a vetri e le spalanca... E un cagnolino lungo lungo, basso basso, dal bel pelo lustro, color marrone, dagli aurei riflessi di scarabeo al sole. Il cane si precipita addosso all'onorevole, gli salta sulle ginocchia e continua ad abbaiare e a quattire torcendosi e allungandosi per arrivare a lambirgli il volto.

— Teo! — esclama Prospero fermandosi ritto. E la luce che gli brilla negli occhi sembra gli spiani le rughe fonde della vecchia faccia. — Teo! Giù! Teo! Qui! Vieni qui!... Teo!

Ma tutto è inutile e anche il padrone tenta invano, con la voce, con le mani di sottrarre il volto alle leccate della bestiola che salta, si arrotola, si allunga e smania sempre più.

Il servitore continua a guardare il cane, poi si volta al padrone:

— Ha sentito subito la sua voce! Lo ha conosciuto subito! Teo! Bravo Teo! Povero Teo!

Teo, — diminutivo del vero nome, — Matteo, — salta fra i piedi del servitore abbaiando, dimenando la coda, dimenandosi tutto, piegando con mille vezzi il lungo testone intelligente dall'espressione umana, come per metter il vecchio a parte della sua gioia. Ma poi subito si volta, corre, si slancia verso il padrone e per raggiungere lo scopo salta sullo schienale della poltroncina e lo lecca sul collo e riesce, finalmente, a lambirgli la faccia.

— Basta! Fermo! Giù! — grida Gerardo un po' infastidito e nondimeno maravigliato e lusingato di tanta festa. Lusingato e commosso.

Quella sua casa d'uomo importante e influente, d'uomo politico e d'uomo di Governo, così piena di gente seccante, noiosa e interessata non appena è noto il suo arrivo, è altrettanto vuota e melanconica ogni volta ch'egli vi capita quasi improvvisamente, come appunto quella mattina.

Il: «ha... fat... bon... viag...» del vecchio servitore, e nient'altro.

— Teo! Teo! — Quel povero Teo! Quanta festa gli faceva e con quanta sincerità! Come gli riempiva il cuore e la casa di affetto e di allegria.

— Sta fermo, dunque! Giù, giù! Basta, Teo! Adesso basta!

... Ma le labbra sorridono, come continuano a sorridere gli occhi del vecchio Prospero che ripete sotto voce:

— Teo! Povero Teo! Ha conosciuto subito la voce!

— Ma se quando sono partito per Roma era un cucciolo di tre o quattro mesi appena?... Davvero! Io non mi ricordavo nemmeno più d'averlo!

— La povera bestiola no, invece!... Quando io mettevo mano agli abiti del signor padrone, Teo vi si sdraiava vicino, vi metteva il muso sopra... e mi guardava come se volesse domandarmi qualche cosa.

Teo capisce che si parla di lui: fermo, attento, fissa il padrone con gli occhi lucentissimi e piegando un po' la testina in atto di dolcezza affettuosa.

Il servo è andato a chiudere il rubinetto del bagno.

— Pronto!

— Vengo!

Ma Gerardo non si muove; accende una sigaretta e sempre sdraiato nella poltroncina accarezza le orecchie del cane che gli si è avvicinato e che messogli il muso sopra una gamba, socchiude gli occhi e sbatte le labbra, con un senso di delizia soddisfatta.

Il giovane ex-ministro, per altro, non pensa già più a Matteo. Quella festa, quell'accoglienza lo portano col pensiero a ricordi lontani, ma che erano sempre i più cari e i più vivi nel suo cuore.

Quasi ancora ragazzo era rimasto senza parenti, e gli anni dell'ardore e della bontà, li aveva dati ad una donna, — non la prima, ma la sola ch'egli avesse amato davvero, — una donna che ben meritava quell'omaggio assoluto di devozione e di passione, una creatura fatta di grazia, di bontà e d'intelligenza, una mente eletta ed un'anima grande, un cuore dolce, affettuoso, sapiente e indulgente, un cuore di donna innamorata.

La cara e fida e buona amica era morta da tre anni e il cuore del Parvis, dopo tre anni, era ancora pieno di ricordi e vuoto di persone. Soltanto il lavoro, un grande lavoro assorbente, e poi gli odi e gli amori, le passioni, le cure e le lotte della politica, lo avevano occupato, agitato e stordito.

Nient'altro!... Nessuna donna, mai. Nè la civetta che si offre, nè la bellezza che si vende.

Giovane ancora, nè la sua anima nè il suo sangue avevano mai avuto un fremito. Lei ancora, sempre Flaviana, soltanto Flaviana riappariva ai suoi occhi nelle brevi soste della stanchezza, ritornava a lui nel sogno.

Com'era stata bella, com'era stata buona! Bella, buona e sicura.

Egli era vissuto, a sua volta, sicuro dell'amore di lei, come di nessun'altra cosa al mondo; sicuro dell'amore, sicuro della fedeltà... E che gioia poter essere sicuro della donna che si ama... e che tormento dover sempre dubitare, sospettare, temere.

Oh, egli aveva saputo amarla in ragione di quanto aveva potuto crederle!... Allorchè si dubita, si disprezza, o si odia: si desidera ancora, forse, con tutto l'ardore, con tutta l'ansia, ma «amare», no; non si ama più.

Ed egli, invece, aveva potuto amare... aveva potuto amarla, sempre, senza una nube, senza una bugia mai, sino alla fine!... Buona, tanto, e bella!... Come rivedeva quel volto classico, pallido, nel quale ardevano i grandi occhi neri pieni d'amore e di devozione... Quanto il suo cuore, quegli occhi e quelle labbra erano stati sicuri! E come era intelligente e lieta e cara e pensosa... e come le sue ansie e le sue gioie, la sua anima e i suoi nervi rispondevano sempre al desiderio, al sogno, al «momento» dell'uomo amante...

— Cara!...

Come gli aveva riempito di sè il cuore e la giovinezza, senza mai attraversargli la via, senza mai essergli d'inciampo, senza mai dargli una pena!... Ed egli — allora! — a' suoi improvvisi ritorni da Roma, come saliva di corsa quelle scale, ansioso...

— C'è la marchesa?

C'era sempre! Il cuore di lei aveva immancabilmente il presagio del suo ritorno; e che festa d'amore quel rivedersi, che luce ne' suoi occhi e che baci per l'improvvisa gioia!

Teo sospira forte scuotendo il muso umido e fresco sulle ginocchia di Gerardo, che torna a fissare il cane, ma con una grande mestizia negli occhi umidi.

— Più!... Non c'è più! E da allora... sei tu, sei proprio tu il primo che mi fa un po' di festa, sincera, soltanto per me! Teo!... Povero Teo! — e Gerardo, scrollando il capo gli accarezza le orecchione calde e morbide come il velluto. — Anche di te posso essere sicuro?

— L'acqua del bagno diventa fredda.

— Eccomi! Vengo subito!

Gerardo si alza vivamente e finisce in fretta di svestirsi, mentre Matteo, preso da una smania di gioia, corre per le camere, gira su se stesso, torcendosi a semicerchio, attraversando a salti, innanzi e indietro, e il letto basso e la poltroncina, e mordendo per ischerzo, delicatamente, i piedi scalzi del padrone.

Casta diva

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