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XII
ОглавлениеSédan s’era già resa; a Porta Pia era stata aperta la breccia; era caduto l’impero Napoleonico; era finito il potere temporale… e in tutta questo gran rumore di avvenimenti il duca d’Eleda aveva perduto la testa e l’equilibrio. Soffriva di vertigini e chiudeva gli occhi, come li chiude il fanciullo impaurito dal bagliore di un lampo, quasi aspettando, da un momento all’altro, il fulmine che doveva scoppiare. Così, a occhi chiusi, il deputato di Borghignano in ogni città vedea la Comune e, dietro le spalle, sentiva gli ultimi crociati discesi per la restaurazione del trono papale. Ma, come appunto quel fanciullo di prima, trovatosi illeso dopo lo scoppio, riapre gli occhi, si guarda intorno e respira confortato, così anche Prospero Anatolio, veduta passar la Comune senza trascinar l’Italia con sè e Vittorio Emanuele salire il Campidoglio senza che la cristianità valicasse le Alpi, pur sempre maledicendo, in pubblico, al partito d’azione, si persuase, in cuor suo, come i clericali potessero vivere ancora e meglio in Italia, che in un altro paese, e non solo vivere, ma chi sa, governare… un dì o l’altro.
Passato dunque il periodo più minaccioso, nel suo animo tornarono a galla le personali aspirazioni e ritornò alla Camera col proposito di nuove audacie. Protestò contro i fatti compiuti; ma poi, quando l’arcivescovo di Borghignano volle ch’egli desse un salutare esempio col rassegnare il mandato, il duca d’Eleda, benchè duca, fece orecchie da mercante, ripetendo il ritornello. – Bisogna restare sulla breccia, bisogna sacrificarsi alla causa. – Rimase, e fu l’Orlando delle guarentigie. Per un momento, allora, egli ritornò in auge, e un’altra volta ebbe le sue giornate, se non di gloria, almeno di notorietà e nelle elezioni generali la candidatura del vecchio deputato di Borghignano, sostenuta dai neri del vescovado e dell’aristocrazia, trionfò di tutti gli altri colori.
Il 27 novembre 1871 il re d’Italia inaugurava in Roma il Parlamento, e a Roma Prospero Anatolio, che aveva giurato con restrizioni mentali, trovò buon terreno per i suoi cavoli.
Tra quei principotti rimasti fedeli al Vaticano, egli recitava la parte del Cittadino di Gand alla rovescia, acquistandosi una qualche importanza coll’autorità dei milioni, dell’influenza politica e dei titoli. Nè gli amori con Renata, venuta a Roma anche lei colla capitale, amori, che la vanità reciproca aveva resi pubblici in Roma, come già erano a Firenze, valsero, in quell’ambiente di corruzione pretina, a farlo scapitare nell’opinione dei più.
Prospero Anatolio non si vide in tutto l’inverno a Santo Fiore, e per parecchio tempo, contento della nuova vita, non fece alla moglie che rarissime improvvisate e sempre di sfuggita. La bellezza di Maria turbava ancora, in qualche notte di veglia, il sistema nervoso del duca; ma appunto, siccome le sue preghiere non riuscivano a commuoverla ed il suo male, dopo tali incontri, soffriva di recrudescenza, così, anche per rispetto all’igiene, diradò le visite.
Si faceva invece sempre più frequente e più tenera la corrispondenza con Lalla, la quale prodigava al babbo un’affezione morbosa, accompagnata da un grande sfoggio di espansioni. Era nell’indole della signorina di supplire colle apparenze esteriori a ciò che in fondo le mancava: un sentimento sincero; e però, quanto la mamma era fredda e ritenuta, altrettanto alla figliuola piaceva dimostrare calore e gaiezza: il contrapporsi era il suo gusto maggiore, e tanto più se poteva contrapporsi a sua madre.
E forse non le importava neppure di fare più così che così; l’essenziale era che tutto il paese sapesse ciò che faceva.
Il suo pubblico non poteva essere molto ammodo, ma la piccola donnina esordiente nella commedia della vita, faceva ogni sforzo per istrapparne gli applausi. Non era in età da suscitare intorno a sè rumore d’ammirazione o di scandalo; non avrebbe potuto dominare la moda, nè farsi eroina d’un dramma o d’un romanzo sentimentale; peraltro i suoi trionfi se li cercava e se li guadagnava. Una volta ebbe la soddisfazione di essere citata dal pergamo ad esempio delle giovinette per l’affetto figliale, per le sue penitenze e per i suoi digiuni, con un brano di ghiotta e ben digerita eloquenza che guadagnò a don Vincenzo i rimproveri della duchessa, una lavata di capo da don Gregorio, e le smorfie affettuose dell’istitutrice.
Lalla, come non somigliava punto alla duchessa nel viso, così ne differiva nell’animo. Ella era il carattere stesso del duca: lo stesso egoismo, e la stessa leggerezza.
Come Prospero davanti a sua moglie, così anche Lalla provava una certa soggezione davanti a sua madre. L’occhio limpido di Maria penetrava, scrutatore molesto e importuno, nella mente e nel cuore della giovinetta; e costei, che si sapeva sicura contro tutti gli altri, sotto quello sguardo si sentiva dominata e, con un certo dispetto, capiva che a sua madre non avrebbe mai potuto darla ad intendere.
Il marchese di Vharè, il Principe Incantevole dei suoi primi sogni, essa lo aveva messo da parte. Nel paese c’era un altro bel giovanotto, non nobile e meno ricco (era figliuolo del segretario comunale); ma poeta e filodrammatico; il genio di Santo Fiore.
A Sandro Frascolini la gente gli contava le amanti a dozzine. Tutte le più leggiadre ragazze erano sue innamorate; perfino la bellissima Ottavia, la bellezza regina, si comprometteva per lui, cosa che faceva intisichire la moglie del sindaco: e Lalla ebbe per Sandrino un capriccetto.
Lalla, nei suoi quattordici anni, non era bella, ma aveva quel tutt’insieme che è più pericoloso di molto, perchè è più raro della bellezza.
La piccola duchessina aveva i capelli maravigliosi che a giorni, stranezza, tendevano quasi al biondo, a giorni pareano castagni; e la stessa mobilità negli occhi, che passavano dal cinereo al verde cupo; languidi, appassionati, ingenui, modesti, ora saettavano lampi, ora non esprimevano altro che la più timida verecondia.
Snella, magra, di una magrezza flessuosamente voluttuosa, pareva, per l’eleganza del corpo, meno piccola di quanto era realmente. Solo le braccia aveva grassocce e belle con due fossette ai gomiti. Di quelle sue braccia, di quelle fossette, Lalla pareva innamorata, stava ore e ore a sedere sul letto, in camiciuola; piegandole, stendendole, ripiegandole, per ammirarne i contorni e l’azzurro pallido delle vene; poi si cacciava sotto le coltri baciandole con trasporto e con passione; come baciava la bianca Musette, la sua cagnuola cara, che spesse volte si udiva guaire fra le strette nervose della padroncina.
Dunque Lalla, pur non essendo bella, poteva piacere assai, e il giovane Frascolini co’ suoi vent’anni e con la conoscenza della vita che s’era procurato, mercè una lunga serie di associazioni alle Letture amene, ne rimase presto ammaliato.
I due giovani, nei primi incontri, non avevano sentito il sussulto arcano, il turbamento foriero delle grandi passioni. Niente affatto. Sandrino entrava in palazzo quasi ogni sera, per lo più con don Vincenzo, e si fermava nel tinello colle cameriere che lavoravano in bianco, col Castaldo, e col vecchio Ambrogio. La sala dove stavano le padrone era vicina al tinello, tanto che sovente ivi giungevano le voci dell’allegra brigata e allora molte volte, quando si udiva anche la voce di Sandrino, Lalla e Maria, colla famigliarità solita di chi sempre vive in campagna, andavano di là per pregare il giovane di qualche commissione od anche soltanto per scambiar due parole. Miss Dill, invece, non si faceva vedere in tinello se non c’era don Vincenzo, e uscivano insieme a passeggiare sotto il porticato, o lungo i viali. Il Frascolini, se ci teneva non poco alla sua professione di spasimante, in tutta il resto era un giovane di criterio. Egli non avrebbe neppure sognato che la duchessina potesse diventare sua conquista, o lui viceversa: tranquillo, economo, regolato, tutta l’ambizione la aveva riposta nei Due Sergenti, tutto lo scopo della sua vita era quello di poter diventare segretario comunale, quando suo padre fosse stato messo a riposo, come suo padre lo era stato dopo suo nonno. In quanto alle sue avventure amorose, la cronaca lo faceva più scapestrato che non fosse in realtà: cominciava solo adesso a filare il perfetto amore colla bellissima Ottavia, lusingato da lei; da lei spronato a fare il salto del Rubicone: cioè ad invadere le Provincie appartenenti al proprietario legittimo. Ma il ragazzo tentennava, misurava il fosso e le gambe, e ancora non si era risoluto al gran passo. Santo Fiore in quei giorni era stato colpito da una sventura; il fuoco aveva distrutto alcune casupole di contadini, lasciando nella più squallida miseria molte famiglie. Le pubbliche calamità sono la fortuna dei filodrammatici, e a Santo Fiore si potevano contare le disgrazie succedute in un certo periodo di anni, dal numero delle repliche dei Due Sergenti. Quell’incendio capitava propizio. Aveva fatto chiasso, la stagione era buona, c’era da aspettarsi una piena… Si sa che i dilettanti, come usavano gli antichi Romani, misurano l’importanza dei loro spettacoli dal numero delle vittime.
Lalla ancora non sapeva che cosa fossero nè i commedianti nè il teatro, ma la sua curiosità era stata desta dai facili entusiasmi della Pierina e della Nena, le due figliuole del vecchio Ambrogio, una delle quali, la Nena, aveva ottenuto di entrare al servizio particolare della signorina.
Già due o tre volte Lalla aveva pregato inutilmente la mamma che le permettesse di assistere ad una recita, e quel no ripetuto aveva cambiata la sua curiosità in un desiderio acutissimo; poi Maria le permise di prender parte alla serata a beneficio dei poveri incendiati; e la sera della rappresentazione, mentre stava preparandosi per andare al piccolo teatrino, le scappò detto colla Nena: – Come sono curiosa stasera di vedere che cosa sa fare il Frascolini!
– Eh! caspita! ci metterà tutto l’impegno, con una duchessa in platea!… Basta poi che la bella Ottavia gli lasci il tempo di vederla.
– Come?…
– Non sa che Alessandro spasima per la sposona dello speziale?
– Per quella pretensiosa?
– Sicuro; e ha piantato su due piedi la signora Veronica, che dalla rabbia voleva finire come i topi.
– La poetessa? – domandò Lalla, sorridendo.
– Sì, signorina. Con tutta la sua scienza, era così oca da lusingarsi che Alessandro fosse cotto per lei; con quel muso! Il ragazzo si mostrava compito, si sa bene; la Veronica è moglie del sindaco, come sarebbe a dire del suo principale…
– E dunque?
– E dunque quando ha capito che la preferita era la bella Ottavia, una domenica dopo la messa cantata, – pare che durante la funzione avesse() scoperto un certo telegrafo fra i due, – si serrò in camera, chiuse le finestre e, detto fatto, ingoiò uno scatolone intiero di fiammiferi!…
– Oh! graziosa!
– Per fortuna il signor Domenico, non so bene per quali faccende, doveva andare in camera sua; sale, la trova chiusa; bussa, nessuno risponde. Aveva veduto entrare sua moglie poco prima; torna a bussare più forte: lo stesso silenzio. – Che si senta male? – dice fra sè quel buon uomo e chiama la signora Veronica per nome, grida, urla, ma tutto indarno. Allora, spaventato, dà un colpo di spalla e, patatrac, fa saltar l’uscio dai gangheri: mamma mia! il signor Domenico si sente bruciare il naso, la gola, da un odore acre, che toglie il respiro; in camera era buio pesto, ma sul letto vede una luce azzurra, bigia, fumante, tremolare, muoversi, dilatarsi. – Che sia il diavolo?!… – Spalanca con un pugno le finestre e… indovini un po’, duchessina? La fiamma usciva dalla bocca della Veronica tutta impastata di fosforo. Quel mammalucco…
– Bada, Nena, è il tuo sindaco!
– Scusi del termine; per me dico pane al pane!… Quel mammalucco del signor Domenico si fa portare un secchio di latte, e di sopra e… e di sotto lo fa entrare nel corpo alla moglie!
– Ma Sandrino, quando ha saputo la tragedia, che cosa ha fatto?
– Che vuole?… Ha dovuto subirle tutt’e due; l’una per amore, l’altra per forza. È pieno di cuore, quel povero ragazzo, e bisogna dire che egli è anche un gran bel figliuolo; ha una carnagione bianca, morbida, come un pan di burro!… Senta, padroncina, non faccio per dire, ma prima di trovarne un altro, bisogna girare tutta l’Italia, e mezza Lombardia!
Ma la padroncina s’era fatta seria e non riuscirono a farla sorridere nemmeno gli spropositi della Nena. Il suo cervellino vagava, vagava molto lontano, e per la prima volta considerava Sandrino sotto il nuovo aspetto di conquistatore. Quella cronachetta di avvelenamenti e di gelosie prestava le ali cartilaginose ai nuovi pensieri della giovinetta, e a poco a poco l’oscuro figliuolo del segretario comunale si trasformava in un piccolo eroe da romanzo.
Quando Lalla entrò nel teatrino dei filodrammatici, il suo occhio cercò subito la Veronica e la bella Ottavia, e invece di seguire il dramma che si svolgeva sul palcoscenico, per tutta la sera fu assorta nell’altra commedia, appena abbozzata, ma che già la fantasia compiva dei tre noti interlocutori: Alessandro, Veronica, Ottavia. E Lalla era in buon punto per assistere anche a quella commediola. I direttori dello spettacolo l’avevano fatta sedere sopra il seggiolone del sindaco, portato là in mezzo al teatro, apposta per lei. Da un lato aveva la sedia vuota, dall’altro miss Dill, che di tanto in tanto, piegava la testa verso la porta, dove, mezzo dentro e mezzo fuori, c’era don Vincenzo, più unto e più rosso del solito, colla papalina sulle ventiquattro, che faceva il moscardino col brigadiere dei carabinieri, fumando un sigaro in barba ai decretali. Ma durante le situazioni commoventi del dramma, che assorbivano la attenzione del pubblico, penetrava egli, adagio adagio, in mezzo alla folla, e, giunto alle prime sedie, toccava nel gomito miss Dill, offrendole di nascosto la scatola aperta. Miss Dill lo guardava con gli occhi bramosi, e allungava due dita, gialle, che dopo aver deviato sulla mano del prete, si sprofondavano nella tabacchiera.
Ma la signorina, non aveva tempo di osservare quelle tenerezze, intenta com’era alle innamorate di Frascolini, sedute l’una di faccia all’altra, ai due lati opposti della platea.
La Veronica vestiva di nero; e portava nei capelli il suo mazzolino, ormai caratteristico: quel mazzolino dai sentimentali – non ti scordar di me – ch’essa chiamava: Ferghit menichts.
Nell’insieme, la sora Veronica somigliava moltissimo al San Luigi dell’Oratorio, composto di una testa di legno grossa e lunga, color singhiozzo, e di due assicelle in croce, coperte da una tonaca nera. Inseparabile, come il mazzolino, teneva fra le mani, nelle sere di rappresentazione, il libretto dei Due Sergenti, e, sensibilissima, nei momenti che il dramma volgeva al tenero, una goccia gialla le tremolava sotto la punta del naso.., Era una lacrima che la Veronica raccoglieva nel libro con una rapido scrollar della testa.
Molte volte, per altro, quella furtiva lacrima era avvertita dalla bella Ottavia, che ne rideva malignamente, ricercandone la cagione in una fistola. Del resto l’Ottavia, un bel biondone davvero, sentiva più disprezzo che odio per la rivale. Fiera della sua pinguedine soda e sana, credeva fermamente che dell’amore se ne comperasse così a un tanto al peso. Guardava dall’alto al basso la sindachessa, con certe occhiate tra la sfida e la compassione, e, guardandola, allargava con le dita gli orli del busto, sempre troppo stretto per contenere le dovizie del seno, che coll’altalena della respirazione faceva soffrire il mal di mare alla fotografia del signor Niso, che luccicava, legata in oro, sulle carni fresche e rosee della sposona.
Scarso presidio per quelle alture insidiate!
Il Frascolini, anche dalla scena non la perdeva di vista; e quando la tela era calata, si scorgeva dai buchi del sipario il suo occhio fisso guardare, guardare, sebbene qualche volta, per forza si facesse vedere a lanciare un’occhiata assassina anche sull’altra infelice, che allora, allungava il collo voltandosi verso l’Ottavia con una faccia che voleva dire: – Ha guardato me, crepa di rabbia. – Quella corrispondenza d’amorosi sensi veniva poi interrotta, durante la recita, perchè Alessandro temeva di perdere, come si suol dire, la battuta.
Assolto dal peccato di origine non c’era proprio malaccio nel giovane attore; a quel tanto che mancava d’arte suppliva coll’esercizio e colla persona maschia e bella.
Tutte le contadinotte se lo contendevano, ammirandolo; e intanto celiavano sopra la Veronica e invidiavano la bella Ottavia… e Lalla vedeva quest’ultima insuperbire del suo trionfo.
Ma dove Frascolini proprio furoreggiava, era nel finale dell’ultimo atto, dopo la famosa traversata. Compariva sulla scena coi capelli arruffati, il petto e le braccia nude, pallido in volto; e allora col fascino della voce bellissima e della parte da eroe faceva impressione anche su Lalla.
– E così, s’è divertita?. – domandava la Nena alla padroncina, mentre l’aiutava a spogliarsi.
– Abbastanza.
– Ha sentito com’è bravo Alessandro?!… Ha veduto com’è bello?!… E la sindachessa col libretto della lavandaia? Smorfiosa! Ma l’Ottavia non deve aver paura di lei, nè di nessuno: è la più bella del paese. Ha notato come lo guardava?… Pareva lo volesse() mangiare coi baci! – E la Nena continuò sul medesimo argomento fino a che Lalla, volendo troncare il discorso, s’inginocchiò per dire le sue preghiere.
– Buona notte, duchessina.
Lalla rispose con un cenno del capo, e la cameriera, mentre usciva, vide la piccola devota ripetere tre o quattro volte, rapidamente, il segno della croce, baciare e ribaciare la medaglina della Madonna che teneva al collo. Le orazioni durarono molto tempo; i baci fervorosi furono ripetuti, si segnò ancora prima di coricarsi; ma con tutto ciò la signorina passò una notte agitatissima.
La sua mente era presa dal giovane filodrammatico e il sonno tardava a venire. Pensava, con dispetto, alla superba sicurezza dell’Ottavia e alle parole della Nena che l’avevano offesa, quantunque alludessero alla signora Veronica.
– Come? – non deve aver paura di lei, nè di nessuno?… – Eppure… eppure, se volessi, potrebbe diventar gelosa di me, la più bella del paese; e che dispetto, quella goffa, dovrebbe allora sentirne in cuor suo!… Ma, e se il Frascolini fosse proprio innamorato?… Che cosa si diranno mai quando si troveranno soli, lui e l’Ottavia? Diranno di volersi bene?… – Come si fa a volersi bene?… – e la mente della giovinetta si affaticava dietro un ignoto pieno di seduzioni nuove e arcane, un ignoto che il sangue cominciava allora a rivelarle.
Pareva lo volesse mangiare coi baci!… Un bacio?… – e Lalla baciava e ribaciava le sue piccole mani, le braccia rotonde, per capire cos’erano mai, come potevano essere quei baci che mangiano. Si addormentò alla fine, ma dormì male. Vedeva muoversi una figura di uomo, avvicinarsi e allontanarsi da lei, senza mai sparire. Quell’uomo ora pareva Sandrino, ora il marchese di Vharè, poi di nuovo Sandrino come l’aveva veduto nell’ultima scena del dramma: col petto nudo, colle braccia nude, coi capelli arruffati; e si faceva sovente così vicino, che la fanciulla ne sentiva il tepore.