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XIV

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Le visite di Prospero Anatolio a Maria si erano fatte a mano a mano più frequenti.

Egli si trovava in un momento di sconforto e di tristezza: di sconforto, perchè come uomo politico aveva fatto un capitombolo; di tristezza, perchè la Haute-Cour era ritornata a Parigi, dove suo marito aveva avuto un impiego importante al Ministero degli affari esteri.

L’Onorevole di Borghignano era stato preso dalla fisima di voler creare un nuovo partito politico che dovea intitolarsi Cattolico di Sua Maestà o Conservatore, o qualche cosa di simile. In una parola era uno di quei tanti pasticci dei quali ciascuno mangia una fetta brontolando dopo che si è disgustato la bocca e lo stomaco. I moderati se ne servirono per i loro connubi durante le lotte elettorali: poi lo sconfessarono perchè era un partito anticostituzionale; e i clericali, adoperatolo come mezzo di passaggio nelle pubbliche amministrazioni, non ne vollero poi più sapere, perchè i Cattolici di S. M., riconoscevano il regno dei buzzurri. Credendo di aver innalzato un edificio, Prospero Anatolio non aveva eretto altro che un impalcato che viene demolito appena compiuta la fabbrica.

E in quanto alla separazione del duca d’Eleda e della baronessa Renata… fu una grave, una dolorosa separazione, specialmente per il duca. Oltre la perdita della donna, Prospero Anatolio aveva tutte le consuetudini da rompere e da rifare; si trovava sbilanciato, gettato fuori dell’orbita, privo del centro di rotazione, dove la sua vanità poteva sfoggiare tutti i suoi apparati, dove egli passava ed era fatto passare per un grand’uomo, e dove le sue idee, le sue aspirazioni, i suoi gusti trovavano sempre una corrispondenza simpatica. Adesso, e a quell’età, come avrebbe potuto sostituire la Haute-Cour?… Non c’era più che sua moglie: e a tal uopo egli andava e tornava assiduo, persistente, a Santo Fiore, alleandosi quel buon don Gregorio, il quale, pover’uomo, circondato, abbindolato con ogni arte, era rimasto preso dalla diplomazia e dalla politica del duca d’Eleda, che per la prima volta, fra le tante, era riuscito ad ottenere un buon successo.

Nulla di meno la posizione rimaneva sempre la stessa; e anche quest’ultima visita era terminata col malumore di Prospero.

Quella sera, dopo la partenza del babbo, Lalla era nel salotto rincantucciata nella poltrona, spettinata, cogli occhi e il naso rossi, tutta avvolta nello scialle, perchè sentiva, o almeno dicea di sentire, quei brividi di freddo che corrono fra carne e pelle, dopo un pianto dirotto. Ma, mentre tutte le altre volte in simili casi usava di ritirarsi per tempo, quella sera invece ai fermò dopo il pranzo, e quando udì la nota voce di Sandro diede una scappatina in tinello, dicendo alla mamma che lo volea pregare di serbarle vivo il primo cardellino maschio che gli capitasse in ragnaia. Il cardellino, naturalmente era un pretesto; ma da ciò non è lecito supporre che l’amicizia fra i due giovani fosse in così breve tempo diventata più intima. Sandro era ancora le mille miglia lontano dall’immaginare la fortuna, o la disgrazia, che lo aspettava. Se non che da quel giorno i discorsi della signorina lo impacciavano; erano sempre pieni di frizzi, di allusioni ai suoi amori, allusioni e frizzi che lo facevano poi andare in bestia contro quella chiacchierona della Nena. Quando Lalla lo pregava di alcune commissioncelle, compere di lana, o di lapis, o di carta per il disegno, nelle gite che egli frequentemente faceva in città, o quando si tramava qualche clandestino passaggio della biblioteca circolante – basta – soggiungeva Lalla – basta che la signora Ottavia non se n’abbia a male; – oppure: – mi raccomando, non lo sappia la signora Ottavia, se no mi leva gli occhi!

Il giovinotto restava muto, e arrossiva; ma pur si sentiva lusingato della buona opinione che Lalla aveva di lui. Quella parte di seduttore fortunato non gli spiaceva punto. Ma le cose, intanto, non progredivano; l’amicizia era stazionaria, ci voleva una qualche occasione: e poichè l’occasione non manca mai di venire, quando c’è chi la vuole, così capitò anche al Frascolini, la sera stessa che si maritò la Pierina, la sorella della Nena, l’altra figliuola di Ambrogio.

La duchessa d’Eleda, che aveva fatto tenere a battesimo la Nena, fece anche cresimar la Pierina. Ambrogio, a Santo Fiore, s’era guadagnata una condizione intermedia fra il pensionato e il servitore. Era l’unica persona, quel vecchio, che a Maria ricordasse sua madre, la povera contessa, la quale, paurosa dei cavalli com’era, non si fidava che di lui solo, e quando usciva in carrozza, non voleva saperne d’altro cocchiere.

Ambrogio, entrato fanciullo in palazzo, s’era ammogliato là dentro; là dentro aveva veduto crescere le sue figliuole; là dentro moriva rispettata, soccorsa, la sua compagna, e anche lui non ne sarebbe uscito che per andare a raggiungerla in camposanto. Maria, che per tutto ciò gli voleva bene, non solo aggiunse del proprio alla piccola doterella della Pierina, ma le regalò un buon corredo, e volle che la sera degli sponsali si facesse il rinfresco in una stanza del palazzo – uno stanzone grandissimo, a terreno, che metteva in giardino – e finalmente con una finezza di sentire che fece piangere il buon uomo di commozione e d’orgoglio, volle che sua figlia e miss Dill assistessero alla piccola festa.

Dagli sposi e da Ambrogio erano stati invitati al rinfresco il sindaco con la sua signora, don Vincenzo, padre e figlio Frascolini, il medico condotto, il farmacista e la Ottavia. Tutti costoro, in certo modo, rappresentavano le autorità, la parte eletta della riunione, quantunque anche il cuoco, la Luigia e Lorenzo, avessero molte pretese.

L’ampio locale era abbellito con frasche di semprevivi, con tappeti e con tende, vecchie e stinte, che di sera facevano ancor buona figura, ed era illuminato da lucerne di diverse epoche e di diverso sistema, candelabri scompagnati alti e bassi e, all’intorno, attaccati al muro con cordicelle, a due a due, tutti i fanali delle carrozze, lustri e belli che parevano di argento. Il rinfresco doveva consistere in una focaccia, paste, caffè, liquori, vino rosso, Asti spumante e castagne a lesso e arrosto; ma il cuoco, d’accordo colla Luigia, aveva preparato una sorpresa; il suo regalo di nozze agli sposi; un enorme tacchino farcito() e un croccante, rappresentante la torre di Sebastopoli, che teneva chiuso fra le mura il solito canarino. Don Vincenzo, richiesto, aveva ceduta per la festa e fatta trasportare a proprie spese la spinetta del Coro, e l’organista, che era anche maestro di scuola, veterinario, amico del sindaco, di Ambrogio, del signor Niso e nemico dichiarato del medico, suonava, con maggiore agilità in chiave di violino che in chiave di basso, il valzer, la polca, la mazurca, tutto a tempo di marcia, per non generar confusioni.

La Pierina era vestita di bianco, come una sposa di lusso. Quel vestito era un regalo della padrona, uno de’ suoi rifiuti, che la buona ragazza avea messo da parte per tirarlo fuori appunto il dì delle nozze, e pareva nuovo, così attillato a quel suo corpo fiorente, dal quale traboccavano felicità, amore e salute.

Quella però che più di tutte spiccava per la eleganza e lo sfarzo era la maestosa moglie del farmacista, con un bell’abito nuovo fiammante, lana e seta, color sangue di drago, scollato, da far vedere certe cose di cui Giunone sarebbe rimasta invidiosa. Il sesso maschile le era sempre vicino, d’intorno, di dietro, davanti, con un orgasmo, un calore, che veniva tutto da lei. Don Vincenzo; il quale con miss Dill sembrava prediligere un altro genere di bellezza, pure le discorreva serrato alle sottane, col naso rosso, le labbra tremanti e, se abbassava gli occhi sovente, non è che guardasse per terra. Tutto questo entusiasmo, mentre indispettiva e faceva allungare il muso a Sandrino, sollecitava invece l’amor proprio del signor Niso, più rifinito, più sfrittellato, più malandato del solito, il quale, in un cantuccio della tavola, pelava un piatto di castagne lessate, colle unghie orlate di nero, che ricordavano tutti gli empiastri della farmacia. Ed egli le pelava, quelle bollenti castagne, le pelava con ogni cura, poi le infilava colla punta del coltello e le offriva in giro alle signore. Di tanto in tanto l’Ottavia, quella sera tutta moine e carezze con lui, per ricompensarlo della spesa dell’abito, gli passava da canto, allargava la bocca, e il signor Niso v’introduceva una tigliata, scoccandole dopo qualche buffetto sull’abito per far cascare le briciole di focaccia o di zucchero, che vi s’erano fermate sopra; e, quand’ella si allontanava le teneva dietro cogli occhi, sospeso, col coltello nell’una mano e la castagna da pelare nell’altra, e pareva, dall’espressione del viso, che egli rifacesse mentalmente la somma di tutto quanto gli era costato quell’abito, di fattura, guarnizioni, fodere e stoffa.

Ma non era l’egregio farmacista, era piuttosto la signora Veronica quella che più si doveva compiangere. Quasi non bastasse per la sua piena sventura la stoffa lana e seta, color sangue di drago, c’era di più il Frascolini, geloso e attento all’Ottavia, e che non aveva ballato o discorso con lei neppure una volta; trascuranza proprio imperdonabile, stata notata con dispiacere anche dal signor Domenico che ne fece le proprie lagnanze con Frascolini padre, nella sua triplice qualità di marito, di amico e di sindaco.

Anche il canarino, il canarino prigioniero nella torre del croccante, giocò alla signora Veronica un tiro birbone. Appena demolita Sebastopoli, l’uccelletto, fra le risa e le grida dell’allegra comitiva, uscì vivo di sotto i minuzzoli e andò a svolazzare attorno al soffitto. Allora gli uomini, che volevano lasciar la mano alle signore, rimasero fermi, mentre la parte gentile della brigata, in sciame, correva di qua e di là, perseguitando l’innocente volatile, spaventandolo coi fazzoletti, o colle bucce delle castagne, quando si fermava sui quadri, o sulla cordicella dei fanali, o sullo stipite delle porte. Solamente la sposa, che approfittava della confusione generale per lasciarsi prendere qualche piccolo acconto dal marito, e la bella Ottavia, che temeva sciupare la veste in quelle strette, si tenevano discoste, attente allo spettacolo. Il povero canarino aveva già corsa tutta la stanza, in giro, un centinaio di volte; ma dàlli e dàlli, chi la dura la vince; colpito in mezzo al corpo da una castagna, precipitò dritto in un angolo, rasentando il muro, sfinito, con le ali aperte, distese. La Veronica, ansante anche lei, e colla gocciola al naso, gli si avvicina piano piano, in punta di piedi, fa cenno alle compagne di scostarsi, e gli è addosso col fazzoletto, ma il canarino trova il verso di fuggire ancora, e volando di traverso, passa così vicino all’Ottavia, che lo prende di colpo, con tutte due le mani.

Il baccano fu indiavolato, lo schiamazzo assordante, e le più sfacciate allusioni non rispettavano nemmeno la veste di don Vincenzo; mentre la Veronica diventava verde dalla rabbia, Sandro diventava pallido per il dispetto, e saliva un pudibondo rossore sulla fronte onorata del signor Niso.

Lalla e miss Dill si recarono dagli sposi dopo che Maria era andata a dormire, e ciò per non lasciarla sola tutta la sera, e per non mettere in soggezione gli ospiti, finchè mangiavano il tacchino e il croccante. Infatti, quando si presentò la duchessina coll’istitutrice. la brigatella si mostrò un poco intimidita e vergognosa: nessuna sapeva più come muoversi, nè quali discorsi incominciare e i più arditi tentavano appena una scempiaggine a mezza voce, coll’aria di voler dire: – Guardatemi, che io non soffro di soggezione! – Soltanto la Nena e la sposa, l’una per dimestichezza, l’altra fatta ardita dalla felicità che le schizzava dagli occhi, furono attorno, con ogni festa, alle due signore, mentre Ambrogio guardava fra le lacrime la figliuola della sua padroncina, la guardava con le mani giunte, come la Madonna, povero vecchio, senza essere buono d’infilare una parola sola di tutta la grande poesia d’affetti che gli prorompeva dal cuore. Il sindaco, che altre volte si era trovato con Lalla, fattosi animo, ruppe il ghiaccio, e presa per mano la Veronica, con un discorsetto di circostanza la presentò alla duchessina; cosa che il signor Niso non ebbe mai il coraggio di tentare, quantunque vi fosse spinto dall’Ottavia con certi pizzicotti nelle braccia da lasciarvi il livido.

Lalla fu amabilissima colla Veronica, forse per mortificare quell’altra, e si congratulò con lei per i bellissimi versi che la sindachessa aveva dati alle stampe in onor della sposa; versi che incominciavano così: – Bella, immortal, benefica – fiamma ai tormenti avvezza… Questa fa l’unica soddisfazione ch’ebbe la Veronica in tutta la sera; ma fu per altro una grande soddisfazione!

Intanto, a poco a poco, l’affabilità e la scioltezza della signorina avevano rimesso il buon umore nella festicciuola. L’organista, che aveva approfittato dell’interruzione per rifarsi col vin rosso e coll’Asti spumante, ricominciò, sulla spinetta, una mazurca strisciata. Lalla e la miss, ci s’intende, non presero parte al ballonzolo, e anche don Vincenzo, che si era dato al serio, stava seduto vicino a miss Dill e le faceva una corte silenziosa, interprete e complice la tabacchiera. Ma tuttavia, se il reverendo poteva rinunciare alle occhiatacce sull’Ottavia, non sapeva dividersi da quel vinello rosso, limpido, abboccato, con una punta di sale, e, colla scusa di offrirne alla miss, se ne teneva sempre accanto un vassoio coi bicchieri colmi. Le coppie che avevano cominciato a muoversi composte, serie ed attente, volendo mostrare alle signore la loro singolare perizia, terminarono presto, eccitate dal calore del vino e dall’ardore dei sensi, a ballare per il piacere di ballare e di stringersi, a suono di musica. Composta, grave, arcigna, la signora Veronica, col suo vecchio vestito di seta nera, ballava col signor Francesco, il cuoco della duchessa, tenendosi impettita e impalata dinanzi al ballerino, col mazzetto di Verghiss che le batteva il tempo sul capo, serrata nell’abito fino al mento, perchè non potendo, pur troppo, essere impudica, come quella sporca dell’Ottavia, si sfogava sfoggiando il suo permaloso pudore di donna magra. Il signor Francesco le insegnava il modo di montare la crema e di farla spumante; ma la donna istruita aveva ben altro da osservare; teneva fissa la coda dell’occhio, augurandosi fosse avvelenata sopra Sandrino e quell’altra che, così stretti, riscaldati dall’alito e dall’ardore reciproco, avevano rifatta la pace e si scambiavano torrenti di voluttà cogli occhi, colle mani, colle ginocchia, dimentichi affatto del mondo e del signor Niso, il quale, per incarico avuto da Ambrogio, preparava lo zucchero nei bicchierini del punch con parsimonia e giusta misura. Sandrino e l’Ottavia formavano la coppia più scandalosa; peraltro dopo quella degli sposi, che ballavano sempre insieme, che perdevano il tempo spessissimo, e allora, vergognandosene, fuggivano a nascondersi, non si sa dove, per riapparire poco dopo, l’uno dietro all’altra, lui pallido, lei rossa rossa, spettinata e coll’abitino bianco sgualcito, rincantucciandosi quieti vicino al dottore, intento nel raccontare a Lorenzo le sue gesta del quarantotto.

Lalla per forza aveva dovuto accettare da Ambrogio due dita di vino santo, vecchio di dieci anni e, non essendoci abituata, le ronzava nella testa e nelle orecchie, mentre si sentiva bruciare la faccia e la gola dall’afa, dal caldo che faceva là dentro. Tutte quelle persone le passavano dinanzi confusamente; ma le libere carezze degli sposi, la voluttà acre di Sandra e dell’Ottavia, dovevano per forza colpire anche i sensi della fanciulla.

E la Nena le sussurrava all’orecchio e la faceva osservare i due gruppi. – Ma che cos’ha, padroncina, sta poco bene?…

– No… un po’ di caldo!…

– Ha ragione, qui dentro si soffoca; faremo aprire. Babbo… – e la Nena corse da Ambrogio, il quale, quando seppe che la padroncina aveva caldo, non domandò il permesso a nessuno e spalancò tutte le porte. L’aria pura che invase la stanza fu accolta con un grido di gioia, e le coppie dei ballerini uscirono fuori sparpagliandosi sotto il portico, e lungo i viali, in giardino. Era una sera punto fredda; c’era del resto tanto amore e tanto vino in quella gente, da sentir caldo anche sotto la neve. Soli, nello stanzone, rimasero la Veronica e il cuoco. La fiera sindachessa non lo lasciava più scappare, sperando di renderne geloso il Frascolini, che passeggiava a braccio dell’Ottavia, superba di lui e del fru fru cadenzato del suo strascico sangue di drago. Ma il signor Niso aveva finito lo zucchero, le castagne eran tutte pelate, e, tanto per non stare in ozio, imbacuccato, venne fin sulla porta ad ammirare la moglie.

– Quel seccatore mi tiene d’occhio – disse l’Ottavia all’amico; – abbi pazienza, vo e torno. E con la maestà che le era particolare, si avvicinò scodinzolando al marito, pregandolo con una carezza di annodarle dietro la vita lo scialle con cui si era coperta. Sandrino intanto, non sapendo che fare, andò in cerca della duchessina, che del resto aveva già profondamente riverita al suo primo apparire. Essa, miracolo, non aveva miss Dill alle costole. L’inglese cominciava a soffrire d’emicrania, a star chiusa, e, per riaversi, passeggiava con don Vincenzo in giardino…

Lalla, senza udire le parole, aveva indovinata la manovra dell’Ottavia, e perciò si sentì pungere vedendo che il giovinotto la faceva servire da comodino.

– Bravo, signor Alessandro!… nemmeno un giro di polca!

– Se mi fossi appena immaginato ch’ella si potesse degnare…

– Via, via, non dica bugie; per me non c’è tempo!

– Scherza, lei, scherza… ha sempre voglia di scherzare…

– Ma, intanto, nemmeno un giro di polca; e questo è un fatto vero.

– Le ripeto e le giuro, signora duchessina, se io avessi supposto, solamente supposto la sua degnazione, sarei stato tanto felice che…

– No, no; era felice abbastanza, per non voler esserlo di più.

Quelle due dita di vin santo non erano ancora svanite dalla testolina di Lalla, e le davano ardire, quantunque, per sua natura, non ne avesse bisogno.

– Ma non sa, signorina Lalla, che per ballare un giro di polca con lei farei voto, come Tristano di Rocca Bruna – era questi un eroe sentimentale le cui imprese, ridotte in cinque atti, erano destinate a succedere, un giorno o l’altro, nel teatro di Santo Fiore, alle lacrimevoli vicende dei Due Sergenti – farei voto di non ballare mai più, mai più, per tutta la vita?

Lalla, a questa scappata, rispose ridendo con un riso lungo, fresco, sonante. – Vorrei quasi provare per vederla in un bell’impiccio.

– Ebbene, provi dunque: io le giuro di mantener la promessa. – E il giovane con la testa in fiamme per aver bevuto un po’ troppo anche lui, per il caldo, per il lungo contatto coll’Ottavia, ma più che altro per l’influenza arcana esercitata dallo sguardo vivo, appassionato, ammaliante della fanciulla, e da quella sua personcina carica di elettricità, sentiva, con quel giuramento, di essere quasi sincero.

– Ma… e la signora Ottavia?

– La signora Ottavia?… che c’entra?

– No? non c’entra la signora Ottavia? davvero davvero?… Vediamo, dunque, ecco la destra, bel cavaliere, il giro di polca è concesso; ma non qui… no, no; laggiù sotto la rotonda, in giardino! – e la fanciulla si avviò di corsa, e Alessandro dietro, lungo i viali dei carpini, interrotto nel mezzo da un pergolato di glicine, eretto sopra la statua di una Cerere di marmo bianco.

Lalla, correndo sempre, era già alla rotonda, quando si fermò di botto, indicando al compagno d’inoltrarsi adagio e di non pestar sulla ghiaia: Sandrino, trattenendo il respiro, la raggiunse in punta di piedi. La notte era chiara e serena; la luna pallida senza nubi e senza nebbia.

– Guardi, guardi là, dietro il rosaio… la Pierina! – Alessandro guardò: dietro una siepe di rose selvatiche vide una figura bianca e, più su, il disegno tozzo di un cappello da uomo. Gl’indiscreti, pian pianino, si avvicinarono tanto da udire distintamente il mormorare sommesso delle dolci parolette e dei baci. Lalla ascoltò qualche minuto, poi, stizzita di non poter udire di più, raccolse un pugno di ghiaia e la gittò nel roseto, spaventando i due colombi, che, dopo un grido acuto della Pierina, presero il volo, attraverso le aiuole, nella direzione del palazzo.

– Cattiva – disse Alessandro sorridendo – cattiva, cattiva!

Lalla non rispose: seria, pensierosa, sedendosi stanca presso la Cerere, posò la fronte sul piedestallo, per sentire il freddo del marmo. Anche il giovanotto aveva perduta la voce e ritto, di contro a lei, colla testa bassa un braccio appoggiato alla statua, ammirava il contorno serpentino della fanciulla fantasticamente illuminato dalla luna, in mezzo a tutto quel mistero di ombre e di tenebra.

– Come deve essere bello il volersi bene! – diss’egli alla fine, concludendo un discorso, pensato in due lungamente.

– Lei dovrebbe saperlo – soggiunse Lalla alzando il capo e stringendosi attorno la mantellina con un brivido di freddo.

– Lo indovino, lo sento; ma creda, signora duchessina, non l’ho mai provato. – Sandro capiva allora, la prima volta, che la sua passione per la bella Ottavia era desiderio, era voluttà, tuttociò insieme confuso, ma che non era l’amore; capiva, la prima volta, che l’amore non doveva, non poteva essere nè il rimorso, nè la febbre dei sensi; ma una dolcezza ineffabile, pura, tranquilla, un sentimento nobile, elevato, più forte e più sano.

– Se lo sentisse a parlare così, mi dica, che cosa le pare che ne penserebbe la… la più bella del paese?…

– Forse… penserebbe come me. E il nostro giro di polca? – domandò il giovane volendo cambiar discorso.

– Eh sì, ma qui ci manca l’orchestra. È vero che i poeti con questo bel cielo, trapunto di stelle, sentirebbero l’armonia del creato; ma, sventuratamente, non può servire per musica da ballo!

– Eppure… la sua promessa?

– Come si fa? non avevo pensato che qui non si sentisse la musica: e poi, sa, ho imparato da lei a non essere di parola; da un mese, non mi manda più un libro.

– Ma… io… io non…

– Non ho tempo di pensare a lei. – Questo mi vuol dire?

– No, no, mi creda. Se lei sapesse che cosa provo in questo momento… – e il giovane s’interruppe. Lalla lo fissò coi suoi occhi lucenti, pieni di interrogazioni; ma il giovane non rispose.

– Se domani le mando la Nena, si dimenticherà ancora di prepararmi i libri?

– No.

– Davvero? mo lo promette? Non si dimenticherà di… Non si dimenticherà?

Che cosa voleva dire la signorina? Che cosa gli raccomandava di non dimenticare?

– Le giuro… non potrei… Mi ricorderò: lo prometto! – rispose Alessandro con vivacità, e tutti e due perdettero di nuovo la parola; ma questa volta si guardavano tutti e due negli occhi.

– Già – disse Lalla dopo un momento – come vuole che la signora Ottavia possa essere gelosa di me?… Il giovane tacque, e guardandola sempre, trasse un profondo sospiro.

– E… lei, vuol proprio bene, lei, a quella signora?

– Non so.

– Non sa? Bel caso! – esclamò Lalla ridendo con uno di quei rapidi passaggi che mostrano la volubilità del carattere. – Bel caso! a Santo Fiore, saranno in due soli a non saperlo: lei e… e un altro.

– Orbene, sì; non voglio più oltre mentire: ma pur confessandole che un giorno, ieri, ancora questa sera, ho potuto credere di voler bene all’Ottavia, le giuro per altro che amarla, amarla proprio coll’anima, non l’ho amata mai. Io non so, non posso spiegarmi; ma capisco, sento benissimo che una fanciulla soltanto può ispirare tanta sublime poesia!… Una fanciulla casta, ingenua che, amando, non commette una colpa, e non la fa commettere; una fanciulla che si può adorare e stimare, superbo, orgoglioso di lei, apertamente, sotto la faccia del sole, perchè l’amore ha bisogno della luce come la vita!…

– Una fanciulla che fosse bella, buona… la Pierina, poniamo?

– Oh, no! – esclamò il filodrammatico, colto così, all’impensata. – La Pierina no; è bella, ma non mi farebbe battere il cuore.

– La Rinaldini?… ah quella le piace. Non la ricorda la cugina del marchese Rho?

– No, no; nemmeno…

– Allora sa che cosa le devo dire? – Io me ne lavo le mani; è troppo difficile da contentare. La Pierina, no, la Rinaldini nemmeno; come la vorrebbe dunque?…

– Come la vorrei?… – e il povero Sandrino, al quale il freddo della sera aveva fatto un po’ di bene, s’interruppe quasi atterrito di ciò che stava per dire.

– Dunque?! Coraggio!… ci sarebbe forse il pericolo che non sapesse nemmeno lei come la vorrebbe?

– Oh! lo so; ma è su, su, tanto in alto, che io non dovrei, non potrei… non posso nemmeno guardarla!…

– Peccato; in questo caso, non mi saprà dire se è bella o brutta.

– No, no, non devo… non devo dir nulla! Senta, è meglio ritornare; fa freddo qui, e le potrebbe far male.

– Teme che la signora Ottavia cerchi di lei?

– No, non ho paura della signora Ottavia, ma ho paura della mia testa; della mia testa che brucia; e poi, se vuol saperlo, ho paura di lei…

– Di me?… arrivare fino alla paura, è proprio un po’ troppo!

– Vorrebbe dirmi, almeno, perchè lei si diverte tanto a prendersi gioco di un povero diavolo?… Da mezz’ora sento, e provo ciò che non ho mai sentito, nè provato in mia vita. Divento pazzo o che cosa divento? Non so… solamente so, che lei è tanto bella… e che mi fa perder la testa!…

Bella!… era la prima volta che un giovane diceva a Lalla questa parola, e perchè sapeva di averla guadagnata, provò insieme con la soddisfazione della vanità, anche tutta la gioia di una vittoria. Sandro la vide sorridere avvolgersi nella sua mantellina, come per nascondersi agli occhi dell’ardito compagno, abbassar la testa, arrossire… egli credeva di modestia; ma la fanciulla arrossiva di piacere.

Povero Frascolini, povero illuso! Egli vedeva svolgersi uno dei capitoli più romantici della biblioteca circolante: quella fanciulla che arrossiva alle sue parole, sola con lui, al chiaror della luna, bionda, duchessa, egli la fece scendere, a poco a poco, fino a sè, confidente, sincera, innamorata; e troppo ingenuo, troppo inesperto, troppo esaltato, senza poter riflettere, Sandrino si abbandonò tutto a quella gran finzione.

– No, no; – esclamò Lalla interrompendo l’estasi del buon figliuolo – non sono bella, anzi… bruttina… sì, piuttosto bruttina; ma per questo appunto, ella non deve burlarsi di me!

– Ah, se non fosse lei!…

– Certo, se fossi un’altra… potrei essere anche bella!…

– No, se lei non fosse una signora, oppure se anch’io fossi nato nobile, ricco, allora…

Sandro s’interruppe e Lalla non gli rispose; ella chinò il capo di nuovo, arrossendo con un brivido, un sussulto, che pareva un sospiro di tutta la persona. Il giovane le si avvicinò, sempre di più, e, mentre gli si piegavano le ginocchia al contatto delle vesti di Lalla, sentiva diffondersi intorno un profumo fresco, soave, finissimo, che usciva dai capelli, da tutto il corpo di lei; un profumo inebbriante, nuovo per il giovanotto ignaro, lontano dai gusti, dalle abitudini del viver signorile; e i suoi nervi, eccitati, provocavano un odioso confronto fra quella fragranza aristocratica e l’afrore di sudaticcio della pingue moglie dello speziale. La fanciulla stava chinata con la fronte appoggiata a una mano, mezzo velandosi gli occhi tra vergognosa e raccolta; egli accostò la bocca al collo di lei candidissimo che spiccava in quella penombra, ma non ebbe coraggio di baciar quello… le sfiorò appena i capelli, e timidamente posò le labbra sulle unghiette rosee della mano, senza notare, l’inesperto, che fra quelle dita lunghe e affusolate, lo spiava un occhio freddo, attentissimo.

Lalla si alzò ratta, con un piccolo grido.

– Madonna Santa! – esclamò Sandrino ritornando in sè. – Madonna Santa! che cosa ho fatto!… Perdoni, signora duchessina, perdoni il mio ardire, la mia sfrontatezza… perdoni; non ho detto che la testa mi gira?… che sto male?

Lalla non rispose più una parola, si serrò intorno la mantellina e lentamente si avviò verso il palazzo, seguita dal giovinetto così mortificato, paurosa, come avesse commesso una grave colpa. Egli non aveva coraggio nemmeno di aggiungere scuse alle scuse, e si sentiva agghiacciare pensando a tutto ciò che gli poteva accadere. – Che gli era mai saltato in testa? Offendere così la signorina che si fidava di lui, che si degnava di concedergli la propria confidenza, che si degnava di scherzare, di trattarlo, non come un inferiore, ma come un amico? In che modo gli era sembrato, come mai aveva creduto, aveva potuto supporre un sentimento che fra loro due sarebbe stato impossibile?… Eppure egli l’aveva veduta sorridere, arrossire, tremare… No, no; egli era ubriaco e chissà che cosa aveva veduto. La signora duchessina irritata, offesa da quel suo procedere, avrebbe riferito tutto alla duchessa Maria, ed egli finirebbe coll’essere scacciato dal Palazzo, e coll’essere disprezzato da tutti! – Con simili pensieri giunto sotto il portico, credeva morire dalla vergogna; e quando la Nena e la sposa, veduta la padroncina, le vennero incontro correndo, si sentì cascare il fiato. Ma Lalla disinvolta, chiamò le due ragazze per nome, colla sua voce chiara e rotonda, poi si fermò un istante e, voltandosi appena, mormorò piano a Sandrino: – Si ricordi, mi ha promesso di non ballar più colla signora Ottavia.

Sandro si fermò sbalordito; volle parlare, ma gli si chiuse la gola.

Intanto Lalla scherzava tranquillamente colla sposa e colla Nena, chiedendo conto della miss sparita dalla festa, e che tutti credevano in compagnia della signorina. Subito l’Ambrogio, il medico, il cuoco, e i due Frascolini andarono in cerca dell’istitutrice. A Sandrino non era parso vero di sottrarsi in tal modo alle domande e ai rimproveri dell’Ottavia ed alle occhiatacce scrutatrici della signora Veronica che, avendo notata l’inquietudine della rivale per l’assenza del giovanotto, provava in sè stessa un vivo piacere; piacere che poi crebbe, e di molto, quando li vide brontolare e bisticciarsi.

Miss Dill non si lasciava trovare. Tutti giravano in giardino chiamandola qua e là… Nessuno rispondeva. Eppure Ambrogio e il signor Domenico erano passati sul piedi dell’istitutrice e del Reverendo; ma le nere colombelle, invece di lasciarsi prendere, si erano nascoste nella serra, donde usciva poco dopo la sola miss, guardandosi prima ben bene attorno e poi avviandosi lentamente verso il Palazzo, mentre don Vincenzo aspettava sull’usciolo il ritorno d’Ambrogio e del signor Domenico.

– Ohi! Ecco don Vincenzo!… Non avete sentito a chiamare la signora miss?

– No.

– È un’ora che si cerca; dove sarà andata a ficcarsi?…

– L’ho veduta poco fa… mi ha chiesto, anzi, della signorina.

– E la signorina cerca la miss!…

– Oh, guarda guarda, combinazione!…

Tutti e tre ritornarono insieme verso casa, dove trovarono appunto l’istitutrice che scusava la sua assenza dicendo di aver preso un po’ di fresco sotto il pergolato, perchè soffriva di nervi.

La brigata prestò fede al racconto; non così Lalla, che fissò l’istitutrice e sorrise.

Salutati affabilmente gli ospiti, la signorina e la miss si ritirarono, e la Nena con loro.

Lalla sentiva gli occhi di Sandrino che cercavano i suoi, pure gli passò dinanzi senza guardarlo. Le tre donne fecero la scala in silenzio; ma poi, prima di separarsi, sull’uscio delle loro camere, la signorina vedendo la miss che brontolava, minacciando l’emicrania per l’indomani, le domandò fissandola bene in faccia, con un certo tono impertinentino:

– Scusi, miss, non crede lei di aver presa l’emicrania stando troppo al fresco sotto il pergolato?

– Probabile… probabilissimo. Buona notte.

– Ma… un momentino, miss… mi lasci vedere… oh curiosa! Che cos’ha sulle guance?

– Io?…

Lalla prese, il fazzoletto e lo passò qua e là sulla faccia scialba dell’istitutrice.

– Sarà polvere…

– Sicuro, polvere di tabacco!

La miss diventò verde, perchè non poteva diventar rossa. – Oh! Sarà… certo… m’hanno detto che fa tanto bene per la nevralgia.

– Ma è inutile metterne sulle guance… e nemmeno sugli occhi… e sul collo!

Lalla aveva indovinato, da quei segni, i passaggi del naso di don Vincenzo, e una tale scoperta le fece molto piacere: quella donna, la inflessibile guardiana, ella ormai la teneva in sua balìa.

– Mi pare impossibile…

– Oh, anche a me pare impossibile, miss, ma è proprio vero!

L’istitutrice si sentì perduta: la bocca aperta, il candeliere in una mano, il libro delle preghiere nell’altra, immobile sotto il plaid grigio che teneva sulle spalle, fissava la signorina e non poteva più muovere un passo, non sapeva più dire una parola.

– Buona notte, buona notte, miss, e, per conto mio, non abbia timore di nulla. Dorma, dorma sonni tranquilli… – E la signorina sorrise un’altra volta salutando colla mano l’istitutrice attonita, e raggiunse la Nena…

Sandro mantenne il giuramento. Lasciò gli amici, e approfittando della lite successa, non accompagnò a casa l’Ottavia: la Veronica giubilava e, non avendo di meglio, si sfogava abbracciando il signor Domenico.

Sandro andò camminando a casaccio per la campagna, solo solo, fin quasi all’alba, e poi, rincasato stanco, si buttò sul letto senza poter dormire, nè riposare, e continuò a sognare le cose più strane. Sognava di farsi un nome, e guadagnarsi la gloria e le ricchezze colle sue attitudini artistiche. Le manine lunghe e nervose della signorina, gli avevano fatto vibrare, possenti, le corde dell’amore e dell’ambizione. Quella vittoria ch’egli credeva sua, mentre il vinto invece era lui, fe’ dar di volta al cervello del povero figliuolo. – Come aveva ottenuta la donna, superando tutti gli ostacoli, non sarebbe riuscito anche a crearsi uno stato che lo rendesse degno di lei? Degno di lei, s’intende, agli occhi della sua famiglia, agli occhi del mondo…; per il cuore della fanciulla, egli lo era sempre stato. Lalla, la sua Lalla aveva arrossito d’amore e si era mostrata gelosa!… – E ciò bastava perchè Sandro vedesse la bionda duchessina rifiutare i più ricchi pretendenti per aspettar lui, e per la consolazione di diventare la moglie del celebre Frascolini!… Così sognando, sognando sempre, egli perdeva di vista la realtà delle cose e, svanita la spensierata allegrezza dei suoi vent’anni, cominciava a essere malcontento di sè e degli altri, e a trovarsi a mano a mano sempre più infelice. Il giovinotto, che fino allora era rimasto pago dell’affabilità dei Conti di Santo Fiore, i quali si degnavano di tenerlo ospite nelle loro anticamere, adesso imprecava contro il pregiudizio ignorante e le ingiustizie aristocratiche, che pretendevano, con cento braccia, di opporsi al suo ingresso nella camera da letto della duchessina Lalla d’Eleda. D’altra parte sdegnava il nome onorato di suo padre, disprezzandone la condizione umile e plebea: le modeste aspirazioni e le gioie fino allora godute, perdevano ogni attrattiva per il giovinotto povero e oscuro, che voleva essere ricco e illustre, e che in quello squilibrio fra il volere e il potere, si trovava, si sentiva spostato. Uno spostato!… Il figlio e nipote dei segretari comunali di Santo Fiore, i quali occupando quel posto avevano sperato di tenerlo in serbo anche per lui, dove, come sarebbe andato a finire?…

E Lalla?… Lalla si svegliò che il sole era già alto, e fu suo primo pensiero quello di accertarsi di non aver detto o fatto nulla che potesse comprometterla. Poi pensò all’Ottavia, alla Veronica, e sorrise, l’orgogliosetta, della propria vittoria. Pensò, e molto, anche a Sandro, alla maschia bellezza, al volto colorito, alle labbra che bruciavano, alla voce tremante del giovane; ricordò che la Nena, quel giorno, sarebbe andata da lui per avere i libri promessi, e indovinò arrossendo dal piacere, che nei libri ella avrebbe trovata una lettera…

– Ma io non ti risponderò, signorino bello! – esclamò scherzando con Musette, la quale, veduta muoversi la padroncina, era saltata sul letto, vispa, festante, dimenando la coda, e abbaiando dall’allegrezza. – No, no! – e Lalla parlava colla cagnetta come se questa fosse appunto Sandrino. – No, no; non voglio rispondere alla tua lettera, è inutile che ti arrabbi, è inutile che tu mi morda le mani; in questo caso tu prenderai un buon scappellotto, così… – e la fanciulla faceva seguire l’atto alle parole – ma una risposta scritta, non l’avrai no, no e no… Col tuo bel musino, tu saresti capace di mostrare le mie lettere agli amici… Ah! vedi? Hai detto di sì! – esclamò Lalla ridendo di uno starnuto della cagnolina, che veniva a proposito come un’affermazione.

– Saresti capace di farmi piangere un giorno, quando non potrò più volerti bene, perchè dovrò sposare un signore, più bello di te!… Indietro, subito; che non voglio baci! Vergognatevi! Mi credete forse miss Dill?… Indietro!… Va via!… e la fanciulla con le braccia tese, si teneva lontano Musette che allungava il collo per arrivare a lambirle la faccia. – Ohè! birichino! Volete rompermi la camicia?… – Va via! – da bravo!… Non dovete veder nulla… cattivo… brutto… Ah! cattivo, cattivo! – La piccola Musette, con un salto improvviso, le era arrivata dietro le spalle, poichè Lalla stava a sedere sul letto, e leccavale il collo, la faccia, le orecchie, facendola gridare dal solletico e dal piacere, finchè la fanciulla, presa la cagnolina, si rannicchiò con essa sotto le coltri, mordendola alla sua volta, e soffocandola quasi, tanto la stringeva forte contro il petto.

Mater dolorosa

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