Читать книгу La sorella - Giambattista della Porta - Страница 5
ATTO I
SCENA IV
ОглавлениеCleria, Attilio, Trinca.
Cleria. Attilio, anima mia, fermatevi costí, ché son stata gran pezza aspettandovi in fenestra, per avisarvi che, se un poco piú foste tardato, non areste trovata la vostra Cleria in casa.
Attilio. Non vi dolete, occhio mio caro.
Cleria. Qual miseria è che pareggi la mia? Mi sento l’anima cosí ristretta nel cuore, che son per cader morta; né posso imaginarmi come questa tormentata anima possa reger questo tormentato mio corpo.
Attilio. Non vi struggete, o signora, piú cara a me che la luce degli occhi miei.
Cleria. Pensavami che la fortuna, – poiché dall’uscir delle fascie cominciò a farmi guerra, avendomi da bambina fatta preda de’ turchi, privatami de’ miei cari genitori, fattami serva di genti barbare, ricomperata come schiava, – avesse mutato proposito e volesse ristorarmi de’ danni passati col farmi ambiziosa del titolo di vostra schiava, il che lo stimava per mia somma ventura. Ma or mi fa peggio che mai, ché vuol rovinarmi in tutto; perché questo sospetto cosí m’inamarisce ogni bene, che mi toglie la speranza di non aver a sperar mai piú favilla di luce: e pur vivo? Son nata pur disgraziata!
Attilio. Io, dal primo punto che vi viddi, fui cattivato nell’amor vostro: però assicurativi, signora, che non meno a me duole il separarmi da voi, che voi da me, parendomi impossibile che l’un possa vivere senza la vita de l’altro. E come potrei io vivere, se i spiriti miei non prendessero alimento da una certa virtú celeste, che sta occulta negli occhi vostri, dai quali prende vigor la mia vita? E tante volte mi ravvivo e rinasco nella mia istessa vita, quante volte vi miro. Son vostro, voglio esser vostro e, ancor che voi non voleste, pur son vostro; né tutto il mondo basta a far che non siate mia, poiché dalla vostra libera volontá me vi deste. Niuna cosa m’è cara piú di voi; e chi mi togliesse voi e mi desse tutto il mondo, non mi farebbe nulla, ché in voi sola è tutto quel ben che posso desiderare nella mia vita.
Cleria. O caro, o caro cor mio, volete scemar i vostri meriti per accrescer i miei, che non ne ho niuno. Ma le vostre parole vengono dettate dalla vostra bontá, che avanzano di gran lunga i miei meriti: e tutte quelle lodi che mi date, tutte si piegano in voi, come i raggi del sole che, percotendo nei specchi, si piegan con piú forza: però, se alcuna cosa in me fusse di buono, tutto vien da voi stesso, che mi conferisce quelle qualitá che voi dite: però resto consolata nelle vostre consolazioni. Laonde con l’amor che mi portate, chiamate a consiglio il bel vostro discorso, e consideriamo s’è meglio fuggir di casa e andar dispersi per lo mondo. Conducetemi per dove volete, per luoghi deserti e senza via: vi son stata compagna nelle prospere, cosí vi sarò nelle fortune calamitose. È ferma deliberazione dell’anima mia non esservi renitente in cosa alcuna: non mi riterrá né muro né terra né cielo, seguane quel che si voglia; pur che sia insieme con voi, ogni luogo m’è patria, ogni fatica m’è dolce, niun pericolo mi spaventa. E veramente per amor non si denno stimar i pericoli.
Attilio. Non vorrei, cuor mio, andando cosí di fuori, perder quello che ho in casa. Venendo con voi da Vineggia, mi parea esser un di quei che navigano di notte con una nave di cristallo, che temono sempre incontrarla e romperla in ogni scoglio.
Cleria. Se segue quel che disegna vostro padre, questa sera sará il fin della nostra giornata, e resterá per noi una notte perpetua; e certo saria una notte, ché d’allora innanzi non sperarei veder altro sole. Però facciamo come quelli che han fatto naufragio, che per non morire s’attaccano ad ogni tavola che s’incontrano.
Attilio. Ahi, ch’essendo in casa mia, pensava esser in porto, dove sperava riposo di tutte le nostre amorose tempeste!
Cleria. Maladetto porto, dove s’affondano tutte le nostre speranze, e dove rabbiosi corsari cercano spogliarci de’ nostri preciosi tesori: parvi bel porto questo?
Attilio. Anima mia, con la speranza del bene rasserenate la mente e il volto, e con le lacrime non ci facciamo cosí tristo augurio, se non per altro, almeno per non dar tormento a me; ché a voi non piove una minima lacrimuccia dagli occhi, che a me tutti non siano rivi di sangue, che mi piovono dal cuore.
Trinca. E quando finiranno tante parole?
Cleria. Dolcissimo mio bene, non posso far che la miseria, dove mi trovo, non mi trafigga: bisognarebbe un cuor di sasso per non dolermi. Mi sforzerò chiuderla nel mio cuore, ché ho piú a caro il vostro contento, che di sfogare il mio dolore.
Attilio. Statemi, di grazia, allegra e di buona voglia, ché il tempo suol apparar occasioni di remedi, e nelle adversitá far cuor franco e valoroso.
Trinca. Che tanti cicalamenti! Ecco vostro padre.
Attilio. Trattienlo un poco.
Cleria. Venite su e rallegratemi.
Trinca. Sí, sí, cicalate un altro poco.
Attilio. Non m’impedite, di grazia, che trattiamo cosa per uscir da affanni.
Cleria. E come?
Attilio. Non ho tempo di dirlo.
Cleria. Perdonatemi di grazia, ché la dolcezza di parlar con voi mi fa trapassare i vostri comandamenti.
Trinca. Vostro padre v’è cosí da presso, che vi vede. Andate su e, poiché sète accordati in parole, accordatevi in fatti: informatela bene del negozio e fatecelo toccar con mano.