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LIBRO TRENTESIMOQUINTO
CAPITOLO V
Infelice Governo del Cardinal D. Antonio Zapatta. Morte del Re Filippo III, e leggi che ci lasciò
ОглавлениеGiunto il Cardinal Zapatta in Napoli (a cui il Borgia cede il governo a' 12 decembre di quest'anno 1620, giorno della di lui partita) fu accolto dalle voci del popolo, che oppresso dalle precedute calamità, non altro ardentemente desiderava, che abbondanza; onde egli per corrispondere a' loro desiderj, invigilò seriamente sopra i venditori de' commestibili, perchè non alterassero i prezzi, che imponevano gli Eletti della città, gastigando severamente coloro che contravvenivano all'assise. Visitò le Carceri della Vicaria, e d'accesso facile ascoltava volentieri ogni sorta di persone; e così soddisfacendo a' bisogni de' sudditi, s'acquistò in questi principj l'applauso e le comuni benedizioni. Essendo accaduta in gennaio del nuovo anno 1621, la morte del Pontefice Paolo V, lasciando per suo Luogotenente D. Pietro di Gambona e Leyva Generale della Squadra navale di Napoli, partì per Roma per assistere al Conclave, e seguita dopo brevi giorni a' 9 febbraio, l'elezione nella persona del Cardinal Alessandro Lodovisio, chiamato Gregorio XV, fece ritorno in Napoli, a ripigliar l'amministrazione del Regno, continuata colla medesima comune soddisfazione; la qual tanto più s'accrebbe, quando si videro riformati i Tribunali, e comandata la continua assistenza a' Ministri, e la sollecita spedizion delle liti, avendo a tal fine ordinato, che nel Palazzo di Capuana si ponesse una campana, la quale nell'ora determinata, invitando col suono i Ministri ad andarvi, togliesse a tutti il pretesto della tardanza.
Ma due infauste occorrenze interruppero il corso della sua applaudita condotta, e resero il suo governo torbido ed infelice. A' preceduti anni sterili ed infecondi, ne era succeduto un altro assai più infelice, onde ne nacque una penuria di viveri estrema: a tutto ciò s'aggiunse, che per quattro mesi continui caddero dal Cielo così incessanti pioggie, che rendute le strade impraticabili, impedivano il trasporto delle vettovaglie dalle province alla città; ed in mare i continui e tempestosi venti impedivano la navigazione, ed alcune navi, che cariche di frumenti erano per giungervi, miserabilmente naufragarono: i Turchi ancora scorrendo da per tutto le nostre marine, predavano i vascelli che di Puglia carichi di grani s'erano avviati per soccorrere l'affamata città, il prezzo delli commestibili per ciò arrivò ad eccessive ed esorbitanti somme; onde si vide un'estrema miseria e carestia da per tutto.
A questa calamità s'aggiunse un altro male gravissimo e difficile a ripararsi, per cagion delle monete chiamate comunemente Zannette, ridotte per l'ingordigia de' tosatori a stato sì miserabile, che non ritenevano più che la quarta parte dell'antico valore, ond'erano da tutti rifiutate; tanto che i prezzi delle cose alterati, la moneta non sicura e rifiutata, ridusse molti alla disperazione. Si pensò alla fabbrica d'una nuova moneta per abolirle, e fu pubblicato, che nella abolizione di quelle, niuno v'avrebbe perduto. Ma essendo impossibile a por ciò in effetto per la quantità di Zannette, ch'erano nel Regno, e 'l poco argento, che v'era da coniarsi, per sorrogarsi in luogo di quelle; nacquer per ciò disordini gravissimi e sediziose turbolenze.
La vil plebe, che vuol satollarsi, nè sapere l'inclemenza de' Cieli, o la sterilità della Terra, vedendosi mancare il pane cominciò a tumultuare ed a perder il rispetto a' Ministri, che presidevano all'Annona: il Reggente Fulvio di Costanzo un giorno del mese d'ottobre di quest'anno 1621 poco mancò, che non fosse da lei oppresso; e già ogni cosa era disposta per prorompere in un universal tumulto. Il Consigliere Cesare Alderisio, Prefetto dell'Annona, per sedar le turbolenze persuase al Cardinale, che uscisse per la città, ed in una calamità così grande consolasse il Popolo; ed in fatti in gennaio del nuovo anno 1622 postisi amendue in un cocchio uscirono; ma questa uscita peggiorò il male, poichè la plebe insolentita, veduto il Vicerè, con poco rispetto cominciò a rinfacciargli la pessima condizione del pane, che mangiava; ed avendo la guardia Alemana voluto frenar gl'insulti, si videro sopra il cocchio del Cardinale piover sassi lanciati da que' ribaldi; tanto che bisognò ricovrarsi nel vicino Palazzio dell'Arcivescovo, e far chiuder le porte di quello e della Chiesa, infinchè accorsi molti Signori ad assisterlo, non lo riconducessero salvo in Palazzo.
I disordini per le Zanette abolite, e per non essersi potuto supplire colla nuova moneta, fecero crescere le confusioni nel Popolo, il quale perduto ogni ritegno, essendo a' 24 aprile uscito il Cardinale in cocchio fuori le Porte della città, quando fu fuori Porta Capuana, si vide dietro uno stuolo di plebei, uno dei quali avvicinatosi al cocchio con un pane nelle mani, con molta arroganza gli disse: Vede V. S. Illustrissima che pane ne fa mangiare, e soggiungendo altre parole piene di minacce, lanciogli quel pane a dosso sopra il cocchio. Il Cardinale sospettando di peggio, fece sollecitar i cavalli, e presa la strada di S. Carlo fuori la Porta di S. Gennaro, entrando per la Reale, che ora diciamo dello Spirito Santo, si condusse di buon passo in Palazzo: dove consultato l'affare, fu risoluto dissimularlo.
Ma questa tolleranza, in vece d'acchetare, fomentava i tumulti e li ridusse nell'ultima estremità, come si vide poco da poi; poich'essendo a questi tempi venuto in Napoli il Conte di Monterey, destinato dal Re Ambasciador estraordinario al Pontefice Gregorio XV, postosi in cocchio il Cardinale col Conte, mentre camminavano per la città, nella strada dell'Olmo furono circondati da molti plebei, che gridavano; Signore Illustrissimo, grascia, grascia: alle quali voci essendosi voltato il Cardinale con volto allegro e ridente, un di coloro temerariamente gli disse in faccia: non bisogna, che V. S. Illustrissima se ne rida, essendo negozio da lagrimare, e seguitando a dire altre parole piene di contumelie, si mossero gli altri a far lo stesso, ed a lanciar pietre al cocchio, talchè a gran passi fu duopo tornar indietro e ritirarsi in Palazzio. Allora stimossi dannosa ogni sofferenza e fu riputato por mano a severi castighi; onde formatasi Giunta di quattro più rinomati Ministri, che furono il Reggente D. Giovan Battista Valenzuola ed i Consiglieri Scipione Rovito, Pomponio Salvo e Cesare Alderisio, fabbricatosi il processo, furono imprigionate più di 300 persone: convinti i rei, contra essi a' 28 maggio fu profferita sentenza, colla quale diece ne furono condannati a morir su la Ruota, all'uso Germanico, dopo essersi sopra carri per li pubblici luoghi della città fatti tanagliare: furono le lor case diroccate ed adeguate al suolo: pubblicati i loro beni ed applicati al Fisco: i loro cadaveri divisi in pezzi, e posti pendenti fuori le mura della città per cibo degli uccelli, e le loro teste fur poste sopra le più frequentate Porte della medesima in grate di ferro. Sedici altri meno colpevoli furono condennati a remare, e fu diroccato ancora il fondaco di S. Giacomo nella strada di Porto, dove fu aperta quella strada, che si vede al presente, ed in cotal maniera finirono i tumulti, che sotto il governo del Cardinal Zapatta cagionarono la fame e le Zannette.
A questi tempi, mentre la città era involta in questi rumori, giunse in Napoli D. Francesco Antonio Alarcone, al quale il Re avea delegata la causa del Duca d'Ossuna. Il Genuino intanto era stato preso, ed in stretto carcere era detenuto in Madrid, donde fu condotto con buone guardie a Barcellona, e da poi trasportato nella Fortezza di Portolongone, dove fu strettamente custodito per lo spazio di molti mesi: passando l'Alarcone lo portò seco in Napoli, e chiuso nel Castel Nuovo, fu dopo due giorni mandato in quello di Baja, da dove passò in quello di Capua, e poi a quello di Gaeta. Trattatasi la sua causa, fu il Genuino condannato a perpetuo carcere nella Fortezza di Orano, ed i suoi nepoti e seguaci furono condennati a remare. Ma il Genuino dopo molti anni ottenne finalmente libertà; e narrasi che fosse, per aver mandato al Re Filippo IV che lo bramava, un modello di legno della Fortezza del Pignone, da lui lavorato nelle prigioni dell'Affrica; e ritornato poi in Napoli, benchè fattosi Prete, fu colui, che più d'ogn'altro fomentò le revoluzioni popolari del Regno accadute nell'anno 1647, delle quali più innanzi farem parola.
Intanto la città di Napoli, perchè a disordini sì gravi si desse pronto ristoro, avea segretamente spedito alla Corte il P. Taruggio Taruggi Prete della Congregazione dell'Oratorio; e consideratosi lo stato miserabile del Regno, e che per riparare alle tante strettezze, che cagionava la mancanza de' viveri e della moneta, eran necessari rimedi forti e solleciti, e che il genio facile ed indulgente del Cardinale non era confacente allo stato, nel quale eransi le cose ridotte: fu riputato espediente di levar il Cardinale, e mandare per Vicerè in Napoli il Duca d'Alba, il quale prestamente si pose in cammino, e giunse in Pozzuoli a' 14 del mese di dicembre di quest'anno 1622, e pochi giorni da poi prese il governo del Regno. Il Cardinal partì lasciando di sè concetto di mal fortunato Ministro, e che la sua natura troppo indulgente e dolce, avesse più tosto fomentati i disordini accaduti in tempo del suo governo. Egli però ci lasciò savi provvedimenti, che si leggono nel volume delle nostre Prammatiche, e s'additano nella Cronologia prefissa al primo tomo delle medesime.
In tempo del suo Governo, e propriamente a' 31 marzo del 1612, accade la morte del Re Filippo III in età di 43 anni, de' quali ne regnò 22 e mezzo. Ne fece egli nel Duomo di Napoli celebrare pompose esequie, dopo aver fatto acclamare il Re Filippo IV con cavalcata e pubblica celebrità. Morì Filippo d'acuta febbre, che gli tolse intempestivamente la vita, e in età cotanto acerba ed immatura. Egli di Margherita d'Austria, che fu sua moglie, procreò tre maschi ed altrettante femmine: D. Filippo, che fu suo successore nei Regni; D. Carlo, che poi morì; e D. Ferrante, Diacono Cardinale del Titolo di S. Maria in Portico, detto comunemente il Cardinal Infante. Delle femmine, D. Anna fu moglie di Lodovico XIII Re di Francia; D. Maria maritossi con Ferdinando Re d'Ungheria, e poscia Imperadore; ed un'altra, che morì bambina. Il suo regnare fu più tosto d'apparenza, che di realtà; poichè contento della Regal dignità, lasciò governare a' Favoriti ed a' Consigli. Si credette, che quando per l'istigazioni del Duca d'Uzeda e di Fr. Luigi Aliaga Confessore del Re, fu comandato al Cardinal Lerma, che si ritirasse, fosse il Re per assumere in se stesso il governo; ma la morte, che poco da poi lo rapì ai travagli, che seco porta l'Imperio, ne interruppe le speranze. Principe, ch'essendo decorato degli ornamenti della vita, meglio che dotato dell'arte di comandare; siccome la bontà, la pietà e la continenza lo costituirono superiore a' sudditi, così la disapplicazione al Governo lo rese inferiore al bisogno. Tenendo oziosa la volontà, si credeva, che altra funzione non avesse riserbata a se stesso, che d'assentire a tutto ciò, che il Favorito voleva; e si credette, che nell'agonia della sua morte, non fosse tanto consolato della memoria de' suoi innocenti costumi, quanto agitato dagli stimoli della coscienza per l'omissione del governo. Con tutto ciò dal primo anno del suo regnare insino al penultimo stabilì per noi molte leggi savie e prudenti, le quali, secondo il tempo che si pubblicarono, vengono additate nella Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche.
FINE DEL LIBRO TRENTESIMOQUINTO