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LIBRO TRENTESIMOSESTO
CAPITOLO II
Del Governo di D. Ferrante Afan di Riviera Duca d'Alcalà

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Questo nuovo Duca d'Alcalà, che venne al governo del Regno, potè mal imitare i vestigi dell'altro Duca d'Alcalà suo maggiore, per la corruzione, in cui erano ridotte le cose del Regno. Qualunque più esperto e savio Ministro era per confondersi ne' tanti disordini e calamità. Non vi erano nel Regno guerre, ma quelle di Lombardia cagionavano a noi mali peggiori, che se ardessero nelle viscere di quello. I Turchi non tralasciavano le loro scorrerie nelle nostre Marine, nè vi era chi potesse loro opporsi, perchè divertite le nostre forze altrove, erano assai deboli e scarse le difese. Gli Sbanditi per l'istessa cagione non lasciavano d'infestar le campagne e le pubbliche strade, e talora anche le Terre murate. I Tremuoti, ed i nuovi timori di peste e le altre sciagure, posero tutto in costernazione e disordine.

Da chi dovea sperarsi conforto, si riceveva maggior tracollo. Il Re, posto in mano del Favorito, niente curava di noi; ed il Conte Duca che reggeva la Monarchia, per sostenere le guerre di Lombardia avea fondata la sua maggior base nel Regno di Napoli. Con tutto che col continuo premere si vedesse così esangue e smunto, non si tralasciava di dimandar continuamente soccorso di gente e di danari. L'angustie del Vicerè, e più de' sudditi, erano per ciò grandi; pure per supplire in parte a' bisogni, fu a questi tempi trovato espediente di sospendere i pagamenti delle quantità assegnate a' creditori del Re sopra le Comunità del Regno, e di prendere quarantamila ducati dalle rendite della Dogana; ma ciò non bastando, fu duopo insinuare a tutti una volontaria tassa, la quale fu regolata dal Vicerè in cotal guisa, che non eccedesse la somma di ducati mille, nè fosse meno di diece: furono per ciò costretti i Titolati ed i Baroni ed anche gli Avvocati, insino i Mastrodatti e Scrivani a votare le loro borse nelle mani del Vicerè, che raccolse per questi tributi somme grossissime, sì che si pose in istato d'accorrere con soldatesche e denari alle necessità della guerra.

Nominò pertanto il Vicerè per queste spedizioni tre Mastri di Campo per arrolare tre Reggimenti, li quali furono D. Giovan d'Avalos Principe di Montesarchio, il quale poi per la morte sopravvenuta a due suoi figliuoli rinunziò il comando, e fu eletto in sua vece D. Luzio Caracciolo di Torrecuso, ch'era suo Sargente Maggiore; Carlo della Gatta e Mario Cafarelli. Il Principe di Satriano fece pure a sue spese un Reggimento di ventidue Compagnie, che tutte andarono a servire a Milano, per dove furono parimente imbarcati altri seicento Spagnuoli e molte Compagnie del Battaglione, e ciò oltre al Reggimento di Mario Galeota, che colle Galee prima di tutti s'era avviato a Gaeta, dove gli convenne trattenersi molti mesi, perchè i venti contrari gli avean impedita la navigazione.

Ma che pro? Tanti e tali soccorsi, che riguardandosi la povertà del Regno, donde si mandavano, potevano dirsi potenti, si dissiparono in un baleno in quella guerra mal guidata e sempre infelice. Veniva per ciò di nuovo sollecitato l'Alcalà a mandarne degli altri; ma donde dovea provvedersi del denaro, già che mancavano i fondi, ed erano già esauste tutte le scaturigini? Allora si venne alla risoluzione di vendere le città e Terre demaniali del Regno, ed a metter mano alle supreme Regalie. La città di Taverna fu venduta al Principe di Satriano, quella dell'Amantea al Principe di Belmonte, il Casale di Fratta al Medico Bruno, Miano e Mianello alla Contessa di Gambatesa, Marano al Marchese di Cerella D. Antonio Manriquez, ed altri luoghi ed altre persone: ciò che cagionò disordini grandissimi, perchè avvezzi que' cittadini al Demanio Regale, ed abborrendo la servitù, che lor soprastava di sottoporsi a Baroni, diedero in tali eccessi, che i Cittadini dell'Amantea e di Taverna chiusero a' compratori le Porte, ricusando di dar loro il possesso, e fecero valere i lor privilegi in guisa, che istituitasene lite, furono, con isborsare il prezzo per termini di giustizia conservati nel Demanio Regale.

La venuta della Regina Maria sorella del Re, che andava in Alemagna a trovar Ferdinando d'Austria Re d'Ungheria suo sposo, finì d'impoverire l'Erario Regale e le Comunità del Regno. Ella, per lo sospetto della peste di Lombardia, torse il cammino, ed accompagnata dal Cardinal di Gusman Arcivescovo di Siviglia e dal Duca d'Alba, con una Corte splendida e numerosa, deliberò, tralasciata la strada di Lombardia, di far quella del Regno. Si credette che il Duca d'Alba, per oscurare l'autorità del Vicerè fosse stato l'autore di tal risoluzione, e che perciò proccurasse far differire dalla Regina il cammino, siccome in fatti dal mese d'agosto del 1630, ch'entrò in Napoli, vi si trattenne quattro mesi continui splendidamente assistita, ed in continue feste e tornei trattenuta, come conveniva ad una tanta Principessa. Il Pontefice Urbano VIII le spedì Monsignor Serra a presentarle la Rosa d'oro, che rimase presso la Regina per suo Nunzio: venne da Roma il Conte di Monterey, Ambasciadore del Re alla Corte del Papa, a baciarle la mano, siccome fecero molti altri Signori e Principesse di conto. Non si parlava di partire, ed intanto la spesa, che questa dilazion portava al Patrimonio regale, era grandissima: s'erano fatti venire molti cavalli, ed altri animali per le vetture, e s'erano costrette le comunità del Regno a mandarle, ma poi non partendo, doveansi soministrar le spese per loro mantenimento e de' condottieri. L'Erario Regale era già voto, tanto che per supplire alla spesa, s'era posto mano all'entrate del Re assegnate a' particolari, e ciò nè meno bastando, s'era convenuto torre in prestanza grosse somme da' Banchi. Il Conte di Francburgh Ambasciador d'Alemagna sollecitava il viaggio, e scorgendo, che tanto più si differiva, finalmente si dichiarò colla Regina, che giacchè non voleva partire, gli dasse permissione d'andarsene. Anche il Vicerè Alcalà s'arrischiò a dirle, che si compiacesse dargli certezza della sua risoluzione; poichè se le fosse piaciuto differir la partenza, avrebbe licenziati i cavalli, e fatti soprasedere gli altri apparecchi, che il Provveditor Generale D. Francesco del Campo avea avuto ordine di fare; il qual ufficio passato dall'Alcalà per suo zelo, che egli ebbe del maggior servigio del Re, diede appoggio al Duca d'Alba di proccurare dalla Corte, che fosse egli rimosso dal Governo, come più innanzi diremo.

Ma la dimora era eziandio cagionata, perchè intendendo la Regina di passar a Trieste colla stessa armata Spagnuola ingrossata dalle solite squadre de' Principi italiani, colla quale era giunta a Napoli, se le opposero i Vineziani, riputando con ciò offendersi il lor preteso dominio del mare; ed offerirono tutta, o parte della loro Armata, per servire al trasporto. Ricusavano i Ministri spagnuoli, minacciando di passare anco senza lor consenso; ma risolutamente dichiaratisi i Vineziani, che se alla cortesia dell'esibizioni volessero i Spagnuoli preferire la forza dell'armi, converrebbe alla Regina passare alle nozze tra le battaglie ed i cannoni; stimarono gli Spagnuoli far sospendere il viaggio, fino a nuovi ordini della Corte, la quale vergognosamente cedendo, richiese la Repubblica di prestare la sua armata ed il passo. Così finalmente partì la Regina a' 18 decembre di quest'anno 1630, e facendo il cammino di Puglia, entrò per gli Apruzzi nello Stato del Papa, ed andò a trattenersi in Ancona: da dove da Antonio Pisani Generale de' Vineziani con tredici Galee sottili fu con trattamento magnifico e regale sbarcata a Trieste21.

Intanto non lasciavano di render travaglioso il Governo al Duca le scorrerie de' Turchi, che danneggiavano le nostre Marine; e le Galee di Biserta posero in tal confusione le spiagge di Salerno, portando via molti Schiavi, ed attaccando fuoco alla Terra d'Agropoli, che il Vicerè fu costretto a spedirvi otto Galee per discacciarli: le genti della famiglia del Duca d'Atella, che andavano nel di lui Stato, in Calabria, furono fatte schiave da' Turchi, e se non fossero state liberate dalle Galee di Fiorenza sarebbe loro convenuto tollerare una misera servitù.

Anche gli Sbanditi in molte parti del Regno facevan guasti terribili; tanto che bisognò al Vicerè che vi spedisse D. Ferrante di Ribera suo figliuol naturale con titolo di Vicario Generale di tutto il Regno, e con tutta l'autorità, che in lui risedeva, a fin di sterminarli e di visitar le Fortezze. I tremuoti, che si fecero sentire a' 2 aprile di quest'anno 1630, posero ancora gran timore e spavento: ma assai maggiori furono i timori, che s'avevano della peste, che in Lombardia faceva stragi crudeli, e che manifestossi più volte ne' confini del Regno. S'aggiunse eziandio la voce sparsa, che camminassero per l'Italia alcuni infami, li quali inventando nuove fogge di morte, proccuravano con peste manufatta estinguere, per quanto potevano, il genere umano, avvelenando l'acque per le Chiese e per le strade, ed in cotal guisa andavano spargendo la contagione. Se ben l'immaginazione de' popoli, alterata dallo spavento, molte cose si figurava; ad ogni modo il delitto fu scoperto, e punito, stando ancora in Milano l'iscrizioni, e le memorie degli Edificj abbattuti, dove que' mostri si congregavano22; laonde fu ordinato per tutto il Regno, che si facessero diligentissime guardie, e che non si permettesse far entrar persona alcuna, senza le debite fedi di sanità.

In tale costernazione trovandosi il Regno, ogni cosa andava in perdizione. La poca giustizia, che s'amministrava ne' Tribunali, e le sordidezze d'alcuni Ministri, costrinsero il Vicerè ed il Visitator Alarcone con ordine della Corte, di sospenderne alcuni. Gli Avvocati si congiurano e non vogliono esporsi all'esame ordinato dal Re e s'astengono d'andare a Tribunali; ed i Ministri senz'alcuna difesa votano le cause; onde fu costretto il Vicerè usar contra essi rigore, perchè ripigliassero il lor mestiere La Regal Giurisdizione, posta a terra, dà sommo adito agli Ecclesiastici di maggiormente insolentire, ed il presente Duca d'Alcalà, troppo diverso dall'altro suo predecessore, gli soffre e non ne prende severo castigo, ma usando piacevolezza, vie più gli rende insolenti; siccome chiaramente si vide a quel che accade all'Auditor Figueroa. Avea il Duca d'Alba mandato certo Spagnuolo con sua commessione ad eseguire i beni d'alcuni di Nicotera, siccome eseguì; ma fatta l'esecuzione, pretendendosi, che fra le robe eseguite ve ne fossero alcune appartenenti al Vescovo, fu da costui il Commessario di propria autorità fatto carcerare. All'attentato commesso a fin di ripararlo, si mosse il Preside della Provincia a mandar l'Auditor Figueroa in Nicotera, affinchè lo sprigionasse; ma il Vescovo intanto avealo fatto trasportare altrove in sicura custodia: onde giunto quel Ministro in Nicotera e fatte gittar a terra le porte delle prigioni, rimase deluso, non trovandovi dentro persona alcuna; e non bastando al Vescovo d'averlo così schernito, per l'ardir usato di rompere le carceri, lo scomunicò, e ne affisse i cedoloni. Il Figueroa niente curando tali fulmini, ch'ei riputava senz'alcuna ragione essersi scagliati, e per ciò da non temersi, non pensò nemmeno farsene assolvere; ma passato l'anno della censura, si vide citato a dire ciò, che sentiva della Fede Cattolica: non curò pure il Figueroa tal citazione; ma passato un altro anno, si vide, che l'Inquisizione di Roma gli avea fabbricato un processo e con solenne sentenza lo dichiarò eretico. Forse di ciò nemmeno se ne sarebbe egli molto curato; ma gl'Inquisitori di Roma, fatto questo, mandarono ordini precisi a Monsignor Petronio Vescovo di Molfetta, che si tratteneva ancora in Napoli con carattere di Ministro del S. Ufficio, che in tutte le maniere lo imprigionasse. Il Vescovo Inquisitore, senza darne notizia al Vicerè, e senza richieder da quello l'Exequatur Regium agli ordini venutigli da Roma, chiamati a se tutti i Cursori dell'Arcivescovo e del Nunzio, co' quali avea concertata la carcerazione, saputo che il Figueroa soleva trattenersi dentro il Convento di S. Luigi de' PP. Minimi, poco prezzando la riverenza del luogo, e molto meno d'esser così vicino al Palagio Regale, comandò loro, che andasser tosto ad arrestarlo. Un attentato così enorme commesso in faccia al Principe, ed una carcerazione così strepitosa fatta innanzi a' suoi occhi, mosse il Vicerè a mandar subito una compagnia di Spagnuoli per reprimer tanta arroganza, li quali avendo posto in libertà il Figueroa lo condussero nel Regal Palagio. In altri tempi si sarebbe di ciò fatto altro risentimento, e si sarebbero severamente puniti gli autori d'un sì scandaloso insulto; ma assembratisi i Regj Ministri, non fu risoluto altro, che di disarmare tutta la famiglia dell'Arcivescovo, del Nunzio e dell'Inquisitore; onde in una notte fur tolte le armi a tutte le Corti Ecclesiastiche, nè contra il Vescovo Inquisitore si procedè a castigo. Tanta moderazione nè pure bastò, perchè Roma si quietasse, la quale profittandosi del tempo, fece di questa esecuzione un rumor grandissimo, spedendo monitorj e censure contra gli esecutori e tutti coloro, che l'aveano consigliata e comandata: ciò che intorbidò alquanto le feste, che si stavano celebrando allora in Napoli per la natività del Principe D. Baldassar Carlo primogenito del Re Filippo IV, il quale fece poi cessar tutti i timori, con una sua regal carta, che mandò al Vicerè, nella quale approvando ciò ch'erasi fatto, comandò, che gli ordini del S. Ufficio di Roma non s'eseguissero affatto nel Regno, senza saputa del Vicerè, e senza sua permissione.

Mentre, per la partita della Regina Maria, il Duca d'Alcalà avea ripreso con maggior libertà il governo del Regno, vennegli avviso, che il Duca d'Alba per molte accuse fattegli alla Corte circa il trattamento fatto alla Regina, avea ottenuto, che fosse colà chiamato. Ma non furon tanto le imputazioni fattegli per ciò alla Corte, che lo rimossero, quanto che il Conte Duca, per cui si reggeva la Monarchia, volendo gratificare il Conte di Monterey Ambasciadore del Re in Roma, a lui doppiamente congiunto in parentado, per tenere il Monterey una sua sorella per moglie, ed il Conte Duca parimente erasi ammogliato con una sorella del Monterey, ricevè volentieri le accuse fatte all'Alcalà, perchè potesse servirsene di spezioso pretesto. E per non amareggiare cotanto il Duca, con grave dispendio del Re, comandò, che il Duca d'Alcalà venisse a giustificarsi in Corte de' carichi, che gli s'adossavano, non intendendosi per ciò privato del Governo, e che per ciò gli corresse il soldo di ventiquattromila ducati l'anno; e che in sua assenza andasse a governar il Regno il Conte di Monterey, al quale corresse per ciò lo stipendio di soli ducati dodicimila l'anno, come interino. Ma il Duca non vi tornò mai più, se non quando fu per passar al Governo della Sicilia; ed il Conte, ch'era interino, vi stette sei anni. Così postergato il servigio del proprio Principe, per privati interessi del Favorito, fu a noi tolto il Duca d'Alcalà, il quale, partito da Napoli ai 13 maggio di quest'anno 1631, diede luogo al Monterey, che da Roma fin da' 17 d'aprile erasi portato in Napoli, trattenendosi intanto in Chiaja nel palagio del Marchese della Valle, insino alla partita del suo predecessore. Lasciò il Duca di se un grandissimo desiderio, ed un rammarico a' Napoletani, che sentirono al vivo le calunniose imputazioni fattegli in Corte. Egli ci lasciò dodici Prammatiche tutte savie e prudenti: fu terribile contra gli sbanditi e loro ricettatori: vietò alle Piazze di Napoli ed alle Comunità tutte del Regno, di assegnar salarj, o far donazioni, anche per causa pia, senza precedente assenso e licenza del Vicerè: riformò i Regj Studi, e comandò, che non si fosse dispensato all'età necessaria per ascendere al grado del Dottorato: fece molte ordinazioni attenenti all'ufficio di Commessario Generale di Campagna; e diede altri savi provvedimenti, che si additano nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

21

Nani Ist. Ven. lib. 8.

22

Nani Ist. Ven. lib. 8 ann. 1631.

Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9

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