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EDMENEGARDA
CANTO SECONDO
ОглавлениеSfiora le eccelse cupole, tra gli archi
Vagola e trema sugli azzurri flutti
Con la pietà d’un fuggitivo amante
Il sol che muore: ed un suo raggio estremo,
Ferendo i vetri alla romita stanza
Posa sul crin d’Edmenegarda.
Oh sole,
No, non lasciarla. Anche su lei risplendi;
È bella ancor questa colpevol fronte.
Simigliante ad un naufrago, che manda
L’ultimo grido, e vinta la persona,
Le disperate mani incrocia al petto
E piega il capo sotto l’onde e spira;
Così la combattuta Edmenegarda
Col suo dolce peccato ahi! s’addormenta.
«Tutti son lungi; ed io qui sola il noto
Rumor sospiro degli amati passi!
E ancor non viene! Ei non dovria lasciarmi
Il mio Leoni a questo tetro sogno.
Non teme ei forse ch’io svegliar mi possa?
Sì consumata nel fallir sarei?…
Oh infame il giorno che mi fûr recate
Queste note d’amore!!»
E su dal seno
Una lacera carta ella traendo,
V’infisse i lumi; la baciò; la strinse
Tra le palme e gemette.
«Io ben rammento
Che, appena l’ebbi, la gittai nel foco…
Ma estinto il soffio del dimòn l’avea.
Lungo era l’atto a lacerarla intera…
Io nol potei!»
Che sogna la demente?…
Arsa l’avrebbe?… Ah, se stridea la fiamma
Lí pronta a divorarla, indi ritorti
Avrìa gli occhi la misera. E se un primo
Impeto pur ve la traea, sparmiato
Già non avrebbe le sue belle vesti
E le man dilicate, onde salvarla
Dalle subite vampe.
Oh! qual periglio
Può rattener la donna innamorata,
Quando la punge quell’acuto immenso
Empio patir?
Deh, non parlar di queste
Crëature sì fragili e possenti,
Tu non nato ad intendere che il vile
Gaudio d’averle e d’oblïarle sempre!
«Duro è l’indugio. E ancor non vien!»
Si desta
Da lunge un’eco: Edmenegarda ascolta
Avidamente; le si fan le gote
Porpora viva… Il suo Leoni è giunto.
«– Addio, diletta!»
Ella si tacque; e un lungo
Sospir traendo, con le molli braccia
Gli cinse il collo e lo baciò.
– «Divina
Sei veramente! Durassero eterne
Quest’ore! Stolto! io non credea che tanta
In sé chiudesse voluttà la terra!…
Dov’è sembianza che alla tua somigli?
Chi non daria per queste chiome un regno,
Per baciar mille volte, com’io faccio,
Queste tue chiome, e a forza di baciarle
Stemperarsi d’amor, com’io mi stempro?…
Sì, Edmenegarda!… Piega la tua testa
Qui sul mio cor!… Deh, senti come batte
Un cor d’Italia… Ah, questi miei non sono,
Non son gli amplessi del superbo Inglese…»
«– Leoni mio, non proseguir!… Ti prego
A mani giunte, non mi far morire!…
Troppa è l’ebbrezza che nel cor mi versi;
Ma per pietà non proferir quel nome!…
Io non ho forza a sostenerlo!… Taci!…»
«– Ei ti disama; non t’amò giammai.
Co’ suoi gelidi modi ei ti contrista,
Gentil rosa d’amor! Ben meritava
D’aversi a moglie una rubesta donna
Delle carniche rupi, e non la dolce
Edmenegarda mia!»
«Deh! più non dirne;
Mi son pugnale avvelenato all’alma
Le tue parole! Ei sì ancor mi ama Arrigo,
Troppo umano e cortese a questa sua
Miseranda colpevole!… Che fora,
S’ei risapesse?… Oh mio Leoni!… Un serpe
Mi rode il core!… Io lo disamo, io sola;
E si tormenta il misero a vedermi
Tramutata così!»
Può far portenti
La pietà nei gentili. Ed ella intensa
La sentia per Arrigo. Arse Leoni
In quel fiero sospetto: e sulle labbra
Dal core offeso gli suonâr parole
Sino allor non proferte.
– «E cieca or tanto
Fatta sei tu?… Veder ne lo potessi
Sotto i vecchi palagi, com’io ‘l vidi,
Passeggiar sorridendo! Egli divora
Tutte degli occhi queste nostre donne,
E, immemore di te, forse possiede
Nel suo vil desiderio altre sembianze,
Che un raggio, un’orma della tua non hanno».
«– Leoni, è tempo di tacer!»
«Non anco,
Edmenegarda!… Lasciali i rimorsi
A lui che vola a comperati amplessi,
E svergogna cosí questo suo dono.
Non meritato dal Signor!» —
Le guancie
D’Edmenegarda in una calda fiamma
Si tramutâro.
«Ascoltami, Leoni!
Tu menti; è vano il dubitar; tu menti!
Deh, così basso non cader! Non farmi
Più pesante la colpa! Almen mi lascia
Questa alterezza, che in vulgar persona
Io non locai l’affetto. Intender tanto
Non credea dal tuo labbro. Arrigo è fiero,
Arrigo mio, più di quant’altri alberga
La vostra Italia. Ei non sapria macchiarsi
Di gelose menzogne. Egli, il mio sposo,
Pria di mentir, morrebbe. Or via, mi guarda;
Gli occhi ho pieni di lagrime!… Sei pago?»
«– Edmenegarda!… Se le atroci ambasce,
Che mi schiantano il cor le risentisse
Una fragile donna, ella saria
Sepolta già. Dissimular che giova?…
Voi l’amate, l’amate!»
«Oh così fosse!…
Perchè trarmi dal core anche il rimorso?»
«—No, Edmenegarda, non lo dir!… Ma vedi!…
Vedi come per te cieco son fatto!
Questa indomita febbre è la mia parte
D’aria e di sole. Io morirei senz’essa.
Credi, non sente amor chi lo divide!…
Edmenegarda mia, vile io non sono!
Questi crudi, che a voi povere e frali
Insegnaron la colpa, e poi non sanno
Sentir la gioia dell’avervi intere,
Paghi d’un bacio che a sbramar li venga,
Questi tutti son vili!» —
Dallo sguardo
D’Edmenegarda, ai concitati accenti,
Lampeggiò l’allegrezza; e intorno al collo
Gli ripose le braccia; e figli e sposo
Svaniron lenti dalla sua memoria
Sotto il vel dell’oblio, che il novo affetto
Continuatamente iva tessendo
Più fitto sempre.
Ma sorrider lieta
Già non sapeva.
– «Oh mio Leoni! Infauste
Giornate il cor mi presagisce. Ah sempre
Amami, sempre com’io t’amo; e queste
Parole mie non oblïar. La terra
Mi tesserà dolori, avvilimenti;
Io sarò forte a sostenerli. In core
Mi languirà la prece, e disperata
Io non cadrò. Se mi mancasse il pane,
Non saliranno i miei lamenti a Dio;
Me l’avrò meritato!… Ma, se mai
Tu… mi lasciassi…»
«Angiolo mio! Quai fole
Per la mente ti passano? Sorridi,
Edmenegarda. Or via; caccia dall’alma
Queste vaghe paure!… E non ti basta
L’amor mio tanto?…»
«Oh sì, mi basta!… E vedi
Ch’io son tranquilla. Ma tu pur, diletto,
Non affannarmi; non voler ch’io tremi
Dell’ire tue! Qual gloria indi n’avresti?…
Che resta a noi, se non amarci?» —
A queste
Voci d’affetto sospirò Leoni
Di profonda amarezza, ed esitando
La man le porse, come con quell’atto
Perdon le dimandasse dello averla
Contristata così.
Sul core afflitto
Ella serrò la cara mano… e tacque!
Molti dolori chi molto ama oblia!
Sceso era già dall’orizzonte il sole
E in grembo alle romite aure del loco
Movea un suon di reconditi sospiri
Rotti da qualche inebrïato accento.
Ma quella sera sulle dolci mura
Calâr tetri i crepuscoli; alle imposte
Mugolarono i venti; e sembrò voce
Quasi di pianto il mormorar de’ flutti.
Anche l’addio delle tremanti bocche
Alla forzata ilarità del volto
Non rispose quel dì.
Nelle fatali
Soglie si nascondea la preparata
Ira del Nume; un innocente bimbo.
Il sottil laccio tra la siepe al falco
Ghermisce il collo, e la invisibil goccia
Colmo alle ripe l’Oceàn travolve.
Per quelle sale con aerei passi
Trasvolando Leoni, non s’avvide
Del fanciulletto che di là per caso
Passava. Urtollo; e il poverino a terra
Giacque ferito nella bella fronte.
Leoni come lampo gli si tolse
Dagli occhi. Accorse alle dolenti strida
La madre.
– «Oh santa Vergine! Rispondi;
Rispondi; angelo caro. Che hai tu fatto?…»
«Mamma, non io; ma quel signor del Lido…»
«—Taci; t’inganni; non è ver. Non deve
Un bel fanciullo lagrimar. Se taci
Se non parli ad alcuno, io ti prometto
Che un bell’abito avrai, ma de’ più belli
Che si veda in Venezia.» —
Ed asciugando
Il poco sangue del picciolo viso,
Molte feste gli fece. Alle carezze
Inusitate da gran tempo, e al gaio
Promettere, il fanciul serenò gli occhi
Subitamente; e non finìa la madre
Di carezzarlo.
Una crudel tempesta
Da molti giorni si mescea frattanto
Nell’anima d’Arrigo.
Ove fuggito
Era quel dolce, quell’amabil riso
D’Edmenegarda sua? Perché sì mesto
Il sonar della voce e sì frequente
Lo scolorir del volto? onde quel vago
Svïarsi de’ pensieri e quel profondo
Compatir delle colpe?… e se festiva
Talor si mostra, perché mai traluce
Dalle note e dai gesti un doloroso
Sforzo dell’alma? la cagion del fiero
Mutamento qual era?…
Ella altre volte
D’Arrigo a canto procedea superba,
L’ondeggiar delle vele e il varïato
Gioco de’ raggi e il luccicar dell’acque
Lietamente notando. Ai vaghi aspetti
Era gelida adesso e di mirarli
Rifuggìa quasi. Nel leggiadro core
Altre volte un desio caldo la punse
Di visitar le insigni opre dell’Arte
In compagnia d’Arrigo; or da gran tempo
Non vedea quelle sale; e senza cura
Abbellìa la persona; e senza affetto
Educava i suoi fiori.
«In che le spiacqui?
Talor diceasi Arrigo. E donde nasce
Quel tormentoso infastidir di tutto?…
Quei rotti sonni?… Quel tremar talvolta
Nelle mie braccia?… Oh che?… Forse?…»
E dal bruno
Fronte gocciava qualche fredda stilla.
Poi, ripensando alle celesti gioie
Da Edmenegarda avute; e a quella tanta
Vita d’amor pei figli; e a sè guardando
Giovine e bello e da tanti anni amato
Con timida allegrezza, ebbe vergogna
Di dubitar.
Né sì profondo infitta
Gli restò come pria dentro al pensiero
Una persecutrice ombra, che sempre,
Con la sua dolce Edmenegarda uscendo,
Su’ lor passi incontrava.
– «Oh l’importuno!
Che pretende costui?» proruppe un giorno
Con la sua donna Arrigo.
«E che?… Vorresti
Impedirgli la via?» —
Si ricambiaro
Ambo un sorriso; e fu sì casto e pieno
E confidente, che potea di mille
Sospettose paure esser compenso.
Ma quando acuta i visceri penètra
La vipera del dubbio, ella consuma
Fieramente la vita, e non è forza
Ch’indi la tragga. Nel fervor dei prandi,
Nella vicenda de’ convulsi giuochi,
Tu crederai di seppellir quel mostro;
Ma sorgerà. Nelle sonanti corse,
Tra i tumulti del dì, nella notturna
Melodia d’un’angelica canzone
Che di tepido oblìo l’anima incanta,
Tu crederai di seppellir quel mostro;
Ma sorgerà. Né sull’altar di Dio,
Dove si placa ogni tempesta umana,
La prece e il pianto t’usciranno in pace.
– «Vieni, Adolfetto mio: dolce è la sera;
Vieni a San Marco. Vi vedrai di molti
Vispi fanciulli. Tu sta’ ritto e bello.
Fa’ loro invidia».
Vezzeggiando al padre,
Battè palma con palma il fanciulletto
Tutto contento, ed abbellir si fece.
Nero il turbante, come neve il collo,
Ceruli i guardi, cerula la veste,
Biondi i capelli, inanellati e lieve
Per l’omero scorrenti, era Adolfetto
Un angelico incanto. E parea nato
Quel soave fanciullo a render miti
Con la tanta bellezza anche le fiere.
– Sei pur vaga, o Venezia, e lungamente
Memorabile e cara alle pietose
Fantasie del mio cor! Chi porta gli occhi
La prima volta sull’eterne torri
Del tuo San Marco e non sospira, è degno
D’assiderarsi alle perpetue brume
Del Boristene. Chi trascorrer lascia
Le gentili tue donne e non si sente
Rapito all’aria de’ leggiadri aspetti,
Non merta mai bacio d’amante. E quando
Al grazïoso favellar festivo
Non esilara il cor, l’ultima Islanda
Io ben dirò che gli fu madre.
Al cupo
Tempestar della mente e agli odii ingrati
Della terra natale, e a qualche arcano
E tremendo peccato, in queste tue
Ospiti rive, dopo lunga guerra,
Trovò riposo un esule; e talvolta
Brillò la gioia ne’ fulminei sguardi
Del poeta d’Aroldo.
Alle solinghe
Ore di quella travïata i canti
Del poeta d’Aroldo eran compagni.
E quella sera le correan a forza
La mente e gli occhi sui dolenti casi
Di Parisina. Alla fatal lettura,
Ecco repente tramortir la lampa,
Stridere i vetri: ella riapre e chiude
Più volte il libro, e pallida, d’intorno
Sguardando, le parea dalla oscillante
Parete lampeggiar l’ombra del duca.
Popolata è la piazza, e sotto il doppio
Ordin degli archi in allegria passeggia
La varia gente. Assiso era col padre
Il fanciullin da un canto. E con le bianche
Dita sfogliava una recente rosa
Che la gentil fioraia, in trapassando
Data gli avea. Dal doloroso petto
Sospirò Arrigo a contemplar divelta
La beltà di quel fior.
– «Perchè sospendi,
Adolfetto, il tuo giuoco?… A chi riguardi
Sì fisamente?… Di’; conosceresti
Quel signor bruno?…»
«Se il conosco! e molto
Male ei mi fece!…»
«Che?»
«Spinsemi a terra».
«Dove?»
«Fuggendo per le nostre sale».
«Tu sogni?»
«Babbo mio, deh! non guardarmi
Sì corrucciato».
«Parla, angelo, parla!…»
«La mamma corse ed egli era scomparso.»
«Ed è quello?»
«Sì, quello.»
«In lontananza
Forse t’inganni!»
«Oh no.»
«Quando ripassa,
Guardalo attento!» —
– Ripassò Leoni. —
– «Dunque?…»
«Gli è quello!» —
«Arrigo si coperse
Di mortal pallidezza! i polsi un tratto
Gli si allentâro; e sotto alla vergogna
Sospirò di morire. Il paradiso
Della sua vita si chiudea per sempre!
Ma dopo gli urti di quel primo affanno,
Che ogni forza, ogni senso gli scompose,
Dell’aere diffuso al refrigerio,
Pietosamente assursero in Arrigo
I secondi pensieri.
«Ella tradirmi!…
Ella sì amante, che parea vivesse
Del soffio mio!… Tradirmi ella, mendìca
E allo splendor delle mie nozze assunta!
Ella che sempre io nominai coi nomi
Più giocondi e soavi!… Arrigo, acqueta
L’anima ardente… e non potria quel folle
Essersi appena avventurato un giorno
A tentar le mie soglie, e così offesa
Edmenegarda dispregiar quell’atto,
Da non curarne o vergognar tacendo?
Talor maestro di sospetti è il caso
Perfido e vile. Ma… quel novo stato
Di tristezza che l’occupa!… Parlarle
Uopo è una volta. Oh incanutir le chiome
Mi possano oggi! Mi diserti il cielo
D’ogni ricchezza, un misero sepolcro
Copra i miei figli… ma non sia l’orrendo
Fallo; non sia!…»
Da una lampada d’oro
Sul letto nuzïal d’Edmenegarda
Una timida luce si diffonde
Velatamente.
Ella è soletta, e il capo
Stanco reclina tra le ardenti palme.
E pensava, pensava!… E in quei pensieri
Era un torbido assalto di paure,
Di rimorsi, d’amor, di pentimenti,
E indomato un desio di sovvenirsi,
E un lungo sforzo d’oblïar.
Da quella
Mutua battaglia alfin scosse la testa.
Arrigo entrò. Lieve un tremor sul labbro,
Lieve un pallor; non altro. – E a lei vicino
Si pose.
– «Arrigo!»
«Edmenegarda! È tempo
Ch’io vi favelli. Rammentate i giorni
Del nostro amore? Ei furon lieti!… e forse
Non torneranno più!…»
«Tristo è il presagio,
Arrigo mio! »
«Sentite, Edmenegarda.
Qualche mistero di dolor vi siede
Nell’anima profonda. Io non vorrei
Aver fatto una misera. Quel giorno
Che legai la mia fede (oh così amaro
Non credea mi tornasse il ricordarlo!)
Quel giorno come adesso, io tenea stretta
Nelle mie la tua mano… e questi accenti
M’uscîr dal core: Edmenegarda, eterni
So che non duran sulla terra affetti.
O inesorata li spegne la morte,
O li lacera il mondo. Io credo e spero
Che mi amerai… Ma… se una volta stanca
Di me tu fossi… se al tuo cor non pari
Trovassi il mio… se di tristezza e noia
I tuoi giorni languissero… prometti
Che parlerai, prometti! – E a te piangente
Parve strano quel dir; tu non credevi
Che quest’ora arrivasse…. Edmenegarda,
Tu nol credevi! – Or via; parla una volta:
Che ti contrista?… Questa lunga e dura
Serie di giorni desolati – è troppo.
Parla; ti versa nel mio cor. Non sono
L’amico tuo?…» —
Fu dieci volte spinta
Quella infelice a rivelar la colpa.
Ma il terror, ma l’amor, ma quella stessa
Bontà d’Arrigo, a cui tanta ferita
Già recar non sapea, miseramente
La rattennero – e tacque.
«Oh più non dirmi
Di sì dolenti cose! A te ben noto
Esser dovria perchè sì mesta ho l’alma!…
Son questi i giorni che a’ miei dolci colli
Gir mi lasciavi; e della madre in seno
Io deponeva i verecondi arcani
Del mio felice vivere! – Da un anno,
Sai ch’ella… è morta!…» —
E, a quella pia memoria,
Le cadeva una lacrima, confusa
Col rossor di meschiar l’urna materna
Alla prima menzogna.
– «Edmenegarda!…
Null’altro?… Questo… veramente questo
V’amareggia?… Null’altro?…»
«E perchè fiso
Così mi guardi?» —
Tutto in quell’occhiata
Edmenegarda intese; e la sostenne
Imperterrita.
– «Ascoltami!… Un atroce
Dubbio m’agita l’anima. Più a lungo,
Viltà sarebbe il mio tacer. – Conosci…
Certo Leoni?…» —
Un gelido trabalzo
Urtolle il core, ma passò qual lampo.
– «Lo conoscete? »
«Arrigo mio, perdona
Se ti sorrido… Io sì che lo conosco
Quello scortese. Un dì, male avviato,
D’ignote genti a dimandar qua venne;
E, nel partirsi, inavvertito, a terra
Spinse Adolfetto nostro.»
E, proferendo
Le mendaci parole, un’aria assunse
Di maraviglia, d’innocenza e pace.
Ei la guardò; ma l’ineffabil riso
Tuttavia nei sereni occhi brillava.
Caderle ai piedi, stringerla, baciarla
E ribaciarla; e non finir di dirle
Mille accorate e mille dolci cose
Fu per Arrigo un punto. Era oblïato
L’orgoglio inglese in quegli atti d’amore!
E l’abbracciava il misero!…—
Un istante
Che allentato si fosse il tempestoso
Urto di quella ebbrezza, avria sentito
Tremar sotto gli amplessi orribilmente
Le colpevoli membra, e sotto i baci
Farsi di gelo la convulsa bocca.