Читать книгу Poesie scelte - Giovanni Prati - Страница 8

EDMENEGARDA
CANTO QUINTO

Оглавление

Deh, venitemi intorno, estri gentili

Della terra del Sol, dalle gioconde

Belle odalische, voluttà promessa

Del paradiso; e freman le ricurve

Arpe, miste al romor delle fontane

Correnti in letto di corallo e perle;

E della mesta Rosellana al canto

Dall’ardue torri lo stambùl risponda,

Mentre scherzano i silfi entro al fogliame

Delle mistiche palme, e i flessüosi

Giovinetti rosai dell’Ellesponto

Levano un nembo di celesti odori!

Deh, venitemi intorno, innamorate

Fantasie di quei cieli, a consolarmi

La mente e il carme, per sì lungo pondo

Di dolor contristati!

Io così prego,

Ma renitenti alle invocate gioie

Non rispondon le corde, e dalla triste

Anima il vivo imaginar dilegua.

Alla fuggente prora apresi il mare.

Così fuggisser le memorie infami

Che lasciasti o Leoni, avvinte al lido!

Altri, cui tocca la pietà profonda

Della misera donna, a te daranno

Di tristissimo il nome; altri, cui l’uso

D’abbandonar necessità crudele

Fe’ parer l’abbandono, un motto appena

Sibileran dai labbri, e sarà incerto

Se sia pietate o scherno, o indifferente

Rumor di voce che col vento passa:

Pochi dal cor sospireran tacendo,

Pochi tremanti della propria polve,

Che il giudicio dell’uom lasciano a Dio.

Quando si seppe di quel novo caso,

Misto a vili racconti, onde sul capo

D’Edmenegarda ripiombâr gli oltraggi,

In ferite s’aperse, e grondò sangue

L’anima altera, affettüosa e degna

Di quel misero Arrigo.

Egli tradito,

Privo per lei delle più sante gioie

Che dispensa la vita, accompagnato

Da perenni vergogne, egli l’amava…

Ancor l’amava! Era la sua fanciulla,

Vista sì bella sulle consce rive

Del Tagliamento; era la dolce amica

Del segreto suo talamo; la madre

Di quei due fanciulletti, ultimo bene

Ch’egli avesse nel mondo; or così sola,

Così deserta, e misera, e percossa

Dalla terra e da Dio!…

Battea d’acerba

Gioia e d’orrido affanno il cor d’Arrigo

Confusamente, e prorompea;

«Son giunti

Questi giorni una volta! Edmenegarda,

Li volesti; e son giunti; e non è dritto

Che nessun te li tolga. Il lutto e l’onta

Nella mia casa hai seminato; or cogli,

Cogli, ché è tuo, di quella dura pianta

Il durissimo frutto. Oh pienamente

Vendicato son io; ma troppo, ahi! costa

Quest’amara vendetta. E chi sa come,

Come, adesso, ai fuggiti anni ella pensa!

Quante lacrime sparge; ed una mano

Non aver che le terga, ed una voce

Non udir che la chiami e la consoli!

Povera infortunata!… Io, che dovrei

Maledirti, oblïarti, io sento il peso

De’ tuoi dolori, io solo! Oh questo pianto,

Che frenai da gran tempo, uopo è che scorra.

Così bastasse!»

E in furïosi e torvi

Pensamenti quel suo spirito errava

Dietro al vil fuggitivo; ed arrivarlo

Avria voluto, e dirgli: Hai lacerato

La vita mia; quel vago fior m’hai tolto,

L’hai lasciato languir – perfido! – rendi

Conto col sangue.

E l’aspre alle dolenti

Cose mescendo, rasciugava gli occhi,

Che tornavan per forza a inumidirsi,

E divorava i fremiti, e in disparte

Torceva il capo. E que’ suoi due angioletti,

Quasi con senso di pietà celeste,

Senza parole, gli piangean da lato.

Ma una più tetra e desolata stanza,

E ben diversa dal palagio antico,

D’ombre s’avvolge, e da quell’ombre un cupo

Gemito insorge, e in una febbre ardente

Trangoscia un core che morir non puote.

E tra due mani discarnate e stanche

Langue il lavoro, sovra cui s’incurva

La debil vita a guadagnarsi il pane.

O Edmenegarda in così verde etade,

Ormai per te sì miserabil fatta,

Che la stessa Pietà non ha più accento

Per consolarti! Orribili pensieri

Ti si volgono in mente, e a quando a quando

Incapace ti senti a soggiogarli:

Sì turbinosi assalgono.

Infelice!

Da quell’orlo sacrilego rimovi

Gli ammalïati sguardi. All’acre punta

Di quel pugnal non accostarti. Il nappo,

Che cercavi di mescere, percoti

Alla parete; ché dei tanti falli

Sepolcro infame una viltà non sia.

Ed ella veramente era tentata

Di finir quegli spasimi. Ma il forte

Pensier de’ figli, e una continua speme

Che il digiuno e la febbre avria consunto

Quelle estreme reliquie, e il provvidente

Terror di Dio nel comparirgli innanzi

Così com’era; e non chiamata; – un freno

Posero a quella bramosia di morte.

Ma per quanto ella di pregar tentasse,

Più pregar non sapeva. Era la sua

Vita un torbido mar corso dai nembi

Senza un filo di luce.

A lui pensava,

Che credea d’obblïar; pensava a un altro

Che obblïar non poteva; e con veloce

Ricordanza crudele e detti e sguardi

Ricomponendo, e patimenti e gioie,

Stupida e lassa al suo lavor tornava.

Degli aurei fregi e delle ricche vesti

Non possedea più nulla: in sacrificio

Lieto le offerse, a liberar le fedi

Da Leoni tradite. E dopo tanto

E sì intenso patir, – venne quel giorno

Aspettato e terribile, che all’opra

Cadder le membra, e il cibo che non manca

Al più mendico – le mancò. Soccorsi

Limosinar dal mondo? Oh! pria di farlo

Era meglio morir. Morir non era

La gioia sua?…

Ma la mordente fame

Vinse i fieri proposti; e ripensando

Che del molto fallir pena e riscatto

Esser potea la vita, ella ne volle

Trangugiar l’amarezza insino al fondo;

E, offenditrice, il pan del pentimento

Dimandar dall’offeso.

«Alle sue soglie

Ben mi sta ch’io ritorni: ei così smunta

Mi vedrà!… così debole!… alla terra

Curvata e supplicante! – Io fui la dolce

Compagna sua! Gli parlerò d’un tempo,

Ai nostri cuori memorabil troppo.

Non dirò nulla; piangerò. Che importa,

Se quel mio Arrigo io non potrò guardarlo?…

Parole acerbe ei mi dirà! – ma al prezzo

Di risparmiar nuovi peccati – il pane

Non vorrà rifiutarmi. Io non gli chiedo

Altro che il pane!»

Alla più dura croce

Oggi la miseranda anima è posta.

Ben merita, o Signor, quando ella giunga

Nel tuo cospetto, che coi tanti giorni

Di spavento e di colpa, anche quest’ora

Ella trovi notata.

In ampio velo

Chiuse la fronte, e con gli sguardi a terra

Sforzatamente a quella volta mosse.

Dopo quattr’anni ripassò per vie

Non obbliate! da lontan scoperse

Quella dimora! – entrò per quella soglia!

Quelle mura conobbe! Ad ogni sguardo

Una fiera memoria; ad ogni passo

Un sorvenire, un assalir d’affetti;

Un acceso disordine; un tumulto

Vertiginoso. Entrata era felice;

N’uscìa reietta; vi tornava quasi

Moribonda di fame. Il cor materno

Si dilatava, si stringea, spirando

L’aura spirata da’ suoi dolci figli;

E così a stento, finalmente venne

Alle stanze d’Arrigo.

In fondo egli era,

Solo e pensoso. Alzò gli sguardi e vide…

E credea d’ingannarsi; e in piè balzando,

Un tremito contenne, immobil stette.

E la guardò.

La misera prostrata

Gli era davanti ad aspettar.

– «Chi siete?…

Che cercate da me?»

Levò tremando

Edmenegarda la consunta faccia,

E – «Guardatemi! disse. Un dolce nome

Io portava una volta; a voi dinanzi

Più recar nol poss’io… Ma ho fame, Arrigo!…

Sì, guardatemi!… ho fame!»

«Ah! che i sepolti

Non han più desiderii; ed è gran tempo

Ch’ella è sotterra, e disertati e soli

Qui restiam noi. Vedete quelle stanze?

Là mi venne rapito, ahi! così presto

Quel mio tenero fiore. E questi cari

Li vedete? – appressatevi, infelici

Orfani miei!» —

La disperata madre

Stese le braccia; ma li strinse Arrigo

Forte sul petto, come per salvarli

Da quell’amplesso.

– «Sono miei! Non sono

D’altri che miei! Partitevi: alle vostre

Gioie fate ritorno… e non turbate

Questa dimora ove obblïar si tenta.» —

Così dicendo, e accortosi che i figli

Eran vicini a rannodar le sparse

Reminiscenze dell’amato aspetto,

Li strappò seco; e si perdea nel vuoto

Aere il romor dei concitati passi.

Quella larva s’alzò; segno non fece,

Non proferse parola; uscì più ratta,

Qual s’ella avesse il suo vigore antico.

Gelido un riso le movea dai labbri;

Sotto l’urto precipite del sangue

Non vedea più le cose; – e camminava

Camminava convulsa e strascinata

Da un’orribile idea.

Vide una striscia

D’acque terse e lucenti. Era il canale;

La meta sua. Con un’ebbrezza intensa

Girò lo sguardo; misurò quell’acque;

Doppiò le forze; si cacciò sull’orlo;

V’inarcò la persona… e già il mortale

Tratto mancava. – Quando, ai disperati

Occhi una luce balenò; dischiusa

Vede una bianca soglia; ode un soave

Salmodïar di voci; un infinito

Scoramento la vince; una speranza

Vien come lampo; quel disegno orrendo

Torna, cede, rincalza, è dileguato! —

Inneggiate, o celesti! Ella è nel tempio

Col suo dolce Pastor l’agna perduta;

Rifiutata dal mondo, ella è raccolta

Nelle braccia di Dio.

Godi, infelice,

Questo bene supremo. Ogni vivente

Ch’oggi stolto scendesse a contristarti,

Senza misura irriterìa l’Eterno. —

E là, dinanzi al più remoto altare,

Non turbata pregò; pregò pei figli,

Per Arrigo, per sé, per quel ramingo

Ch’era lunge, per tutti; e non potendo

Quel ramingo scordar, chiedea dal cielo

Che gli dèsse fortuna; indi pentita,

Il periglio sentia di quella prece;

E pensando ad Arrigo, in sé chiudendo

Qualche rancor pel rifiutato pane,

Non finiva di piangere – e col pianto

Dimandava che Dio le perdonasse.

Indi, tornata alle deserte case,

Trovò dell’oro. Il generoso ignoto,

Arrossendo, conobbe.

«Or dunque estinta

Son io per lui, senza riparo?… Estinta

Sarò per tutti.»

Ma venìa frequente

Quell’amor tenebroso a conturbarla,

E pensava al lontano – e aver novelle

Pregava sempre – e sempre era delusa.

Più sperar non volea; dopo un istante

Ritornava a sperar.

– Misera! acqueta

La tormentata anima tua; da lui,

Se ti è concesso, ogni pensier distogli.

Amor che nasce e si matura in colpa,

Che col rimorso e col terror s’annoda,

Senza voto né legge, infausto fiore

Lungamente non dura. Aprir le foglie

Alla vampa del sol, chiuderle ai baci

Rugiadosi dell’alba, abbandonarle

Non vigilate ai venti – ed una sera

Inchinarsi e morire, ecco la sorte

Di quell’infausto fiore.

Egli – il cui nome

T’è rimprovero al cor – d’ogni allegrezza

Essiccate ha le fonti, e intensi amori

Più custodir non puote. Egli oggi obblia

Quel che ieri adorava, ed oggi adora

Quel che domani obblïerà.

Malvagia

E steril landa è di costor la vita.

Solitari la passano; e l’estrema

Necessità di morte li sorprende

Nudi d’affetto; e non han figli, o sposa,

Non un caro superstite, che doni

Lagrimando alle fredde ossa una croce!

Edmenegarda umilïar la fronte

Tra le genti non seppe. E se talvolta

Qualche compagna dei giocondi tempi

Spïò da lunge, in altra parte mosse

Delicata e superba.

Uscian le turbe

Agli allegri tumulti? – Ella nell’orto

Restava, ore con ore, contemplando

Una vïola del pensier, diletto

Fiorellin ad Arrigo. O di feroci

Note di sdegno o d’armonie d’amore

Sonavano i teatri? – Ella con mesta

Voce sommessa modulava un canto,

Che ad altri tempi in calda estasi Arrigo,

Arrigo suo rapì. Poi quando i raggi

Languian nell’occidente, e qualche stella

Scintillava nel ciel, sulla solinga

Finestretta venia guardando al mare;

Perchè ogni sera alla medesim’ora

Una barca radea l’eremo lido,

Non a’ suoi dolorosi occhi straniera.

Ella da lunge la vedea sull’acque

Avvicinarsi; le tremava il core;

Le rivolgea qualche romito accento;

La seguìa sospirando; insin che il breve

Suo fanaletto si perdea tra l’ombre.

Un dì, scendendo a visitar nell’orto

Quella vïola del pensier… curvata

Sul tenue gambo e pallida la vide

Presso a esalare i moribondi incensi

Nell’etere materno. Anche quel caro

Memore fior languiva! Al vedovato

Vasellino lo tolse, in cor pensando

Di lasciarlo cader sull’aspettata

Navicella fuggente.

«Oh tu, pietoso

Messaggio almen, sulla corolla estinta

Recherai loro questi caldi baci!»

Aspettando ella sta. Che roseo sogno

Le si dipinge nel pensier! – Non sempre

Volgon dure le sorti, e il duolo in parte

Fu riscatto alle colpe, e la memoria

Di quel lontan si discolora e passa.

Chi sa che un giorno la pietà non parli

All’anima d’Arrigo, ed ei non voglia

Dimenticar, – e le rïapra il seno,

E monda dalle lacrime la chiami

Novellamente sua! Dio che perdona

Più che l’uom non fallisca, eternamente

Lascerà l’odio nella sua fattura?

Aspettando ella sta. L’acume intende

Delle pupille ad esplorar le vaghe

Lontananze; non ode urto di remo.

L’ora è trascorsa; ancor silenzio. Addoppia

Gli occhi e l’udito; e il navicel non giunge.

Ahi! la viola del pensier, funesto

Vaticinio è di mali.

Una pedata

Ode; si volge; un sigillato foglio

Le si reca; lo guarda, impallidisce;

La man d’Arrigo lo vergò; tremante

L’apre e vi legge… (Misera! dagli occhi

Quante lacrime ancor ti gronderanno!)

«Edmenegarda! I tuoi miseri falli

Rimetta Iddio! Ma non sperar parole

Di perdono da me. Tu mi rapisti

Tutte le gioie; maledir m’hai fatto

Questa tua bella Italia, ov’io sperava

Viver lieto e morir; privi di madre

Tu rendesti i miei figli. Alla natale

Inghilterra io mi reco a seppellirvi

Il dolor, se m’è dato; e pensa come

Lieta avrò l’alma nell’udir taluno

Che di te mi dimandi. Ahi! sarà duro

Il dover dirgli: La mia donna è morta. —

E quando il guardo io volgerò dagli erti

Miei colli al sito ove si spande questa

Terribil terra, imagina se gli occhi

Avrò giocondi! Oh sì, fibra per fibra

Tu m’hai lacero il core, e più non posso

Parlar di pace. Ma per tutti un’ora,

Edmenegarda, arriva; ed io la sento

Più di tutti vicina. All’appressarsi

Di quell’ora di Dio fuggon dall’alma

I corrucci e le offese, e bisognosi

Di perdono siam tutti. O Edmenegda,

Spera in quell’ora. Io non dimando al cielo

Che d’obblïar, di crescermi vicini

Sempre i miei figli, e sostenere in pace

Le agonie della morte… e perdonarti!».

Di man le cadde il foglio; alla parete

S’appoggiò; le grondò larga una stilla

Giù pel pallor del volto, e senza speme

Tra le genti si vide; e allor l’acerba

Coppa sentì d’aver vuotato intera.

Sì! la vuotasti. Ma il divino Amico

Ti vestì di coraggio, e del tuo lungo

Patir l’offerta, festeggiando, accetta.

Sola e pensosa il cammin novo imprendi,

Come chi parta da dilette cose

Per un lungo viaggio.

Incontrerai

Sterpi e tenebre e gel; ma non ti colga

Scoramento né tema!

In lontananza

S’apre una dolce, una serena plaga,

Dove la pace i combattuti accoglie

Come una madre, e della vita il sogno

Lene si solve in una santa luce.


Poesie scelte

Подняться наверх