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Giovanni Verga
Eros
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ОглавлениеAllora fu recato in villa un invito pel ballo della contessa Armandi.
Andarono in una magnifica sera d’autunno. Le siepi fiorite esalavano vigorosi profumi; le sonagliere dei cavalli avevano un non so che di festoso; le fruste dei postiglioni scoppiettavano allegramente; l’ultima squilla dell’avemaria moriva in lontananza, coll’ultimo raggio di sole che colorava di tinte opaline uno strappo di cielo. Poi venne la notte, tacita, stellata.
Il giardino della villa Armandi era illuminato, la scala adorna di fiori, tutte le finestre brillavano come le lenti di una lanterna magica. – Alberto guardava avidamente attraverso un’iride di tappezzerie, di colori, di dorature e di specchi, vedevasi un via vai di gente in festa; nelle sale olezzavano profumi soavi, brillavano gemme superbe ed occhi vellutati, c’era una carezza di musica, di frasi leggiadre e di raso che frusciava – e in mezzo a tutto questo una donna piú bella, piú elegante di tutte le altre, che si chiamava la contessa Armandi.
Era una delicata bellezza: l’occhio nero, superbo, profondamente e voluttuosamente solcato, l’andatura, la voce ed il gesto molli, gli omeri candidi e profumati come le foglie di magnolia, ondulati in linee pure, carezzate dalle trecce nere ed elastiche, il seno squisitamente modellato nell’avorio, marmorizzato da sfumature azzurrine, vaporoso pei veli ricamati, lo strascico della veste susurrante in modo carezzevole dietro di lei, la punta dello scarpino di raso che luccicava di tanto in tanto come una lingua serpentina, la fronte altera e il sorriso affascinante. – Ella aveva quarant’anni.
Allorché si trovarono faccia a faccia con Velleda, coteste due donne leggiadre in modo diverso, scambiarono un’occhiata che avrebbe potuto dirsi il luccicare di due spade da duellanti, mentre s’inchinavano graziosamente. – La contessa sorrise all’Adele, al signor Forlani, e si voltò a guardarlo mentr’egli si allontanava.
Tutti gli sguardi seguivano la signorina Manfredini; sembrava infatti che le grazie della sua persona sorridessero trovandosi nel proprio elemento; nella sua elegante disinvoltura c’era un che d’impaziente, di avido, di febbrile, che luccicava nei suoi occhi, e dilatavasi colle rosse narici, mentre ella agitava il ventaglio chinese. Anche Alberto sorprese sé stesso a seguire la direzione di tutti gli sguardi, e fissava lungamente la contessina – poscia, inquieto, cercò cogli occhi l’Adele
Velleda stava presso il pianoforte circondata dai piú eleganti giovanotti, come una cerbiatta attorniata da una muta di cani; ma la cerbiatta teneva testa da tutte le parti, col brio, col sorriso, con una parola, con un gesto, spiritosa, caustica, leggiadra e impertinente. Due o tre volte volse a caso gli occhi su di Alberto, e ad un tratto gli fece segno col ventaglio di avvicinarsi; prese il braccio di lui e si allontanò.
«Non ne potevo piú!» disse ridendo.
Il povero giovane si sentí tutto sossopra.
«È naturale che tutti le facciano la corte…» balbettò.
«Vorrebbe farmela anche lei?» diss’ella con un accento e un sorriso singolari.
Alberto ammutolí, e a lei il sorriso morí sulle labbra.
Passeggiarono lentamente per le sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.
«Com’è bello!» esclamò Alberto.
«È Strauss,» rispose ella distratta.
«O perché non si balla un giro?»
«A proposito della corte?» diss’ella sorridendo.
Alberto volle sorridere colla medesima disinvoltura, ma ci riescí assai male.
«Ebbene…» disse «sí!»
«No!» rispose ella col medesimo tono, ma un po’ piú recisamente.
Il giovane insistette con insolito calore; ella diveniva piú capricciosa e piú ostinata, scuoteva il capo con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso, appoggiando le spalle allo stipite di una finestra e stringendo il ventaglio nelle mani. Di tanto in tanto, quasi non se ne avvedesse, raggi seduttori le scappavano dagli occhi. Ad un tratto, senza dir nulla, mentre sembrava piú ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente il braccio alla spalla di lui, e si lasciò andare.
Essa ballava in modo singolare, un po’ diritta, col capo alto, e il braccio disteso. Di tanto in tanto gli diceva qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la sua bionda testolina. Si fermò all’improvviso, un po’ rossa, un po’ smarrita, svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidí leggermente.
«Non ballo piú» gli disse «sono stanca.»
La contessa Armandi era lí presso ed esclamò:
«Che bella coppia!»
Velleda rispose con un grazioso inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e poscia arrossí di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè. Andò verso la povera Adelina, la quale se ne stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e sembrò rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.
«Non balli?» domandò il cugino, allorché furono soli.
«Non mi hai invitato a ballare!» rispose Adele timidamente carezzevole.
«Ci son tanti giovanotti…!»
«Non voglio ballare cogli altri…»
«Perché?»
«Perché… perché… perché non voglio.»
Ei chinò il capo, tuttora bollente del soffio che Velleda vi aveva gettato, e si allontanò sopra pensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui vetri, guardando nel buio, allorquando udí un fruscío di vesti vicino a lui, e si trovò accanto la contessa Armandi.
«Non balla il cotillon?…» gli domandò.
«No, contessa.»
Ella sembrò volere aggiungere qualche altra parola, ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinío di quella danza in mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si contendevano un sorriso o un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò diritto verso di lui, gli gittò come una sultana il suo fazzoletto ricamato, gli mise sulla spalla la mano splendida di gemme, e fra le braccia la vita sinuosa ed elastica – poi, quando ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un sorriso.
«Voglio conoscerla meglio:» gli disse «facciamo un giro.»
Tutti gli sguardi si volsero su quell’uomo fortunato e quell’altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno in cui l’aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di polvere e di veli.
Entrarono nella stufa, profumata, silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito con certa bizzaria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando in tutti i zig-zag serpentini pei quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo, elegante come lei. Poi ella non disse piú una sola parola, appoggiò il mento sulla mano, e guardò qua e là con occhi distratti; il fisciú alitava lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d’alabastro: ella apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le stecche fra di loro. Tutt’a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e un sorriso singolari, e gli disse:
«Ma noi ci compromettiamo orribilmente, mio caro!»
Si alzò ridendo e si allontanò.
Allorchè gli ospiti di villa Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava fra le gole lontane. Adele un po’ melanconica stava nel fondo della carrozza, avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto respirava a pieni polmoni.
«Che bella sera!» esclamò. Velleda gli rivolse una rapida occhiata.
I sogni di quella notte! popolati di tutte le larve dell’amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le lusinghe delle vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! Povera Adele, se avesse potuto indovinarli!