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Giovanni Verga
Eros
IX

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Gemmati era andato a Pistoia per un par di giorni. Alberto l’aveva accompagnato per un tratto di strada; poi era ritornato a piedi, per le scorciatoie che s’arrampicavano su per l’erta fiancheggiate da siepi fiorite. La viottola sbucava sulla strada carrozzabile, a pochi passi, in mezzo ai folti che continuavano a salire col monticello. Le due ragazze stavano per mettervi il piede quand’egli arrivò dall’altra parte della strada maestra; si voltarono al rumore dei suoi passi, e misero un oh! prolungato.

«Vi ho fatto paura?»

«Paura di che?» disse Velleda.

«Sí, ci hai fatto paura» rispose ridendo l’Adele.

«Volete che vi accompagni?»

«Dove andremo?»

«Ma.. dove vuoi» rispose Velleda all’interrogazione dell’amica.

«Se tornassimo a casa?»

La signorina Manfredini non fece alcuna osservazione; si voltò indietro, e incominciò a camminare verso il cancello, appoggiandosi all’ombrellino, con quell’altera indifferenza che l’avea fatta soprannominare la principessa.

«Sai, non è stato nulla!» disse al cugino Adele, senza osar di guardarlo.

Velleda li precedeva senza affettazione pel gran viale del giardino, voltandosi di tanto in tanto per fare una interrogazione, o fermandosi per raccogliere col medesimo interesse un fiore o un filo d’erba. I due cugini la seguivano l’uno accanto all’altra, chiacchierando fra di loro, ma senza

darsi il braccio. L’Adelina era un po’ pallida, aveva certi rossori fuggitivi, certi impeti d’allegria, come una pienezza di vita che si fosse concentrata nel cuore. Andava lentamente, quasi fosse stanca, con certa mollezza carezzevole rispondeva a lui con voce piena di una dolce sonorità, e gli sorrideva senza alzare gli occhi, con un sorriso velato.

Entrando nel salotto Velleda sprigionò i suoi magnifici capelli biondi, togliendosi il largo cappello di paglia, e vi rovesciò tutto quel mucchio d’erbe e di fiori che si teneva in grembo.

«Cosa vuoi farne?» le domandò Adele.

«Il piú bel mazzo, vedrai!»

Appena rimasero soli il cugino prese la mano della giovinetta, e le disse: «Come sei bella!». Ella gli sorrise senza alzare gli occhi.

Il sole faceva scintillare i vetri della finestra, e inondava di atomi dorati il viso della fanciulla. Ella lavorava in silenzio, col capo chino sul ricamo, e le sue mani, che si affaticavano con febbrile impazienza, dicevano al giovane amato tutte quelle cose che le labbra tacevano. – Essi si parlavano da mezz’ora senza aprir bocca – lui cogli sguardi che la giovinetta si sentiva posare sui capelli come un bacio – ella con quel silenzio, cogli improvvisi rossori che passavano sulla nuca delicata, e col lieve tremito delle mani.

«Adele!» mormorò alfine Alberto con voce appena intelligibile. Ella trasalí. «Sei in collera con me?» Essa cercò due o tre volte il buco del canovaccio dove infilar l’ago, e balbettò:

«Perché?»

«Perché non mi dici nulla…»

«Sto ad ascoltarti» rispose ingenuamente la fanciulla.

«Mi ami?»

Adele abbassò il capo sin quasi a toccare il lavoro che avea fra le mani, e il sangue le corse come una vampa in tutte le vene.

«Dammi qualcosa di tuo!…»

«Non ho nulla…»

Il cugino prese la forbicetta: ella se ne avvide, impallidí leggermente, smesse di lavorare, ed attese, a capo chino, trepidante. Ei prese un ricciolino di quei che le svolazzavano sul collo, e lo recise.

«Ahi!» esclamò la poveretta, di cui le mani tremavano forte.

«Ti ho fatto male?»

«…No… mi son punto un dito…»

Trascorsero parecchi giorni di gioie tumultuose, nascoste in due mani che s’incontravano per caso, e di sospiri riboccanti di felicità, di rossori provocanti e di pudiche audacie, di mostruose dissimulazioni, che avrebbero aperto gli occhi anche ad un cieco, e di sotterfugi abilissimi, che nessuno faceva le viste d’indovinare, – cercandosi cogli occhi, parlandosi colle mani, accarezzandosi col suono della voce, respirando l’amore e l’amante coll’aria, col profumo dei fiori, col raggio del sole, e col canto degli uccelli. Velleda, quasi fosse sola a vederci chiaro, si faceva vedere il meno possibile. Gemmati era a Pistoia, lo zio Bartolomeo si fregava le mani guardando il bel tempo che favoriva l’ubertosa vendemmia. Era un paradiso. – Al giovane innamorato sembrava di vivere in un’estasi deliziosa, che non era priva di voluttà, voluttà sottile, quasi eterea, che gli ricercava squisitamente le fibre piú riposte, e gli centuplicava il piacere di certe sensazioni. Il suo cuore vi si abbandonava mollemente; ei non desiderava dippiú, non avrebbe osato cercare piú in là: tutte le larve gioconde che avevano popolato i suoi sogni giovanili, la donna, l’amore, la felicità, erano riunite in lei, nel suo sorriso, nella sua voce, nelle carezze di quella vesticciuola che s’increspava un po’ troppo sul petto e sugli omeri delicati. Allorquando lo strascico superbo di Velleda frusciava sul tappeto vicino a lui, o le sue chiome folte gli accarezzavano gli sguardi col loro bel biondo, egli guardava con piacere, come se quell’altra bellezza invece di essere una sottrazione alle attrattive di Adele, ne facesse parte, appartenesse anch’essa alla donna amata… o al suo amore.

Del resto egli vedeva di rado Velleda, all’infuori dell’ora di pranzo, e della sera – non sempre però. Alcuni giorni dopo l’incontrò in giardino per la prima volta sola colla larga manica svolazzante sul braccio, il viso colorito dei rosei riflessi dell’ombrellino, lo sguardo vagabondo, l’andatura graziosamente indolente. Ella si fermò su due piedi, gli stese la destra, e gli disse con una sicurezza di frase e d’intonazione che parve pesare come una mano vigorosa sulla spalla di lui:

«E Adele?»

«Non l’ho ancor vista.»

Ella sorrise come sapeva sorridere alcune volte, e disse: «Ooooh!…» Alberto arrossí per timore di farsi rosso.

«La troveremo forse sulla terrazza, dove il signor Forlani sta facendo collocar dei vasi di fiori» soggiunse. «Vuole accompagnarmi?»

E andarono pel viale, l’uno accanto all’altra. Le leggere balzane del vestito di lei sussurravano sugli stivalini di pelle lucida.

«Le piace la campagna?» incominciò Alberto dopo alcuni passi.

«Tanto!»

«Ci fa delle lunghe passeggiate?»

«Sl.»

«Non si vede quasi mai la mattina!»

Ella si voltò a guardarlo, con una sfumatura di sorpresa, e inchinò leggermente il capo, un po’ ironica.

«Prima eravamo in due a correr pel giardino» soggiunse tosto come a scancellare l’effetto del suo saluto. «Ma adesso l’Adele è sempre stanca.»

«E non si annoia ad andar da sola?» si affrettò a rispondere Alberto.

«Perché dovrei annoiarmi?»

«È pur vero che alle volte si preferisce stare in compagnia dei propri pensieri…»

«Che pensieri?» interruppe Velleda bruscamente, fissandogli gli occhi in viso.

Essi rimasero un istante a guardarsi in tal modo.

Lo zio Bartolomeo, che stava lí presso, gridò, come se avesse indovinato la situazione scabrosa:

«Ehi, ragazzo, chi vuol vedere la bella carrozza? Correte sulla terrazza.»

Passò infatti un cocchio superbo, luccicante di vernice, di stemmi dorati, di livree gallonate, di campanelli, adorno di nastri e di fiori, alle testiere dei cavalli e agli occhielli dei postiglioni; i razzi delle ruote brillavano al sole come rapide ali di uccello; un sottil velo di polvere avvolgeva il legno elegante, imbottito di seta come un elegante scatolino, e la bella signora che vi stava mezzo sdraiata, appoggiando i piedi al sedile di faccia, con posa indolente, in mezzo ad una nuvola di mussolina fresca e leggiera come il tulle; il velo azzurro del suo cappellino svolazzava su tutto quell’assieme leggiadro.

«La bella signora!» esclamò ingenuamente Adelina che era venuta correndo.

«È la contessa Armandi» disse Velleda.

Alberto l’aveva seguita con un lungo sguardo.

Tornarono indietro pel desinare, e lo zio andava innanzi piú lesto degli altri, dicendo che avea fame. Di tanto in tanto Alberto rimaneva pensieroso, e non rispondeva subito, o rispondeva a sproposito alle interrogazioni e ai discorsi delle due ragazze, che sembravano festanti tutt’e due. A tavola parlò due o tre volte della contessa Armandi e dopo desinare andò a fumare in giardino.

Si sentiva gonfiare in petto i germi di tutte le forme dell’amore, come un rigoglio di vita, come acri fiori di giovinezza: era uno strano miscuglio degli occhi turchini di Adele, del suo sorriso pudico, e delle lusinghe, dei biondi capelli di Velleda, della sua elegante civetteria piú in là, fra le nuvole azzurre e purpuree dell’avvenire, ondeggiava vagamente la larva di un altro amore nebuloso come la mussolina che modellava il bel corpo della contessa Armandi, sdraiata mollemente nella carrozza come in un letto. – Tutti cotesti fantasmi gli turbinavano confusamente nella mente, gli scorrevano per le vene col sangue acceso di febbre. – Quel fanciullo che cominciava a sentir la donna aveva bisogno di piangere.

Eros

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