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Giovanni Verga
Eros
VI
ОглавлениеQuella sera lo zio Bartolomeo ritornò tardi dalla Sassosa, non si parlò di passeggiate in giardino, e i lumi si spensero di buon’ora a villa Forlani. Alberto stette inutilmente delle ore parecchie alla finestra, sperando rivedere quel tal lume dietro quella tal persiana; ma la persiana rimase pudicamente chiusa, come stanno abbassate le lunghe ciglia di una vergine cui si parli d’amore. Sembravagli che quel filo di luce gli avrebbe irradiato il cuore di tutte le aureole che ci sono in una dolce confessione, che quella finestra chiusa stesse pensando a lui, e che dietro quelle imposte Adelina dovesse trasalire, come lui, allo stormire di quelle frondi che il venticello agitava mollemente, o che stesse arrossendo, sentendosi accarezzare il viso da quel medesimo profumo di gelsomini che carezzava il volto anche a lui. Dolci sogni dei vent’anni che le bufere della vita fanno svolazzare qualche volta sul cuore dell’uomo, persino quando il sorriso dello scetticismo gli ha già increspato le labbra.
Lo zio Forlani aveva messo in campo una gita alla Sassosa; i cavalli impazienti scuotevano le sonagliere, e le giovanette si facevano aspettare. Finalmente comparve Adele un po’ pallida, e con un sorriso rugiadoso. Appena vide Alberto si fece rossa rossa.
«Buon dí, cugina!» Ella gli sorrise dolcemente, e gli porse la mano calda e febbrile.
«Sempre l’ultima!» disse ridendo Velleda, che scendeva di corsa infilandosi i guanti. «Il mio cappellino non voleva saperne di star fermo! Che hai? Come sei pallida!»
«Ho dormito male» rispose Adele tornando ad arrossire.
Alberto sentí balzarsi il cuore in petto.
Lo zio Bartolomeo sopraggiunse in tempo, come se avesse avuto l’intuizione delle situazioni delicate.
«Andiamo, figliuoli, che il sole è già alto.»
«Come sei bella oggi!» disse Velleda all’Adele, allorché furono sole.
Scorse in tal modo una settimana. Velleda sorprese piú volte la sua amica cogli occhi pieni di lagrime:
«O cos’hai?» le domandava.
«Nulla, ho il cuore troppo pieno.»
Lo zio Bartolomeo, da uomo che sa far le cose, avea preparato al nipote una grata sorpresa. La domenica successiva giunse da Pistoia anche Gemmati, e la sera ci fu gran veglia alla villa Forlani. Vennero dei vicini, il notaio Zucchi colla sua signora, ed altri tre o quattro. La serata scorse rapidamente in cosí bella compagnia; Alberto vicino al suo amico fu piú allegro del solito, ed anche chiassone; Gemmati era un bel giovanotto, tagliato un po’ grossolanamente, ma gioviale spiritoso e simpatico; Velleda, che sapeva annoiarsi con garbo, come una signorina ammodo, pestò sul piano tutto quello che vollero; Adele fece vedere l’album alla signora Zucchi, e voltò le pagine a Velleda; Alberto l’aiutò di tanto in tanto, per avere il pretesto di starle vicino, di toccare la sua veste o la sua mano nel voltare i fogli; poi le tenne il broncio perché ell’era gaia e spensierata, non cercava di guardarlo negli occhi, discorreva col primo venuto, ed evitava che le loro mani s’incontrassero. Andò a sedere su di un canapè, rannuvolato in viso, e lanciandole di tempo in tempo occhiate di fuoco. L’Adele che vedeva tutto cotesto armeggío come lo vedono le ragazze, colla coda dell’occhio, se la godeva ch’era un gusto.
La signora Zucchi, che la pretendeva ad elegante di provincia, si dava un gran da fare per mostrarsi disinvolta, ed era sempre in moto, ora ad annoiare il signor Forlani che giocava a scacchi col notaio, ora ad interrompere Velleda mentre suonava, ora a far la bambina con Adele, o la civettuola con Gemmati. Finalmente si pose a sedere sul canapè dove era il marchesino, facendo mille moine per attirarsi l’attenzione del bel biondo, che se ne stava rincantucciato all’altra estremità del canapè, con un certo viso da far credere che fosse in collera colla signora Zucchi.
Uno dei vicini aveva recato una gran notizia: si aspettava la contessa in villa Armandi – la bella contessa Emilia dicevasi.
«Non dev’esser piú giovanissima la bella contessa!» disse l’elegante signora Zucchi.
«Tutta Firenze parla di lei, e piú d’uno ha fatto delle pazzie…»
«Grazie tante!…» rispose la Zucchi assettandosi virtuosamente sul canapè. «Se non è che questo!…»
Il signor Forlani tossí; Velleda suonò un accordo fragoroso che non era segnato sulla carta, e Adele spalancò tanto d’occhi. Anche il notaio borbottò prudentemente: «Hum! hum! tutti i matti non sono all’ospedale!…».
Velleda avea smesso di suonare; Gemmati stava a discorrere con lei sottovoce, ella l’ascoltava, sorridendo a fior di labbro qualche volta. Poi Gemmati s’era avvicinato all’Adele e s’era dato a parlare con lei.
Alberto sentiva non so qual dispetto, né sapeva egli stesso contro di chi; ma guardava di sottecchi la cugina che non si occupava di lui com’egli avrebbe voluto. Infine si alzò, e andò a mettersi accanto alla signorina Manfredini. Costei levò gli occhi dalle fotografie, lo fissò con sicurezza da regina, sí che dovette chinare gli occhi pel primo.
«È un simpatico giovane il suo amico» gli diss’ella.
«Simpatico assai.»
` Ella si rimise a sfogliare l’album; il giovane cercò cogli occhi Gemmati, e lo vide presso il caminetto, discorrendo con Adele che rideva come una pazzerella. Egli si fece rosso e si mosse bruscamente per andarsene, ma invece d’infilare l’uscio ch’era dietro le sue spalle trovò piú corto di fare il giro del giardino per andare in camera sua, e dovette passare cosí vicino alla cugina da darle quasi uno spintone col gomito.
«Te ne vai?» gli domandò ella con sorpresa.
Ei rispose con accento da Otello: «Sí!».
«Perché?»
«Ho sonno» rispose bruscamente.
«Che bel giovane!» esclamò la signora Zucchi, non cosí piano da non farsi sentire dall’Adele, e osservandola con pettegola curiosità; la fanciulla, troppo ingenua per esser diffidente, si fece rossa di giubilo, seguitando a fissare l’uscio pel quale egli era partito.
«E il figliuolo della signora Cecilia?» domandò il notaio.
«Sí» rispose il signor Bartolomeo; «ha trentaduemila lire d’entrata in bei poderi.»
«E sí che il fu marchese!…»
«Ed anche la fu marchesa, pur troppo!…»
«Ma non parliamo dei morti. Quel ragazzo è stato fortunato di avere un parente che si occupasse dei suoi affari… Non faccio per dire, ma non avrebbe di che pagarsi nemmen la boria del marchesato.»
«Però non sembra punto allegro!» osservò la signora Zucchi.
«Cosa gli hai fatto?» susurrò Velleda all’orecchio di Adele.
«Io?… nulla, ti giuro!» rispose la fanciulla turbandosi.
Col cuore grosso ella andò a cercare il cugino che la fuggiva, e lo trovò sulla terrazza, appoggiato alla balaustrata.
«Cos’è stato?» gli domandò timidamente, mettendoglisi accanto come un’ombra.
«Ma nulla è stato!»
Ella non ebbe il coraggio d’insistere e tacque.
C’era accanto un ramoscello di gaggia in fiore; ne spiccò due o tre fiorellini, e glieli porse con atto gentile. Egli al sentirsi toccare dalla mano di lei trasalí.
«Conosci il significato della gaggia?» le domandò con un certo turbamento nella voce.
Adele si fece di bracia, e accennò negativamente col capo.
«Davvero?»
«Davvero!»
«Tanto meglio!» aggiuns’egli sorridendo.
La fanciulla scappò in casa, e corse all’orecchio di Velleda.
«Che significato ha la gaggia?» le domandò sottovoce, piú rossa della veste della signora Zucchi.
«Siamo di già a questi ferri?!» esclamò Velleda ridendo. «Vuol dire rottura…»
La giovinetta non volle udir altro, e tornò sulla terrazza trepidante. Il cugino teneva in mano un ramoscello di vainiglia fiorita.
«Vedi» le disse «io non son cattivo come te!» e le diede il fiore. Ella se lo mise in seno, e con grazioso e pudico ardimento, gli strappò dall’occhiello i fiori di gaggia, li buttò dalla terrazza, e fuggí. Alberto la vide, attraverso i vetri, passeggiare al braccio della sua amica; le due giovinette discorrevano sottovoce, e sorridevano di tanto in tanto. Tutt’a un tratto Adele si volse verso il balcone, e baciò il fiore che egli le aveva dato. Al giovane sembrò che quei vetri s’irradiassero di luce.
Sentivasi attratto verso di lei dall’incantesimo piú forte che avesse mai provato; ma ella sembrava evitarlo, lo guardava con un certo imbarazzo, quand’egli s’avvicinava a lei faceva istintivamente dei movimenti bruschi, come per fuggirsene, e rimaneva esitante, a guisa di un uccello spaurito che batte le ali. Tutto ciò la rendeva cosí bella che Alberto ne era affascinato; in quel momento tutte le attrattive della vita, della gioventú e dell’amore erano per lui in quel pallido visino e sotto quel modesto vestito grigio che tremava come le foglie agitate dalla brezza. Velleda era lí presso, bionda, elegante, graziosa, con tutto il fruscío della sua seta, col profumo chinese del suo fazzoletto ricamato – egli se ne avvide.
«Adele, desidero parlarti» le disse con voce tremante.
La fanciulla, un po’ rassicurata nel vederlo cosí commosso, rispose ingenuamente:
«Andiamo in giardino.»
«No… stanotte, quando tutti saranno a dormire… Allorché sentirai picchiare tre colpi alla tua finestra… sarò io…»
Ella sorpresa stava per domandargli la ragione di tutti quei misteri che non capiva, quando Alberto la interruppe vivamente:
«Zitta! ci osservano!»
E tirò di lungo colla guardinga disinvoltura di un cospiratore di melodramma.
Velleda s’era fermata ad aggiustarsi un nastro, e lo zio Bartolomeo in quell’istante era tutto intento a far vedere ai suoi ospiti che la sera era bellissima.
Alberto afferrò Gemmati per mano, al momento in cui stava per ritirarsi nella sua camera, e lo condusse seco in giardino.
«Stanotte le parlerò!» gli disse all’orecchio con voce soffocata.
Gemmati si fermò a guardarlo sorpreso, e gli rispose dolcemente:
«Perché cotesta pazzia? Non la vedi sempre? Non puoi parlarle quando vuoi?»
«No!… non è la stessa cosa… Tu non mi intendi… non puoi intendermi… non l’ami come io l’amo… L’hai vista? Com’è bella! non è vero?»
«Sí, è un angioletto.»
«Anche la Velleda è bella… forse piú bella… in modo diverso… Tutti lo dicono… e alcune volte, vedendole l’una accanto all’altra, anche io… Ma perché sembrami piú bella l’Adelina?»
«Perché l’ami.»
«E perché devo amar lei e non Velleda, che è bella per lo meno quanto lei?»
«To! perché ella ti ama.»