Читать книгу La sua compagna vergine - Grace Goodwin - Страница 6
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ОглавлениеAlexis Lopez - Centro Programma Spose Interstellari - Miami
Delle dita mi accarezzarono la guancia. Erano come piume delicate. Ma, anche così, riuscii a sentire che erano callose, e il netto contrasto mi fece venire un brivido lungo la schiena. Non potevo vedere quest’uomo, ma lo conoscevo. Sentivo qualcosa di più delle sue semplici carezze. Sentivo il desiderio, sentivo che mi bramava. Come? Non ne avevo idea. Non aveva senso, ma non volevo stare qui a ragionare. Volevo godere e basta.
“Hai freddo?” mi chiese con la sua voce rauca e profonda.
Scossi il capo. Avvampai. Avevo i seni pesanti e sensibili. In mezzo alle cosce, la mia fica si contraeva e pulsava per il bisogno, per il desiderio... Qualcosa di prezioso che non avevo mai provato prima d’ora. Lussuria.
Sentivo delle vampate di calore espandersi dal mio fianco, vampate che in qualche modo mi connettevano a quest’uomo, a questo sconosciuto. Non sapevo chi fosse, ma conoscevo il marchio. Bruciava, mi lanciava come delle scosse attraverso le vene, dritte al mio clitoride, con un potere che prima d’ora non avevo mai provato – né avevo mai osato immaginare.
Ma no. Era sbagliato. Avevo un marchio come quello, ma non sul fianco. Mi leccai le labbra secche, chiedendomi come sarebbe stato se mi avesse toccata con il suo marchio. Io ce l’avevo sul...
“Non farlo, amore.” Mi mise un dito sul labbro inferiore e lo mosse avanti e indietro. “Se ti bagni le labbra così, ti sognerò mentre mi succhi il cazzo.”
Sentii una vampata di calore e gemetti. Persistevano dei ricordi, lontani, sfocati, che non potevo raggiungere. In qualche modo, conoscevo quest’uomo, conoscevo il suo odore, il suo sapore. Lo bramavo. Io, che non bramavo mai un uomo.
Niente di tutto ciò aveva senso, ma non volevo che questo sogno finisse. Mai. Per tutta la vita mi ero chiesta cos’avessero le altre ragazze da sospirare tanto. Ora era un po’ che non parlavano d’altro. Di me, quella strana. Non avevo mai provato il minimo interesse per le attenzioni degli uomini, non avevo mai provato nessun tipo di lussuria, specie quando guardavo un uomo che non conoscevo. E mi andava bene, sarei stata strana, diversa. Sbagliata. Ma, poi... poi era arrivato lui. E il mio corpo si era risvegliato. Pieno di desiderio. Non riuscivo a pensare ad altro... volevo assaporarlo, sentirlo. In qualche modo, sapevo – come si sanno le cose nei sogni – che mi avrebbe presa. Che mi avrebbe scopata. Che mi avrebbe fatta sua per sempre. E io lo volevo, lo volevo disperatamente. La mia intera esistenza era concentrata su di lui. Sul suo profumo. Sulla sua voce. Sulle sue dita ruvide che mi stavano accarezzando il labbro.
“Vuoi assaporare di nuovo il mio cazzo, compagna?”
Compagna? Cosa? Per un momento mi sentii confusa, ma questa nuova me, la me del sogno, lo voleva. Ora. Mi abbandonai al momento, ansiosa di appagare la mia curiosità. Non ero mai stata con un uomo. Volevo sapere cosa si provasse ad averlo dentro di me. Quest’uomo. Lui era mio. E lo scenario che aveva delineato con le sue parole sembrava eccitante.
Sapevo com’era fatto il membro di un uomo. Ero vergine, mica idiota – ma non riuscivo a cogliere le sfumature di tutto quello che mi avrebbe fatto. Non sapevo cosa avrei provato ad averlo dentro di me, o che sapore avrebbe avuto nella mia bocca. Si faceva un gran parlare di pompini. Quando ero alle superiori, certe ragazze si prodigavano persino sullo scuolabus. Ma io? Mai. Non avevo mai provato il minimo interesse per i miei compagni di classe, per non parlare dei loro cazzetti che sembravano delle matite.
Ma con lui? La mia bocca desiderava assaporare il suo cazzo, sentirlo caldo e pesante sulla mia lingua.
Il suo dito scivolò via, sostituito dalle sue labbra. Mi stava baciando! E non fu come Bobby Jenkins in seconda superiore. Non ci trovavamo dietro la palestra. Lui non aveva l’apparecchio.
Non era un ragazzino. Era un uomo. Mi afferrò la nuca e mi fece inclinare la testa. La sua bocca era insistente. Mi mise la lingua in bocca. Era meraviglioso. Incredibile. La sua lingua era lenta e lasciva. Era così che doveva essere? Il calore si espanse per tutto il mio corpo, come melassa che mi attraversava le vene, una melassa densa e lenta.
“Ti ha mai baciato un uomo prima d’ora?” mi chiese strofinandomi le labbra sulla bocca, sulla mascella.
Scossi il capo.
“Che cos’altro hai fatto, compagna? Chi ha toccato la tua morbida pelle? Chi ti ha baciata?” Prese a baciarmi la clavicola e subito mi mossi tra le sue braccia. Volevo che le sue labbra si avventurassero più in basso, sui miei capezzoli. E forse ancora più giù. Nessun uomo aveva mai posato la sua bocca su di me. Non lì.
Dio, non avevo fatto mai niente. Dovevo essere una specie di barzelletta per lui. “Nessuno. Nessun’altro. Mai.” Mi costrinsi a pronunciare quest’ammissione pur sapendo che avrebbe riso di me. Chi poteva crederci oggigiorno? Una ragazza di ventun anni che era ancora vergine. Se lo avessi confidato a casa, mi avrebbe riso dietro tutto il vicinato.
Deglutii, poi gemetti. Lui mi mordicchiò dolcemente il lobo dell’orecchio. Le sue mani vagarono sulla mia schiena, mi afferrarono il culo, accarezzandomi col pollice il marchio che avevo sul fianco. L’ondata di piacere che mi fece tremare mi fece quasi crollare le ginocchia. Ero nuda, completamente nuda, ed ero tra le sue braccia, e sentivo i suoi vestiti ruvidi che si strusciavano contro la mia pelle sensibile, come cartavetrata. I miei capezzoli si inturgidirono e gemetti. Inclinai la testa all’indietro per facilitargli l’accesso al mio collo. Non avevo mai fatto nemmeno questo, ma a quest’uomo – che mi chiamava compagna – avrei dato tutto. Tutto.
“Non hai mai voluto nessuno prima d’ora.” Triste ma vero. Non mi ero mai sentita così. Eccitata e bagnata.
“Bene,” mi sussurrò lui. “Tu sei mia, e a me non piace condividere quello che mi appartiene.”
A me andava più che bene. Chiusi gli occhi e allungai la mano per provare ad affondargli le dita nei capelli, per tirarlo verso di me. Ma, per quanto duramente provassi, non riuscii a fare presa. Era come se lui stesse svanendo. Le mie mani si stavano stringendo attorno all’aria vuota.
Lui si ritrasse e sentii freddo. Mi sentii sola.
“Torna,” lo implorai.
“Sei vergine?” mi chiese. Aveva smesso di toccarmi, ma la sua voce era carica di desiderio. Desiderio per me. Me!
“Sì.” Annuii e i capelli mi caddero sulle guance. Sentii le lacrime rompere la mia voce, lacrime non di rabbia, né di tristezza, ma lacrime d’amore e felicità, amore e felicità che mi riempivano il corpo al punto da farmi male. In qualche modo, lo conoscevo, sapevo che era mio. In qualche modo, sapevo che mi amava, che mi amava per davvero. Era come se il mio cuore mi stesse colando sulla faccia.
“Vuoi che sia io il primo?” Non riuscivo più a vederlo, ma sentii il suo sussurro proprio sopra l’orecchio.
“Sì.”
“Accetterai la mia reclamazione? E mi reclamerai come tua compagna? Per sempre?”
“Sì,” ripetei. Non lo conoscevo. Ma, in qualche modo, questo mio corpo lo conosceva eccome. Mi sentivo come se fossi un’altra persona, qualcuno di magico e potente, qualcuno che non aveva paura di essere un disastro a letto. Se era riuscito a farmi star così bene con un semplice bacio, come mi sarei sentita quando mi avrebbe toccata? Cosa avrei provato sentendo il suo corpo caldo e duro, la sua pelle premuta contro la mia? Il suo cazzo dentro di me? La sua bocca che reclamava la mia, mentre mi martellava lentamente, mentre le nostre dita erano intrecciate?
La mia mente era invasa da un milione di gesti romantici che sapevo lui avrebbe fatto per me. Era quello giusto. Mi avrebbe resa felice. Felice.
“Sognami.” La sua voce si affievolì fino a ridursi a un semplice sussurro. Provai a trattenerlo, a resistere, ma il sogno scivolò via, come acqua tra le mie dita.
Sognami.
Aprii gli occhi. Sbattei le palpebre. Mi ci volle qualche secondo per capire dove mi trovassi, per accorgermi che tutto quello che era appena successo non era stato reale. L’uomo. Il bacio. Niente.
Avevo le guance bagnate. Avevo pianto per davvero. E ora stavo piangendo per un altro motivo. La perdita. Mi sentivo deprivata. Vuota. Avevo ritrovato la dura scorza che finora niente e nessuno erano riusciti a infrangere. Solo lui.
Mi trovavo nel centro Spose Interstellari. La stanza dei test era piccola, utilitaristica, con tavoli e sedie. Sembrava lo studio di un dottore, non un’agenzia matrimoniale per alieni. Fu la sedia sulla quale ero seduta che risvegliò i miei ricordi. Avevo i polsi bloccati ai braccioli di metallo. La sedia non era poi molto diversa da quella del mio dentista.
Eppure essere bloccata mi dava fastidio. Sapevo che anche le carcerate si offrivano come volontarie per diventare spose. E forse, siccome erano prigioniere, dovevano legarle. Forse qualcuna aveva provato a scappare. O forse erano semplicemente violente e cattive e il personale non voleva correre rischi.
Ma io non ero una carcerata. Io? Non avevo mai rubato niente, nemmeno un pacchetto di gomme dal negozio all’angolo, come facevano sempre quegli idioti dei miei compagni di scuola. Non imbrogliavo durante i compiti in classe e non mentivo a mia madre. Ero noiosa, triste e patetica, e mi sentivo così sola che facevo fatica a funzionare. La custode mi disse che le manette servivano a garantire la mia incolumità. Quando mi legò, mi preoccupai: forse il test era pericoloso? Ma poi lei si era allontanata con un sorriso sulla faccia e aveva passato le dita sul suo tablet... e poi… i miei ricordi finivano lì.
Quel sogno non era stato pericoloso. Oddio, forse aveva rappresentato un pericolo solo per la mia verginità. E le mie ovaie si erano certamente risvegliate.
Mi mossi, ma non potevo alzarmi. La sedia era ricurva e inclinata all’indietro. Sembrava dovessero estrarmi un molare, e non abbinarmi a un alieno.
“Tutto bene, Alexis?”
Grazie a Dio, la custode aveva il suo nome scritto sull’uniforme. Egara. Era una persona gentile, soprattutto considerando quanto efficiente e rigoroso fosse il Programma Spose Interstellari. Un tantinello militaresco. Ma lei mi aveva messo a mio agio, mi aveva fatto stare bene riguardo alla mia decisione di sottopormi ai loro test. Le loro pubblicità in TV mostravano donne felici e accoppiate ad alieni che venivano da altri pianeti. L’amore che illuminava i loro volti – e l’ovvia soddisfazione sessuale che le faceva brillare ancora di più – aveva risvegliato il mio interesse, ma poi non avevo fatto nulla al riguardo. Fino ad ora. Fino a quando non mi ero ritrovata con assolutamente niente da perdere.
Ora, ero pronta. Mio padre era morto, mia madre era scomparsa due anni fa e Rosie, il mio Golden Retriever, si era ammalata di cancro alle ossa ed era deceduta una settimana dopo mio padre. Quel cane era stato il mio migliore amico sin da quando avevo undici anni. Povero animale, con tutti i pianti e la musica pop che si era dovuto sciroppare... ma era sempre rimasto al mio fianco, dormendo nel letto con me e facendomi compagnia al capezzale di mio padre quando ormai tutti quanti mi avevano lasciata da sola.
Adoravo quel cane. E adoravo anche i miei genitori. Ma ora non c’erano più. Non c’era più niente. Mi rimaneva solo un’enorme casa traballante in cui non potevo sopportare di vivere. Il giardino era enorme, c’erano quattro camere da letto. Ma vivere in quella casa, guardare le foto appese ai muri, i mobili, sentire gli odori...
Mi sembrava tutto un’enorme altare dedicato alla memoria dei miei genitori - una cosa che non potevo sopportare. E così l’avevo venduta, avevo messo i soldi in un fondo fiduciario intestato alla figlia appena nata di mia cugina, avevo noleggiato un’auto e avevo guidato fino a Miami. A tre giorni da Denver. Avevo dormito a malapena. E avevo mangiato anche meno.
Mi sentii vuota. Completamente vuota. Fino ad ora. Fino a quel sogno. E le lacrime continuavano a colare, come un rubinetto silenzioso che perde. Quell’uomo mi aveva fatto provare emozioni sconosciute. Mi aveva resa desiderosa. Famelica. Lussuriosa. La ragazza del sogno non mi assomigliava per niente. Era piena di speranza e amore, avevo la gioia che le ribolliva nelle vene, come una di quelle caramelle frizzanti.
Lo volevo. Volevo sentirmi così.
“Signorina Lopez? Mi sente?”
Sbattei le palpebre per scacciar via le ragnatele dei miei pensieri. Quei pensieri appartenevano al passato, il passato ingarbugliato e contorto che volevo lasciarmi alle spalle. Oggi. Adesso.
“Sì, sto bene. È stato veloce.” Mi sembrava fosse passato solo un minuto da quando mi ero sistemata su questa sedia con la mia vestaglia da ospedale ricoperta da cima a fondo dal logo del Programma Spose Interstellari.
“Sì, è vero,” rispose lei. Scorsi della sorpresa nel tono della sua voce. Mi accigliai. Sentii il terrore contorcermi lo stomaco.
Nessun uomo era mai stato in grado di farmi provare nemmeno un decimo di quello che avevo provato nel sogno. Nessun maschio della Terra era mai riuscito a stuzzicare il mio interesse. Mai. Un anno fa ero andata dalla dottoressa e avevo scoperto di avere uno squilibrio ormonale, o una cosa del genere, ma la dottoressa si era limitata a sorridere e mi aveva detto che era tutto perfettamente normale. Mi aveva detto che non c’era niente che non andasse con il mio corpo. Ero sana come un pesce.
Mi aveva persino consigliato di andare da un consulente… un terapista. Poi aveva cominciato a farmi domande sul mio papà e i miei zii, e io l’avevo subito zittita e me l’ero data a gambe.
Nel mio passato non c’erano segreti di quel genere. Avevo avuto amiche che erano state abusate o stuprate - ma loro non erano come me. Loro erano riuscite a superare il loro trauma, avevano trovato il modo di vivere in modo sano la loro vita sessuale. Loro, almeno, volevano provare.
Io? No. C’era qualcosa di sbagliato in me, ne ero certa. L’anno scorso, quando l’avevo respinto, Hank mi aveva dato della frigida. E vorrei vedere: allungava le mani e puzzava di aglio. Robert, quando mi ero rifiutata di fargli un pompino dopo il nostro secondo appuntamento – cosa che, a suo dire, lo avrebbe ripagato quantomeno della cena che mi aveva offerto – mi aveva detto che ero troppo pudica.
Così me ne ero andata e lui era rimasto seduto nella sua macchina, di fronte al mio appartamento, con il cazzo in mano. Quando avevo visto quell’affare venoso, non avevo potuto fare a meno di chiedermi cosa mai spingesse le donne a volerselo mettere in bocca. Persino ora il solo ricordo mi faceva venire i brividi.
Ogni bacio che avevo ricevuto – dai baci a schiocco sulla guancia che mi dava Will Travers in terza elementare al primo bacio con la lingua dietro alla palestra in secondo superiore – mi aveva lasciato delle sensazioni sgradevoli.
Era chiaro che gli uomini non mi trovavano attraente, e che avevo il clitoride che non funzionava. Quando si trattava degli uomini, non sentivo nulla. Forse ero gay. Dopo l’incidente con Robert, avevo passato un mese a guardare le donne, a studiarle, chiedendomi se forse i loro corpi avrebbero potuto attrarmi. Avevo chiesto a Meg, un’amica di una mia amica che era lesbica, come si faceva a capire se una persona era gay. Lei mi aveva detto che se non mi veniva voglia di gettarmi a capofitto in qualche cespuglio, beh, allora forse non lo ero.
Una volta, su mia richiesta, mi baciò persino. Non sentii nulla. Nada.
Dal momento che l’idea di poggiare la mia bocca sulle parti intime di una donna era tanto allentante quanto mettermi in bocca il cazzo di Robert, capii allora che non ero lesbica. Il che era una bella fregatura. Non mi interessava di chi mi innamoravo - ma volevo innamorarmi. Volevo sentire il desiderio. Avevo amato i miei genitori, ma non era la stessa cosa. Avevo amato il mio caro. Alle superiori, avevo amiche a cui tenevo tantissimo. I meme con i gattini e i cuccioli e i bambini mi riempivano il cuore di gioia. Quindi il cuore mi funzionava.
E siccome non mi piacevano le donne, e non avevo mai trovato un uomo che mi facesse venire le calorie, allora mi ero arresa. Mi ero dedicata anima e corpo al lavoro. Ero andata a scuola e avevo studiato per diventare chef. L’unica cosa che mi appassionava era il cibo. I sapori, le consistenze, le sorprese che mi rotolavano sulla lingua quando mischiavo le spezie o gli ingredienti in modi inaspettati. Avevo passato tre anni a scuola, imparando tutto ciò che potevo dall’istituto culinario in centro.
Ero una studentessa eccellente, ma mi sembrava che la mia vita mi stesse sfilando davanti agli occhi, stuzzicandomi in modo crudele. E mentre la monotonia del doversi prendere cura prima di un genitori malato e poi dell’altro mi sfiancava, avevo scoperto che la sera, tornando a casa da scuola, mi sentivo ancora più sola di quanto non mi fossi sentita la mattina. I miei compagni di classe lavoravano in cucine vere, si guadagnavano il loro posto in quest’industria mentre io, per riuscire a studiare, dovevo cercare di ritagliarmi dei momenti utili qui e là durante la giornata.
Alla fine avevo smesso di andare a lezione e mi ero presa cura di mio padre. Non potevamo permetterci né un’infermiera né una clinica. E io non potevo sopportare l’idea di spedirlo a marcire in un posto del genere, mentre io saltavo i funghi in padella e preparavo le salse per i turisti coi soldi.
Mi presi cura di mio padre, ogni giorno pensando sempre di più alla pubblicità del Programma Spose Interstellari. Assicuravano che i loro abbinamenti avevano un successo del novantanove percento. Erano delle cifre pazzesche: il tasso di divorzi per i normali matrimoni terrestri era attorno al cinquanta percento.
Novantanove percento sembrava un sogno. E se ciò serviva a risparmiarmi quei terribili appuntamenti con tutti i Robert di questo mondo, e se mi garantivano un uomo che era perfetto per me, beh, ditemi dove devo firmare. Che diamine. Non avevo niente da perdere.
Anche se quel tizio era un alieno.
“Uhm.” La Custode Egara cominciò a passeggiare vicino a me, i capelli scuri raccolti in uno chignon, l’attenzione completamente rivolta al tablet che stringeva in mano. Non sembrava più tanto felice. Anzi, sembrava preoccupata.
Forse ero veramente, veramente difettosa. Forse il loro sistema non funzionava con le ragazze come me, con le vergini stupide e impaurite che non avevano la minima idea di cosa fare con un uomo - lasciamo perdere di cosa fare con un alieno.
Stranamente, quel pensiero riuscì subito a farmi smettere di piangere. Potevo gestire facilmente il dolore e la solitudine. Era la speranza che faceva un male cane.
“Non ha funzionato, vero? Non è riuscita a trovarmi nessun uomo.” Sospirai, cercando di impedire che la voce mi tremasse per la delusione. “Lo sapevo.”
“Sapeva cosa?” chiese lei.
“Che c’è qualcosa che non va in me quando si tratta degli uomini.”
La custode mi offrì un sorrisetto triste. Sì, facevo pena. “Oh, no, Alexis. Mi dispiace. Non mi ero accorta che eri preoccupata. Avrei dovuto dirtelo subito. Sei stata abbinata.”
Il mio cuore mancò un battito. Sgranai gli occhi… “Ah, sì? Veramente?”
C’era veramente qualcosa per me là fuori? Chi mi stava aspettando?
“Veramente,” disse lei sorridendo.
“Chi?” Sapevo di apparire ansimante ed eccitata, ma non potevo farci niente. Oggi, con quel sogno, per la prima volta in via mia un uomo era riuscito a farmi eccitare. Non avevo idea di chi fosse, o di dove si trovasse.
La custode passò il dito sopra il tablet e finalmente fui libera. Mi misi a sedere e mi massaggiai i polsi.
“Tutte le spose vengono abbinate prima a un pianeta, e poi a un compagno. Per lei, cosa abbastanza interessante, il suo profilo genetico la ha abbinata ad Everis.” Mi squadrò da capo a piedi. “Sembra che lei soddisfi i requisiti richiesti per venire abbinata a quel pianeta in particolare.”
“Oh? Che tipo di requisiti?”
Inclinò la testa per studiarmi. “Mostrami il palmo della mano.”
Non sapevo quale, quindi girai entrambe le mani verso l’alto.
Si accigliò. “Strano.”