Читать книгу Il Terrore Privato Il Terrore Politico - Guido Pagliarino - Страница 16
ОглавлениеVittorio pensava che, al fine di studiare più a fondo il caso del Mostro dellâOrecchio, potesse essergli utile una conversazione con Attilio Corona. Sâera adoperato quindi per avere lâindirizzo dellâarchitetto. Del tutto ovviamente, lâaveva cercato anzitutto sulla guida, ma il Corona non doveva avere telefono fisso e, comunque, il suo nome non figurava sullâelenco. Dâaltra parte, non era stato possibile a Vittorio dâottenere lâinformazione in Questura, in quanto la legge sulla privacy, in vigore ormai dal 1997, non consentiva aglâinquirenti, e nel caso particolare al Sordi cui Vittorio sâera rivolto, di fornire dati anagrafici di testimoni. Il commissario avrebbe sicuramente fatto unâeccezione per Vittorio châera, in fin dei conti, suo collaboratore di fatto, ma il vice questore Pumpo aveva da poco ricordato ai dipendenti le norme sulla privacy, con una circolare perentoria, per cui quando il mio amico aveva telefonato a Evaristo chiedendogli lâindirizzo del Corona, il commissario aveva preferito negargli la risposta.
Era stata Carla Garibaldi a individuare, immagino tramite unâagenzia dâinvestigazioni, di cui talvolta si serviva, e a rivelarmi la residenza dellâarchitetto, che io avevo telefonato subito a Vittorio. In paga, egli mi aveva invitato a cena al solito ristorante.
Quella sera, tra la prima e la seconda portata, mâaveva detto: âLa mansarda di Attilio Corona si trova a un tre chilometri da qui, sotto la parrocchia di San Taddeo, di cui è parroco quel don Giulio Colamonti di cuiâ¦â
ââ¦di cui aveva scritto Carla nel suo articolo sul demonismoâ.
âSissignore, hai buona memoria, proprio quel prete che sâera preso un esaurimento nervoso, a dire poco, per colpa di satanisti che lâavevano aggreditoâ.
âSpuntano di nuovo fuori le sette demoniache, in qualche modoâ.
âGià , però, fin a prova contraria, io non penso che don Colamonti abbia ancora a che fare con quella gente, credo che da decenni faccia il parroco e basta. Unâaltra cosa: gli ho telefonato un paio dâore fa, presentandomi come questore senza dirgli che sono ormai in pensione, e gli ho chiesto di ricevermi; lui ha accettato: cercherò di sapere cosa sappia del suo parrocchiano Corona, poi cercherò di parlare suo tramite al medesimoâ.
Vittorio aveva ancora un discreto passo, nonostante i suoi ottantun anni sonati, e il mattino dopo sâera recato a piedi allâincontro.
Comâegli mâavrebbe riferito, insospettito nel vedersi innanzi un uomo in evidente età di pensione il sacerdote gli aveva chiesto: âà lei il questore DâAiazzo?â calcando la voce sulla parola questore e non invitandolo a sedersi, nonostante tre cassapanche correnti, lâuna dietro lâaltra, lungo una delle pareti dellâanticamera quadrangolare, al piano terreno, dove lâaveva accolto.
âSì, precisamente sono un questore emerito, cioè in pensione, ma sempre attivo come consulente della Poliziaâ.
âAh, eccoâ.
âCome le avevo detto al telefono, sono stato inviato per avere informazioni sul dottor Attilio Corona, suo parrocchiano, e possibilmente per essergli in seguito presentatoâ.
âLei a quale dirigente fa riferimento in Questura?â.
âAl sostituto commissario Sordiâ.
âCapito. Solo un momento per favore, e intanto sâaccomodi, se vuoleâ.
Vittorio, piuttosto stanco per la passeggiata, aveva accolto lâinvito. Aveva capito che lâaltro intendeva verificare la sua identità in Questura, e aveva sperato che il Sordi fosse in ufficio, dispiacendosi di non averlo avvisato prima.
Il parroco era tornato una decina di minuti dopo e sâera seduto sorridente accanto al mio amico. Evidentemente Evaristo, o qualcuno del suo ufficio, aveva sostenuto la tesi di Vittorio. Il prete non ne aveva però detto nulla, aveva riferito piuttosto dâaver chiamato al telefonino Attilio Corona suggerendogli di venire a parlare direttamente col questore, dato che viveva nei paraggi: doveva aver stimato preferibile che fosse direttamente lâinteressato a colloquiare, riservandosi lui, come padrone di casa, dâintervenire, allâevenienza, in veste di arbitro.
Nellâattesa, forse solo per far passare i minuti necessari ma apparendo a Vittorio un poâ indiscreto, don Colamonti gli aveva rivelato châegli stesso aveva fatto dono al Corona del cellulare, scegliendolo fra rimanenze, ormai obsolete perché di notevole dimensione, in liquidazione presso un vicino negozio, e châera sempre lui a pagargli le ricariche, essendo lâarchitetto uno dei membri del Consiglio Pastorale e della San Vincenzo e venendo utili, a volte, contatti telefonici. Il parroco aveva poi preso a parlare banalmente del tempo e, poco dopo, avevano sonato alla porta.
Come ci sâaspettava, era Attilio Corona.
Il mio amico sâera alzato e Don Giulio aveva fatto le presentazioni. Vittorio sâera un poco stupito della vigorosa stretta di mano dellâarchitetto e aveva pensato che il passato ictus si fosse sostanzialmente risolto, sebbene restasse sul Corona, quale testimonianza dellâinsulto cerebrale, una smorfia fissa sullâestremo sinistro della bocca.
Don Giulio aveva preso la parola: âOra, questore DâAiazzo, lei potrà chiedere personalmente allâamico Attilio; se però non le spiace, solo alla mia presenzaâ.
âCerto, reverendo; come le avevo anticipato ero venuto anche per essere introdotto allâarchitetto, e la ringrazio per aver stretto i tempiâ.
Il parroco aveva fatto un cenno dâapprovazione col capo e aveva invitato i due a sedersi, quindi sâera scostato dâalcuni metri, restando in piedi a portata dâorecchio: âPrego, parlino liberamenteâ.
âSenta, architettoâ¦â
ââ¦solo dottore, lo preferisco, questore DâAiazzo: non sono mai stato iscritto allâalbo, perché per la mia attività dâimpresa non sarebbe servitoâ.
Capisco. Senta, dottor Corona, la domanda potrebbe apparirle un poâ personale, ma può riguardare la nostra ricerca: mi pare che lei sia abbastanza in forze, però non ci risulta che abbia mai più lavorato dopo lâictus, sebbene lei viva piuttosto⦠mi perdoni⦠dimessamenteâ.
Silenzio.
âMi scusi ancora, come mai non aveva pensato dâintraprendere, con la sua laurea, la libera professione, quando sâera rimessa in salute? Magari anche solo come assistente in uno studio tecnico: così, tanto per arrotondareâ.
âNon avrei potutoâ.
âSì, dottor DâAiazzo, è cosìâ, sâera messo di mezzo don Colamonti, temendo forse chi sa quali sospetti verso quel suo parrocchiano che doveva sentire come amico e protetto. Sâera rivolto al Corona: âPosso dire io, Attilio?â
Lâaltro aveva fatto sì con la testa.
Il parroco aveva proseguito: âLâictus ha lasciato postumi, anche se non evidenti, e proprio per questi Attilio ottenne la pensione dâinvalidità : gli capita, ancor oggi, di perdere conoscenza, senzâavvisaglie. Può succedere in due modi, come ho constatato io stesso: o che egli semplicemente svenga, rischiando di contundersi se non câè nessuno accanto a trattenerlo dallo stramazzare, oppure che per un certo tempo resti in istato di estraniazione, pur rimanendo in piedi e continuando a interagire col mondoâ.
âVale a dire senza perdere i sensi, ma non essendo presente a sé stessoâ.
âSì, e non avendone poi alcuna memoria, come se fosse caduto in trance. I casi peggiori sono forse proprio questi, perché potrebbe farsi anche più male, persino restare ucciso se, per esempio, essendo in strada finisse sotto unâauto o un tramâ.
âI medici cosa ne dicono?â
âNessuna curaâ, aveva ripreso la parola lâinteressato.
Gli aveva chiesto Vittorio: âDopo che torna in sé, lei non rammenta nemmeno qualcosina, che so, anche solo un flash dâimmagini o un quid di suoni?â
âDopo esser tornato dal rapimento, come lo chiamo io, non ricordo assolutamente niente. Lei capisce che mi sarebbe impossibile conservare un lavoro; ci avevo provato, sa? dopo la morte di mia madre, impiegandomi presso un geometra, ma⦠insomma, era stato un dramma. Mâero dimesso io stesso, per non mettere in imbarazzo il principale e i colleghi. A parte queste cose personalissime, questore DâAiazzoâ â aveva calcato su personalissime mentre, per un attimo, gli occhi gli erano divenuti non belli â âio non so quanto possa servire, a loro della Polizia, parlare con me dei delitti di quellâassassino seriale: quello che so sulle vittime, lâho già detto al pubblico ministero. Comunque, sono disposto a risponderle, ma lei mi chieda con precisioneâ: aveva parlato in tono deciso, come lâuomo abituato a dar ordini che doveva essere stato ai tempi della sua attività dâimpresa.
âComâerano i vostri rapporti col personale?â
âNon erano soddisfacenti. Come avevo già detto al giudice, il personale era negligente, sebbene noi facessimo appieno il nostro dovere di leggeâ.
âQuei cinque uccisi dal Mostro erano solo negligenti, oppure indisciplinati o⦠persino qualcosa di peggio? Sappiamo châerano anni di contestazione durissima nelle aziendeâ.
âSenta, questore, magari le dico prima qualcosa sulla mia famiglia, così capirà meglioâ.
âCasata ottima!â non sâera trattenuto il parroco.
âTi ringrazio, don Giulio. Ebbene, questore, mio padre, orfano di padre artigiano morto in un incidente sul lavoro, aveva dovuto iniziare a lavorare allâetà di dodici anni, come apprendista e poi come muratore presso uno zio, piccolo artigiano edile. Però suo desiderio era salire e, stringendo i denti, aveva studiato da geometra frequentando una scuola serale. Nonostante gli ostacoli, era giunto al diploma a soli diciannove anni. Ne era seguito un impiego municipale conquistato per concorso. Lâaveva però dovuto lasciare quasi immediatamente, perché era stato chiamato alle armi con la propria leva. Sâera ormai in guerra ed egli aveva servito in Sicilia in una delle batterie costiere, come sottotenente di complemento. Nel luglio 1943, durante lo sbarco anglo americano, era stato fatto prigioniero con tutto il suo reggimento e relegato in un campo del Texas, da cui era stato rimpatriato solo a fine guerra, riprendendo, comâera nel suo diritto, il proprio posto nel Comune di Torino. Era stato allâinizio del 1947 che mio padre aveva conosciuto mia madre, durante una serata a casa di comuni amici. Mamma diceva châera stato immediato lâinnamoramento fra papà e lei, seguito dopo breve tempo dalla decisione di sposarsi. Intanto mio padre aveva cambiato lavoro, assunto come direttore tecnico dalla piccola azienda che sarebbe divenuta quella di famiglia. Mia nonna paterna era ormai morta, fin dai primi giorni di guerra, mitragliata per strada dal pilota dâuno di quei caccia-cecchini francesi che la propaganda fascista chiamava con dileggio i Pippo, ma che facevano non poco male aglâinnocenti civili. Anche la nonna materna era rimasta uccisa in guerra, sotto il gran bombardamento di Torino nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1943, quando mia madre aveva da poco compiuto i ventâanni. Solo il nonno materno, direttore di banca, era sopravvissuto al conflitto, ma era poi mancato dâinfarto lâanno successivo al matrimonio dei miei e mia madre ne aveva ereditato un discreto patrimonio: era il 1947. Due anni dopo, ero appena nato io, il proprietario della ditta dove lavorava papà aveva deciso di cederla e, grazie al capitale della mamma e a mutui bancari, i miei genitori erano subentrati. Gente seria, tutta dedita al lavoro e incapace di sperperare, sâerano fatta meritatamente una buona fortuna, restituendo i prestiti e poi investendo nellâazienda, creando posti di lavoro e, a mano a mano, impiegando denaro pure in qualche appartamento. Avevano sempre e solo lavorato duro e avrebbero meritato elogi e, mai e poi mai, attacchi dai dipendenti, châessi tenevano doverosamente in regola e che pagavano puntualmente, a differenza di certi concorrenti. Invece, dal 1976 lâazienda era stata aggredita dal personale, nel disprezzo per i sacrifici continui dei miei genitori. Ovviamente contrariavano pure me, anzi anche di più perché avevo avuto quella che si usa dire la pappa fattaâ.
âEra stata unâingiustizia, Attilioâ, gli era stato solidale don Giulio, avvicinatosi di più, ponendogli la mano destra sulla spalla sinistra; e così Vittorio aveva notato che il prete non era mancino.
Il mio amico aveva chiesto allâarchitetto: âQuando, precisamente, lei era entrata in azienda?â
âAlla fine del 1975, a ventisei anni. Fino ad allora avevo vissuto la parte migliore della mia vita, sino a quando cioè, laureatomi in architettura e svolto il servizio militare, ero stato associato in ditta dai miei. Con lâaggravarsi in generale della protesta sociale, anche da noi gli attacchi erano divenuti duri, e, peggio, sâerano ulteriormente appesantiti dopo che avevamo assunto, quasi contemporaneamente, due elementi negativissimi: Maria Capuò, la nana come la si chiamava tra di noi, ché credo non superasse il metro e quarantacinque, e Giovanna Peritti, la Pasionaria di Mirafiori comâella stessa si vantava dâesser chiamata dai suoi compagni di partito. Erano presto divenute le caporione dei contestatori della nostra vulnerabile aziendina familiare. A causa dei sistematici attacchi del personale, il morale di noi tre proprietari sâera sempre più depresso. In piena protesta aziendale, la mia sofferenza e quella di mia madre sâerano aggravate, e di molto, perché era morto mio padre, per un ictus, provocato indirettamente, ne sono certo, da quella Giovanna Peritti: il giorno prima della sua morte, così lui ci aveva poco dopo riferito, papà le aveva dato una disposizione e lei, senza neppur ascoltarlo sin in fondo, lâaveva insultato dicendogli: âVecchio scemo, cosa ne capisci tu che sei un fascista?!â dandogli una spinta che, essendo lui piuttosto anziano, lâaveva buttato a terra. Non câerano stati testimoni, ovviamente, anche noi eravamo di là , in ufficio, la donna era furba e se lâera cavata senza pagare pegno: mancando testimoni sarebbe stato inutile denunciarla, anzi dannoso, e senza denuncia non era stato possibile mandarla via, a causa dello Statuto dei Lavoratoriâ.
âAvevate dunque molti dipendentiâ.
âNo, questore, ma più di quindici sì, purtroppo, numero oltre il quale lo Statuto imponeva di fornire la cosiddetta giusta causa per poter licenziare: anche alle aziendali familiari come la nostraâ.