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Capitolo 10

Vittorio pensava che, al fine di studiare più a fondo il caso del Mostro dell’Orecchio, potesse essergli utile una conversazione con Attilio Corona. S’era adoperato quindi per avere l’indirizzo dell’architetto. Del tutto ovviamente, l’aveva cercato anzitutto sulla guida, ma il Corona non doveva avere telefono fisso e, comunque, il suo nome non figurava sull’elenco. D’altra parte, non era stato possibile a Vittorio d’ottenere l’informazione in Questura, in quanto la legge sulla privacy, in vigore ormai dal 1997, non consentiva agl’inquirenti, e nel caso particolare al Sordi cui Vittorio s’era rivolto, di fornire dati anagrafici di testimoni. Il commissario avrebbe sicuramente fatto un’eccezione per Vittorio ch’era, in fin dei conti, suo collaboratore di fatto, ma il vice questore Pumpo aveva da poco ricordato ai dipendenti le norme sulla privacy, con una circolare perentoria, per cui quando il mio amico aveva telefonato a Evaristo chiedendogli l’indirizzo del Corona, il commissario aveva preferito negargli la risposta.

Era stata Carla Garibaldi a individuare, immagino tramite un’agenzia d’investigazioni, di cui talvolta si serviva, e a rivelarmi la residenza dell’architetto, che io avevo telefonato subito a Vittorio. In paga, egli mi aveva invitato a cena al solito ristorante.

Quella sera, tra la prima e la seconda portata, m’aveva detto: “La mansarda di Attilio Corona si trova a un tre chilometri da qui, sotto la parrocchia di San Taddeo, di cui è parroco quel don Giulio Colamonti di cui…”

“…di cui aveva scritto Carla nel suo articolo sul demonismo”.

“Sissignore, hai buona memoria, proprio quel prete che s’era preso un esaurimento nervoso, a dire poco, per colpa di satanisti che l’avevano aggredito”.

“Spuntano di nuovo fuori le sette demoniache, in qualche modo”.

“Già, però, fin a prova contraria, io non penso che don Colamonti abbia ancora a che fare con quella gente, credo che da decenni faccia il parroco e basta. Un’altra cosa: gli ho telefonato un paio d’ore fa, presentandomi come questore senza dirgli che sono ormai in pensione, e gli ho chiesto di ricevermi; lui ha accettato: cercherò di sapere cosa sappia del suo parrocchiano Corona, poi cercherò di parlare suo tramite al medesimo”.

Vittorio aveva ancora un discreto passo, nonostante i suoi ottantun anni sonati, e il mattino dopo s’era recato a piedi all’incontro.

Com’egli m’avrebbe riferito, insospettito nel vedersi innanzi un uomo in evidente età di pensione il sacerdote gli aveva chiesto: “È lei il questore D’Aiazzo?” calcando la voce sulla parola questore e non invitandolo a sedersi, nonostante tre cassapanche correnti, l’una dietro l’altra, lungo una delle pareti dell’anticamera quadrangolare, al piano terreno, dove l’aveva accolto.

“Sì, precisamente sono un questore emerito, cioè in pensione, ma sempre attivo come consulente della Polizia”.

“Ah, ecco”.

“Come le avevo detto al telefono, sono stato inviato per avere informazioni sul dottor Attilio Corona, suo parrocchiano, e possibilmente per essergli in seguito presentato”.

“Lei a quale dirigente fa riferimento in Questura?”.

“Al sostituto commissario Sordi”.

“Capito. Solo un momento per favore, e intanto s’accomodi, se vuole”.

Vittorio, piuttosto stanco per la passeggiata, aveva accolto l’invito. Aveva capito che l’altro intendeva verificare la sua identità in Questura, e aveva sperato che il Sordi fosse in ufficio, dispiacendosi di non averlo avvisato prima.

Il parroco era tornato una decina di minuti dopo e s’era seduto sorridente accanto al mio amico. Evidentemente Evaristo, o qualcuno del suo ufficio, aveva sostenuto la tesi di Vittorio. Il prete non ne aveva però detto nulla, aveva riferito piuttosto d’aver chiamato al telefonino Attilio Corona suggerendogli di venire a parlare direttamente col questore, dato che viveva nei paraggi: doveva aver stimato preferibile che fosse direttamente l’interessato a colloquiare, riservandosi lui, come padrone di casa, d’intervenire, all’evenienza, in veste di arbitro.

Nell’attesa, forse solo per far passare i minuti necessari ma apparendo a Vittorio un po’ indiscreto, don Colamonti gli aveva rivelato ch’egli stesso aveva fatto dono al Corona del cellulare, scegliendolo fra rimanenze, ormai obsolete perché di notevole dimensione, in liquidazione presso un vicino negozio, e ch’era sempre lui a pagargli le ricariche, essendo l’architetto uno dei membri del Consiglio Pastorale e della San Vincenzo e venendo utili, a volte, contatti telefonici. Il parroco aveva poi preso a parlare banalmente del tempo e, poco dopo, avevano sonato alla porta.

Come ci s’aspettava, era Attilio Corona.

Il mio amico s’era alzato e Don Giulio aveva fatto le presentazioni. Vittorio s’era un poco stupito della vigorosa stretta di mano dell’architetto e aveva pensato che il passato ictus si fosse sostanzialmente risolto, sebbene restasse sul Corona, quale testimonianza dell’insulto cerebrale, una smorfia fissa sull’estremo sinistro della bocca.

Don Giulio aveva preso la parola: “Ora, questore D’Aiazzo, lei potrà chiedere personalmente all’amico Attilio; se però non le spiace, solo alla mia presenza”.

“Certo, reverendo; come le avevo anticipato ero venuto anche per essere introdotto all’architetto, e la ringrazio per aver stretto i tempi”.

Il parroco aveva fatto un cenno d’approvazione col capo e aveva invitato i due a sedersi, quindi s’era scostato d’alcuni metri, restando in piedi a portata d’orecchio: “Prego, parlino liberamente”.

“Senta, architetto…”

“…solo dottore, lo preferisco, questore D’Aiazzo: non sono mai stato iscritto all’albo, perché per la mia attività d’impresa non sarebbe servito”.

Capisco. Senta, dottor Corona, la domanda potrebbe apparirle un po’ personale, ma può riguardare la nostra ricerca: mi pare che lei sia abbastanza in forze, però non ci risulta che abbia mai più lavorato dopo l’ictus, sebbene lei viva piuttosto… mi perdoni… dimessamente”.

Silenzio.

“Mi scusi ancora, come mai non aveva pensato d’intraprendere, con la sua laurea, la libera professione, quando s’era rimessa in salute? Magari anche solo come assistente in uno studio tecnico: così, tanto per arrotondare”.

“Non avrei potuto”.

“Sì, dottor D’Aiazzo, è così”, s’era messo di mezzo don Colamonti, temendo forse chi sa quali sospetti verso quel suo parrocchiano che doveva sentire come amico e protetto. S’era rivolto al Corona: “Posso dire io, Attilio?”

L’altro aveva fatto sì con la testa.

Il parroco aveva proseguito: “L’ictus ha lasciato postumi, anche se non evidenti, e proprio per questi Attilio ottenne la pensione d’invalidità: gli capita, ancor oggi, di perdere conoscenza, senz’avvisaglie. Può succedere in due modi, come ho constatato io stesso: o che egli semplicemente svenga, rischiando di contundersi se non c’è nessuno accanto a trattenerlo dallo stramazzare, oppure che per un certo tempo resti in istato di estraniazione, pur rimanendo in piedi e continuando a interagire col mondo”.

“Vale a dire senza perdere i sensi, ma non essendo presente a sé stesso”.

“Sì, e non avendone poi alcuna memoria, come se fosse caduto in trance. I casi peggiori sono forse proprio questi, perché potrebbe farsi anche più male, persino restare ucciso se, per esempio, essendo in strada finisse sotto un’auto o un tram”.

“I medici cosa ne dicono?”

“Nessuna cura”, aveva ripreso la parola l’interessato.

Gli aveva chiesto Vittorio: “Dopo che torna in sé, lei non rammenta nemmeno qualcosina, che so, anche solo un flash d’immagini o un quid di suoni?”

“Dopo esser tornato dal rapimento, come lo chiamo io, non ricordo assolutamente niente. Lei capisce che mi sarebbe impossibile conservare un lavoro; ci avevo provato, sa? dopo la morte di mia madre, impiegandomi presso un geometra, ma… insomma, era stato un dramma. M’ero dimesso io stesso, per non mettere in imbarazzo il principale e i colleghi. A parte queste cose personalissime, questore D’Aiazzo” – aveva calcato su personalissime mentre, per un attimo, gli occhi gli erano divenuti non belli – “io non so quanto possa servire, a loro della Polizia, parlare con me dei delitti di quell’assassino seriale: quello che so sulle vittime, l’ho già detto al pubblico ministero. Comunque, sono disposto a risponderle, ma lei mi chieda con precisione”: aveva parlato in tono deciso, come l’uomo abituato a dar ordini che doveva essere stato ai tempi della sua attività d’impresa.

“Com’erano i vostri rapporti col personale?”

“Non erano soddisfacenti. Come avevo già detto al giudice, il personale era negligente, sebbene noi facessimo appieno il nostro dovere di legge”.

“Quei cinque uccisi dal Mostro erano solo negligenti, oppure indisciplinati o… persino qualcosa di peggio? Sappiamo ch’erano anni di contestazione durissima nelle aziende”.

“Senta, questore, magari le dico prima qualcosa sulla mia famiglia, così capirà meglio”.

“Casata ottima!” non s’era trattenuto il parroco.

“Ti ringrazio, don Giulio. Ebbene, questore, mio padre, orfano di padre artigiano morto in un incidente sul lavoro, aveva dovuto iniziare a lavorare all’età di dodici anni, come apprendista e poi come muratore presso uno zio, piccolo artigiano edile. Però suo desiderio era salire e, stringendo i denti, aveva studiato da geometra frequentando una scuola serale. Nonostante gli ostacoli, era giunto al diploma a soli diciannove anni. Ne era seguito un impiego municipale conquistato per concorso. L’aveva però dovuto lasciare quasi immediatamente, perché era stato chiamato alle armi con la propria leva. S’era ormai in guerra ed egli aveva servito in Sicilia in una delle batterie costiere, come sottotenente di complemento. Nel luglio 1943, durante lo sbarco anglo americano, era stato fatto prigioniero con tutto il suo reggimento e relegato in un campo del Texas, da cui era stato rimpatriato solo a fine guerra, riprendendo, com’era nel suo diritto, il proprio posto nel Comune di Torino. Era stato all’inizio del 1947 che mio padre aveva conosciuto mia madre, durante una serata a casa di comuni amici. Mamma diceva ch’era stato immediato l’innamoramento fra papà e lei, seguito dopo breve tempo dalla decisione di sposarsi. Intanto mio padre aveva cambiato lavoro, assunto come direttore tecnico dalla piccola azienda che sarebbe divenuta quella di famiglia. Mia nonna paterna era ormai morta, fin dai primi giorni di guerra, mitragliata per strada dal pilota d’uno di quei caccia-cecchini francesi che la propaganda fascista chiamava con dileggio i Pippo, ma che facevano non poco male agl’innocenti civili. Anche la nonna materna era rimasta uccisa in guerra, sotto il gran bombardamento di Torino nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1943, quando mia madre aveva da poco compiuto i vent’anni. Solo il nonno materno, direttore di banca, era sopravvissuto al conflitto, ma era poi mancato d’infarto l’anno successivo al matrimonio dei miei e mia madre ne aveva ereditato un discreto patrimonio: era il 1947. Due anni dopo, ero appena nato io, il proprietario della ditta dove lavorava papà aveva deciso di cederla e, grazie al capitale della mamma e a mutui bancari, i miei genitori erano subentrati. Gente seria, tutta dedita al lavoro e incapace di sperperare, s’erano fatta meritatamente una buona fortuna, restituendo i prestiti e poi investendo nell’azienda, creando posti di lavoro e, a mano a mano, impiegando denaro pure in qualche appartamento. Avevano sempre e solo lavorato duro e avrebbero meritato elogi e, mai e poi mai, attacchi dai dipendenti, ch’essi tenevano doverosamente in regola e che pagavano puntualmente, a differenza di certi concorrenti. Invece, dal 1976 l’azienda era stata aggredita dal personale, nel disprezzo per i sacrifici continui dei miei genitori. Ovviamente contrariavano pure me, anzi anche di più perché avevo avuto quella che si usa dire la pappa fatta”.

“Era stata un’ingiustizia, Attilio”, gli era stato solidale don Giulio, avvicinatosi di più, ponendogli la mano destra sulla spalla sinistra; e così Vittorio aveva notato che il prete non era mancino.

Il mio amico aveva chiesto all’architetto: “Quando, precisamente, lei era entrata in azienda?”

“Alla fine del 1975, a ventisei anni. Fino ad allora avevo vissuto la parte migliore della mia vita, sino a quando cioè, laureatomi in architettura e svolto il servizio militare, ero stato associato in ditta dai miei. Con l’aggravarsi in generale della protesta sociale, anche da noi gli attacchi erano divenuti duri, e, peggio, s’erano ulteriormente appesantiti dopo che avevamo assunto, quasi contemporaneamente, due elementi negativissimi: Maria Capuò, la nana come la si chiamava tra di noi, ché credo non superasse il metro e quarantacinque, e Giovanna Peritti, la Pasionaria di Mirafiori com’ella stessa si vantava d’esser chiamata dai suoi compagni di partito. Erano presto divenute le caporione dei contestatori della nostra vulnerabile aziendina familiare. A causa dei sistematici attacchi del personale, il morale di noi tre proprietari s’era sempre più depresso. In piena protesta aziendale, la mia sofferenza e quella di mia madre s’erano aggravate, e di molto, perché era morto mio padre, per un ictus, provocato indirettamente, ne sono certo, da quella Giovanna Peritti: il giorno prima della sua morte, così lui ci aveva poco dopo riferito, papà le aveva dato una disposizione e lei, senza neppur ascoltarlo sin in fondo, l’aveva insultato dicendogli: ‘Vecchio scemo, cosa ne capisci tu che sei un fascista?!’ dandogli una spinta che, essendo lui piuttosto anziano, l’aveva buttato a terra. Non c’erano stati testimoni, ovviamente, anche noi eravamo di là, in ufficio, la donna era furba e se l’era cavata senza pagare pegno: mancando testimoni sarebbe stato inutile denunciarla, anzi dannoso, e senza denuncia non era stato possibile mandarla via, a causa dello Statuto dei Lavoratori”.

“Avevate dunque molti dipendenti”.

“No, questore, ma più di quindici sì, purtroppo, numero oltre il quale lo Statuto imponeva di fornire la cosiddetta giusta causa per poter licenziare: anche alle aziendali familiari come la nostra”.

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