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Capitolo VI

Erano le 9 del mattino, ora di New York.

All'aeroporto s’era passato un controllo doganale così minuzioso che forse era secondo solo a certe ispezioni carcerarie. Avevano guardato persino nel tubetto del dentifricio e nel flacone del dopobarba, prendendo campioni che, certo, avrebbero analizzato. Me l'ero aspettato, per la verità, un esame attento, anche se non talmente. Infatti, come pure i nostri mezzi d'informazione avevano riferito, due mesi prima in alcuni quartieri di New York l'acqua potabile era sgorgata dai rubinetti insieme a una strana sostanza inavvertibile al gusto, incolore e inodore, versata da ignoti in uno degli acquedotti in quantità proporzionalmente minuscole, ma talmente potente da indurre tutte le persone che l'avevano bevuta per almeno una decina di giorni alla condizione irreversibile di tossicodipendenti bramosi d'eroina. Nelle settimane successive era accaduta la stessa cosa a San Francisco e a Philadelphia. Contemporaneamente, i media avevano orecchiato e riferito che la Polizia Federale aveva saputo, da agenti della CIA, di un prodotto chimico che scienziati sovietici parevano avere sintetizzato. Qualcuno nell'FBI aveva avuto l'intuizione di far analizzare quelle acque e s’era scoperto il composto. Inutilmente però s’era cercato il laboratorio che lo produceva. S'era dunque sospettato che fosse stato importato segretamente. Intanto, i mezzi di comunicazione, preoccupando ancora di più i cittadini, s'erano chiesti: Si tratta di un'operazione di sabotaggio da parte dell’Unione Sovietica? O, col suo aiuto, dei nord vietnamiti? A nome del capo dell’URSS Leonid Il'ič Brežnev, l’ambasciatore sovietico aveva inoltrato una nota di ferma protesta alla Casa Bianca, accusando gli Stati Uniti di bieca calunnia.

Finalmente libero, m’ero avviato all’uscita per prendere un taxi che mi conducesse al Plaza Hotel, dove gli organizzatori m’avevano prenotato una camera. M’ero sentito però chiamare in italiano da una bella voce femminile. Era una signora attorno alla trentina, capelli corvini, molto graziosa, che, alla mia sinistra, stava agitando una breve sottile pertica con in cima un cartoncino bianco con il mio nome e cognome scritti in rosso.

"Il poeta Velli, vero?" m’aveva chiesto avvicinandosi e abbassando il cartello.

M’ero fermato: "In persona, signora..."

"Miniver: Norma Miniver. Sono inviata per lei dalla fondazione Valente." M’aveva porto la mano, dopo aver passato il cartello dalla destra alla sinistra. "L'ho riconosciuta non appena l'ho vista. Sa, la foto sui suoi libri."

Me n’ero compiaciuto. "Parla molto bene l'italiano", m’ero complimentato a mia volta mentre ci si avviava all'uscita.

"Sono italo americana."

"…ma il cognome..."

"È di mio marito. Quello della mia famiglia è Costante. Ho detto Miniver per abitudine. In verità", s’era confidata senza imbarazzo, " riprenderò il mio fra poco: abito già da sola e sto per ottenere il divorzio."

Al Plaza dopo le formalità d'ingresso, Norma m’aveva preceduto col porteur fin dentro la stanza. Sulla porta, un cartello ammoniva in quattro lingue, ma non in italiano: NON BERE L'ACQUA DEGLI IMPIANTI IGIENICI. POTREBBE CONTENERE SOSTANZE NOCIVE.

"Sono a sua disposizione come hostess per tutto il tempo della sua permanenza", m’aveva assicurato; "ma ora, penso che lei desideri soltanto rinfrescarsi e riposarsi. Occupo la camera qui accanto a sinistra, per qualunque occorrenza."

M’ero chiesto se, tra le occorrenze, fossero comprese pure quelle che, inaspettate, mi stavano salendo dal ventre alla gola in quel momento.

Era stata lei a dare la mancia al ragazzo della valigia. Ospitalità completa, avevo pensato, e chi sa se è compreso anche il sostegno affettivo a quest'ospite solo e smarrito? Le avevo detto soltanto: "Avrò certo bisogno d'aiuto e... conforto."

Aveva sorriso brevemente, abbassando un momento gli occhi come confusa; poi s'era avviata, ma senza fretta, alla porta. "Il pranzo è alle 13", s’era congedata, "qui vicino, al Cooling's. Ne approfitterò per ragguagliarla su tutto il programma."

Il Cooling's offriva solo cibi freddi, insapori o peggio. Avevo preso una galantina di pollo gommosa con disgustoso riso, quasi gelato, al curry e una torta di mele legnosa. Avrei abbandonato entro i piatti gran parte del cibo. Norma s’era limitata a un frullato verdastro che avrebbe dovuto essere salutare, come aveva detto, di una tale consistenza spessa, fangosa che, forse, aveva il preciso scopo di far passare la fame allo stoico avventore a dieta.

"La cerimonia sarà a Brooklyn, immagino", le avevo chiesto nell’affrontare incoscientemente la pietanza e dopo che già lei, in pochi sorsi, aveva vuotato con coraggio il suo bicchierone.

"No. Non là!"

"Pensavo..."

"No, la premiazione sarà nel parco di villa Valente, fuori città. Le prime edizioni sì furono a Brooklyn, negli anni '40 e '50, quando c'erano ancora moltissimi italiani. Oggi il premio, di Brooklyn, ha soltanto più il nome."

Istintivamente avevo sfiorato col medio della sinistra l'unghia dell'indice dell'altra sua mano, che teneva posata da un buon tempo a mezza tavola, a fianco del mio bicchiere di minerale.

Non s’era ritratta.

A fine pranzo, m'aveva proposto di fare un giro per la città. Non avevamo impegni, infatti, fino alle sette di sera. Il primo appuntamento del mio soggiorno prevedeva, per quell'ora, un aperitivo nell'appartamento niùiorchése di Mark Lines, il mio editore americano. Finalmente ci saremmo conosciuti. Aveva famiglia ma ci avrebbe ricevuti solo: "Si tratta d'un piccolo attico che tiene di base in città, dove vive con un cameriere: moglie e figli abitano nel verde, a una quarantina di miglia da qui, e con loro si vede nei fine settimana", m’aveva spiegato Norma. Aveva aggiunto che sarebbero stati ospiti anche due dei Valente, fratello e sorella, e alcuni altri potenti della città: "Nonostante i milioni d'abitanti, le famiglie che contano davvero sono poche centinaia e si conoscono quasi tutte fra loro." Dopo l'aperitivo dal Lines, avrei cenato con lui e la mia interprete in un vicino ristorante di Manhattan; poi, libertà per me di fare ciò che preferivo. La mia assistente aveva due biglietti per un concerto, se volevo potevamo andarci o, se no, che proponessi io. La premiazione sarebbe stata il giorno dopo, alle 18. Cravatta nera ma, dato il gran caldo di quei giorni, diritto a indossare un camiciotto subito dopo. Di seguito, una festa in mio onore, nel parco della villa.

"La conduco io per la città, signor Velli, o ha qualche preferenza?" Aveva acceso il motore.

"Intanto, preferirei mi chiamasse Ranieri; anzi, Ran, ch’è più semplice. Posso chiamarla Norma?" Avevo avuto l'impulso di sfiorarle nuovamente la mano, che aveva posato sul cambio per la manovra, però m’ero trattenuto. Le avevo invece osservato a lungo il profilo.

Lei, senza guardarmi, aveva risposto: "Va bene, diamoci pure del tu."

"Mi piacerebbe vedere Brooklyn. Cosa ne pensi?"

"Okay, Ran."

Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo

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