Читать книгу Guida pei monti della Brianza e per le terre circonvicine - Ignazio Cantù - Страница 4

BREVI NOTIZIE STORICHE DELLA BRIANZA.

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Non parmi sconveniente riportare alcuni brevi cenni storici dei paesi fra cui stiamo per fare una piacevole gita, cominciando dalle memorie più antiche, e discendendo fino ai nostri giorni, col compendiare quel che si dice con maggiore abbondanza ed ampiezza nelle Vicende della Brianza e dei paesi circonvicini.

La Brianza, il Piano d'Erba, il distretto di Cantù, il territorio di Lecco, le Valli Assîna e Sâssina furono abitate a immemorabile dagli Orobj, i quali, secondo la tradizione, fondarono la città di Barra sull'altura, che conservò poi sempre il nome di Monte Baro, in vicinanza di Lecco. Questi cedettero agli Umbri, nazione celtica, i quali vennero del pari sgombrati dagli Etruschi, che tagliando le selve, incanalando le acque, promovendo l'agricoltura tolsero ai nostri paesi l'aspetto selvaggio fino allora conservato.

Circa quattro secoli avanti Cristo, i Galli guidati da Bolleveso, superarono gli Etruschi; si fermarono nelle nostre terre, scompartiti probabilmente in due regioni, a capo delle quali erano Brenna, nel distretto di Cantù, e Brenno in quello di Erba. Ma tutti questi popoli oltremontani dovettero piegarsi alle armi di Roma, che ridussero la Brianza a provincia romana e vi fondarono, secondo l'opinione d'alcuni, Liciniforo rispondente all'odierno Villincino. Da servi diventammo anche noi cittadini romani, dopo che aiutammo Giulio Cesare reduce dalle Gallie a portar le armi contro la sua città. Incredibile ambizione!

Sorto il cristianesimo rifulse tosto anche fra noi la luce della verità. Beverate, frazione di Brivio, diede in San Sempliciano il successore di Sant'Ambrogio nella sede metropolitana; Cassago fu il luogo ove Sant'Agostino stette preparandosi al battesimo. Alcune chiese nostre ricordano quei primi tempi e principalmente i battisteri di Galliano, di Mariano, di Barzanò, che durano tuttora, e quel d'Oggiono che fu ridotto ad uso di sagrestia.

Nelle invasioni settentrionali, Unni, Goti si contesero le nostre terre; i primi furono dai secondi respinti, ma poi anche questi vennero cacciati dai Greci per istanza del nostro San Dazio d'Agliate, vescovo milanese. Finalmente i Longobardi ci sottomisero, inalzando fra noi molti monumenti della loro dominazione i quali si additano ancora senza però che si abbiano validi argomenti per comprovare la verità di questa credenza.

Tali sarebbero la chiesa di San Pietro sul monte di Civate, il San Michele sul Montebaro, il prosciugamento delle paludi di Rovagnate, le torri di Carate e Perledo e il monastero di Cremella. A questi aggiungi, il più magnifico di tutti, la cattedrale di Monza.

Divenimmo poi francesi con Carlo Magno, italiani ancora con Berengario, finalmente tedeschi con Ottone I. di Germania. Questi periodi sono per la nostra storia affatto tenebrosi.

Ed eccoti ai tempi feudali, in cui la Brianza costituì la più gran parte del contado rurale della Martesana, di cui era capo Vimercate.

Altri contadi erano pure Lecco e il suo territorio, Limonta e Civenna, a capo del quale rimasero gli abati di Sant'Ambrogio fino al 1796. Abbiamo statuti di questi due contadi, di quello della Martesana nessuno.

Altre autorità minori, col titolo di capitanati, furono erette da Landolfo arcivescovo milanese, uno a Carcano, l'altro a Pirovano e Missaglia, ed il terzo ad Incino di cui investì tre suoi fratelli. Capitanati erano Lomagna, Trezzo, Besana, Agliate, Mandello, Carimate, Mariano ed Asso.

Quando i Milanesi, sottomessi i nobili, si dichiararono in repubblica, i nostri avi, togliendone l'esempio, si affrancarono dai loro conti rurali, abbandonandosi alle violenze repubblicane, e scannandosi fratelli con fratelli. Miserabili ricordanze! Ma ben presto fummo di nuovo sudditi dei feudatarj milanesi, che continuarono ad opprimerci, fin quando furono essi alla loro volta domati da Federigo Barbarossa.

Durante le guerre tra i Milanesi e gli Alemanni, ai tempi di Federigo, noi fummo divisi di parte e di consiglio. Alcuni sull'esempio d'Algiso, abate di Civate, spalleggiarono il Barbarossa; altri, sostenendo i padroni dei nostri campi, combatterono pei Milanesi. Federigo, prevalendosi dell'ajuto dei primi, volle abbattere i secondi, e i Milanesi fecero lo stesso alla loro volta. Finalmente la battaglia di Tassera o di Carcano o d'Orsenigo, come la chiamano, (9 agosto 1160) pose termine alle contese fra noi segnalando il totale trionfo dei Milanesi. Gli uomini d'Erba e d'Orsenigo, mentre il combattimento pendeva indeciso, recando un improvviso soccorso ai Milanesi diedero il tratto della bilancia in favore di questi, onde da quel momento Erba ed Orsenigo furono donate dai Milanesi del diritto di cittadinanza, ripetuto poi da Ottone Visconti, dagli Spagnuoli e dai Tedeschi.

Ma la pace fu breve. I Milanesi ristorate le fumanti ruine della loro patria, si lacerarono tosto con intestine discordie, che rimasero sopite dalla Pace di Lecco (1223), ma che furono poi rinfrescate da Ardigotto Marcellino, che mise a nuovo rumore la città (1224).

Noi imitando l'esempio de' Milanesi ci dichiarammo repubblica, eleggendo a podestà generale della Martesana Enrico da Cernusco, e subalterno Pietro Cano da Agliate. Ma questa condizione di cose durò poco tempo, poichè ristabilita la fazione de' patrizi non solo i due nominati podestà furono obbligati a salvarsi colla fuga, ma i Brianzuoli finirono col perdere i rettori, i capitani e perfino i confalonieri, non rimanendo loro che i consoli comunali.

In quel tempo, i più ricchi possidenti della nostra Brianza erano il monastero di Sant'Ambrogio, da cui dipendevano Limonta e Civenna; l'arciprete di Monza che godeva la giurisdizione feudale sulle terre d'Oggiono, Sirone, Cassago, Monticello, Casirago, Massajola, Sorino, Maresso, Torrigia, Tresella, Castelmarte, le corti di Bulciago, Calpuno, e Velate, Monguzzo, Cremella ed Osnago e moltissime altre; il monastero di San Dionigi che possedeva alcune terre in Barzanò, Verzago, Cuciago, Merate, Pescate e Sabbioncello.

Intanto dalla Valsassina usciva una nuova potenza, che doveva passare dalla pace d'un umile paesello, al fasto d'un dominio potente, contendere colle prime autorità italiane, dare più presto de' re, che de' capitani, i quali sarebbero poi scomparsi, parte trafitti, parte condannati alle durezze dell'esiglio e delle prigionie.

Pagano della Torre, nativo di Primaluna, fattosi benemerito de' Milanesi, dopo la battaglia di Cortenova (1237), fu da essi nominato protettore del popolo, contro l'arcivescovo Leone, detto volgarmente da Perego dal nome del suo paesello natale.

Pagano trionfò, ma a mezzo delle sue vittorie cessò di vivere (6 giugno 1240) lasciando il protettorato a Martino degnissimo suo nipote, che proseguì le contese sanguinose coi nobili finchè la tregua di Parabiago (4 aprile 1257) sospese per qualche tempo lo scialacquo del sangue. Poco appresso l'arcivescovo Leone, infermatosi a Legnano, scese nella quiete della tomba, dopo la vita più tumultuosa ai 16 ottobre 1257.

A lui succedeva, come arcivescovo, Ottone Visconti, più uomo di guerra che di chiesa, il quale pieno d'ira contro i popolari milanesi si fece caporione dei patrizj di Milano e del contado, fra cui primeggiava Aliprando Confalonieri conte d'Agliate.

Le segrete antipatie si convertirono presto in formali contese. Sul Prato Pagano, spianata poco discosta da Como, Torriani e Viscontei vennero a sanguinosa giornata (1258), funestissima alla parte de' Visconti e de' Confalonieri, che dovettero ricercar salvezza sul territorio bergamasco.

E là si cacciarono al vergognoso partito di invocare l'ajuto d'Ezzellino, crudelissimo Signore di Padova, coll'appoggio del quale passata l'Adda, si disposero a stringere di assedio Milano. Trovarono però un esito tristo non meno che le loro intenzioni! I nobili furono annientati ed Ezzellino ferito, tra Vimercate e Monza, finì una vita scandalosa e crudele in Soncino l'8 ottobre 1259.

Un bando pubblicato contro i patrizj superstiti rese la loro posizione ancor più disastrosa, tanto che di nuovo dovettero ritirarsi sulle terre bergamasche.

Poi, troppo confidenti nella loro unione, ardirono di nuovo valicare il fiume che separava le due repubbliche milanese e veneziana, e rinchiudersi nel castello di Tabiago, in numero di trecento. Ivi subito assediati da Uberto Pallavicino, podestà dei popolari milanesi, furono ridotti alle più desolanti miserie, alle più indegne umiliazioni, finalmente molti fatti prigionieri (1261).

Egual sorte toccavano gli altri che si erano gettati nel castello di Brivio, poi e questi e quelli salvi finchè visse Martino Torriano, (1262) dopo la sua morte furono in numero di 54 miseramente appiccati nel Broletto nuovo di Milano. Ma la fortuna, fino allora favorevole alla potenza torriana, si innimicò a loro sui campi di Desio, 20 gennajo 1277, quando Francesco ed Andreotto, figliuoli di Martino, rimasero trafitti, e i fratelli di costoro Napo, Lombardo ed Erecco perdettero la libertà e finirono la vita nelle miserie delle prigioni, e gli altri due Cassone e Goffredo postisi in fuga mangiarono il duro pane dell'esiglio.

Allora ristorata la potenza de' Visconti, vennero richiamati dall'esiglio tutti i patrizj, e steso il catalogo delle famiglie nobili milanesi fra cui sono moltissime delle nostre terre.

Finchè però non fossero estinti del tutto i Torriani titubava la potenza d'Ottone Visconti. E dovette accorgersene quando l'esule Cassone (luglio 1278), rimesse insieme nuove soldatesche, sottomise i castelli di Cassano, Vaprio, Trezzo, Brivio, poi tutta la Brianza e il Piano d'Erba. Non giunse appena l'inaspettata notizia ad Ottone, che mandato un grosso esercito, diede motivo ad una sanguinosa baruffa sul ponte di Brivio, terminata col trionfo de' Torriani. Allora Cressone Crivelli, postosi di mezzo ai contendenti coll'autorità che non viene mai meno in un uomo di senno, di cuore e di zelo, indusse la pace, che fu segnata in Brivio, poi confermata in Marignano (1279).

Ma chi rispettava la pace in quei tempi calamitosi? Nuove contese tra i Visconti e i Torriani stancarono l'animo dei Lecchesi, che animati dai caldi parteggiatori della libertà, si alzarono a gridare la loro indipendenza. Intempestivo desiderio che rese più infausta la nostra posizione, poichè Matteo Visconti, subentrato all'arcivescovo, mandò Zanasio Salimbeni ad assalire improvvisamente il borgo di Lecco, che fu sottomesso e dato in preda alle fiamme (1296).

Tornati così alla condizione di servi dei Milanesi, festeggiammo Guido Torriano, quando, cacciato Matteo Visconti in esiglio, si dichiarò capo della repubblica milanese; per lui combattemmo sotto le bandiere di Tignacca e Strazza Parravicino, potenti signori del Piano d'Erba; per lui sostenemmo l'assedio di Monza finchè tutto cedette alla imperiosa superiorità di Galeazzo Visconti. E quando contro costui fu bandita la crociata, noi Guelfi, ci unimmo alle armi pontificie, avemmo la peggio sulle rive dell'Adda, ma finalmente, cambiata la fortuna, cacciammo i Visconti da Cassano, Trezzo, Vaprio, Brivio ed anche Monza, (18 giugno 1324), ove però rientrarono ai 10 novembre dell'anno medesimo.

Durante queste tumultuose vicende i Grassi di Cantù ardirono dichiararsi liberi, e rinforzato il loro borgo con torri e con mura, proclamarono l'indipendenza. Ma, veduto il loro pericolo, si riposero in divozione de' Visconti, appena questi cessarono d'aver a fronte la crociata. Venuti poi a contesa con Franchino Rusca signore di Como, per aver tentato di ribellargli la città, si misero in una dannosa spedizione, per cui perdettero 116 uomini trafitti nelle vie di Como, 54 furono mandati sulle forche (1333).

Salito a capo del governo milanese l'accorto Azzone Visconti ed inimicatosi coi Grassi, tolse a questi ogni podestà, quindi s'impadronì di Lecco, ove gettò il ponte sull'Adda, e finì col sottomettersi tutta la Martesana.

Subentratogli Bernabò, per rinforzare i suoi dominj, fabbricò i castelli di Desio e di Trezzo, compresse le ribellioni della Brianza che era insorta all'appressarsi d'una nuova crociata bandita da Giovanni XXII. nel 1373, vi commise molte crudeltà, nè finì d'opprimerci se non quando, per tradimento di Gian Galeazzo conte di Virtù, fu fatto prigioniero e cacciato a morire nel castello di Trezzo.

Allora tutte le famiglie briantee, che si erano ribellate contro il dominio de' Visconti, ebbero da Galeazzo la liberazione del bando e la grazia di ritornare al possedimento dei loro beni[1].

L'esempio delle discordie de' dominanti avea dato motivo alle discordie de' soggetti. Ghibellini e Guelfi, nomi scandalosi, senza confine, senza unità di pensiero, questi due nomi suonarono funestamente anche nei nostri paesi, dove nappe rosse e bianche distinsero le due parti contrarie. Dapprima queste contese erano suscitate da due o più famiglie prevalenti, dopo non furono che due accozzaglie di gente senza capo, senza rinomanza, che si diedero a fraterni umori, a spogliar chiese, casali, cascine, stalle, castelli, ardere biade e boschi, farsi a vicenda mille insulti e sprezzi, seme di vendetta e di sangue. Poveri tempi! povero senno di chi li rimpiange!

Tornarono però ancora i Guelfi a mettersi sotto l'ombra d'un nome famoso, che fu Pandolfo Malatesta, al quale cedettero il castello di Trezzo; e si posero a scorazzare per la Martesana e per la Pieve d'Incino, rubacchiando, ed ammazzando a tradimento. Ma per astuzia dei Colleoni il Malatesta fu scacciato da quel castello, e si pose in salvezza sul territorio bresciano: e restarono i due nomi a capo delle nostre fazioni di Colleoni e di Visconti.

La nostra storia da quel momento diviene più che mai interessante pei tumulti che vi cagionarono i capitani di ventura. Assedj sostenuti e ribattuti, sangue sparso a tradimento, vittorie e sconfitte funeste ambedue, sono le vicende di quel disastroso periodo quando le terre nostre risuonavano del nome e delle prodezze di Carmagnola, di Gonzaga, di Bartolomeo Colleoni, di Gattamelata, di Francesco Sforza, che più avventuroso di tutti, divorato dall'ambizione di regno, piantò i suoi accampamenti nella Brianza e con un pugno d'uomini sfidò e vinse ad un tempo i Veneziani ed i Milanesi (1447-1450).

Nella villa del conte Giovanni Corio di Vimercate (3 marzo 1450) fu sottoscritto il trattato, che dichiarò lo Sforza legittimo successore dei Visconti. Sotto di lui fu scavato il naviglio della Martesana, colla direzione dell'ingegnere Bertola da Novate.

Poche sono le memorie della Brianza sotto i successori di Francesco Sforza, quando ne eccettui i molti uomini illustri che vi fiorirono e l'istituzione dei feudi di Desio, Mariano, Carate, Agliate, Giussano, Verano, Robiano, Sovico, San Giovanni di Baraggia, e Mulino di Peregallo.

Durante le contese degli ultimi Sforza e de' Francesi, vedemmo le galanterie di questo popolo avvezzare alla immodestia le nostre fanciulle, introdotta fra noi la mollezza, ed anche la versatilità ed instabilità di quella nazione.

La battaglia di Pavia (25 febbraio 1525) tornò insieme col Milanese anche la Brianza in podestà di Francesco II. Sforza, sotto cui il castello di Monguzzo divenne il nido d'ogni ribalderia; poichè Gian Giacomo De-Medici, che per tradimento ne era divenuto castellano, si gittava ad ogni più nefanda perfidezza, rubando, ammazzando, imprigionando i signori da meno di lui, nè mettendoli in libertà se non dopo lo sborso di larghissimi compensi. Non v'è quasi terra della Brianza, che non abbia sentita una volta l'influenza di sì cattivo vicino.

Quanto diverso da Gian Giacomo De-Medici era il suo nipote Carlo Borromeo! Nome caro, come i più soavi titoli della parentela, della amicizia, della beneficenza.

A lui dobbiamo la riforma delle chiese e del clero, che passando attraverso al furiare di tanti bellicosi avvenimenti, aveva smarrita la moralità, la decenza, la cognizione de' proprj doveri. S. Carlo venuto più volte nella amena Brianza e salito fino ai più disastrosi casali della Valsassina e Vallassina quando colle carezze, quando colla severità, cercò provvedere al tanti abusi introdotti nei ministri del Signore e venne poi, angelo consolatore, a visitarci, ad amministrarci i sagramenti e confortarci colle parole della fede, quando eravamo oppressi dal disastroso flagello della pestilenza (1576) che per la carità operosa del santo cardinale fu detta la peste di San Carlo.

E l'opere da lui cominciate e non ancora ridotte a termine furono proseguite dal suo cugino Federigo Borromeo, che assiduo non meno di lui volle più volte vedere questa diletta porzione del suo gregge, benchè molti pericoli minacciassero continuamente la sua vita. Ed ebbe anche egli al pari del cugino il dolore di vederci contristati di nuovo e quasi distrutti dal contagio del 1630, conosciuto volgarmente sotto la peste de' Promessi Sposi, tanta è la relazione fra questi due oggetti, che con mezzi diversi segnarono un'epoca famosa!

Col progredire della civiltà si diminuì lo scialacquo del sangue, e noi in tutto il secolo decimosesto non abbiamo di guerresco se non la sola spedizione del duca di Roano (1635) che, tentando sorprendere inaspettatamente il dominio milanese per parte del re di Francia, attraversata la Valsassina, era giunto in vista di Lecco. I Brianzuoli all'improvviso minacciar del nemico, sorti in armi, sotto la condotta di Paolo Sormani feudatario di Missaglia, si ordinarono in un subito, e schierati presso il ponte di Lecco bastarono colla loro presenza ad atterrire di sì fatta maniera il Francese, che fece argomento pel suo meglio di riprendere la fatta via, accontentandosi di quanto poteva rubare nella sua precipitosa fuga.

Da questo avvenimento in fuori la storia nostra è pacifica, un ammasso di leggi, di gride, d'ordini oggi fatti, domani invecchiati, il dì dopo dimenticati, prepotenze di signorotti, scandalose civetterie, private vendette, ma nulla che richiami ad avvenimento di generale commovimento.

Ma per procurare questa bonaccia il dominio spagnuolo avea dovuto esaurire il suo tesoro, onde fu ben presto cacciato alla necessità di vendere tutte le giurisdizioni erariali, i dazj del pane, del vino, delle carni, l'imbottato e il diritto dell'impero misto. Da qui vennero i cinquantacinque feudi in cui fu scompartita nel secolo XVII. la Brianza, fra i quali primeggiava quello delle famiglie Crivelli, a cui venivano appresso per vastità gli altri dei d'Adda, Carpani, Sfondrato, Secco-Borella e Sormani.

Cominciava invece il secolo XVIII. colla sanguinosissima battaglia di Cassano (1705), e terminava colle due non meno funeste di Lecco e di Verderio (1799), che bastano per dare un'infausta celebrità a quel secolo ed a quei paesi.

Il periodo di mezzo però fu tempo di pace e di utili istituzioni, grazie alle savie disposizioni di Carlo VI., di Maria Teresa e di Giuseppe II.

Allora avemmo il regolare scompartimento censuario delle terre, (il catasto), l'abolizione delle regalie, delle franchigie, degli asili, della tortura, e quasi della pena di morte; l'uguaglianza dei diritti ecclesiastici, e l'opera più grandiosa e più particolarmente utile per noi, il canale di Paderno, che rese praticabile la navigazione del lago di Como col mare Adriatico.

La storia politica del secolo presente è comune, tranne pochissime modificazioni, con quella di tutti gli altri paesi della Lombardia, ma a dar un colore particolare agli avvenimenti nostri furono eretti maestosi capolavori in genere di belle arti, fra cui basti ricordare la Rotonda d'Inverigo con cui il defunto marchese Luigi Cagnola richiamava nel nostro suolo la magnificenza della greca nazione.

Questi fatti, di cui abbiamo qui presentato uno scheletro nudo, spolpato, sono accompagnati da assai altri meno clamorosi ma non meno importanti, e che servono a dare più vivamente alla storia nostra quella fisonomia particolare che la distingue da tutte le altre; ma per essi mandiamo alle nostre Vicende della Brianza.

Guida pei monti della Brianza e per le terre circonvicine

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