Читать книгу È L'Amore Che Ti Trova - Isabelle B. Tremblay - Страница 6
CAPITOLO 1 – LA PALLA E IL GIOCATORE
ОглавлениеEmma rimase lì, in piedi. Senza dire una parola ammirava le onde che venivano a morire sulla riva. Poi portò lo sguardo all’orizzonte e all’oceano infinito. La sabbia, bianca e immacolata, le solleticava le dita dei piedi mentre lasciava i raggi del sole accarezzarle la pelle, sotto il cielo senza nuvole. Una leggera brezza fece danzare i suoi lunghi capelli castani, che teneva sciolti sulle spalle. Le venne in mente un ricordo dell’infanzia. Si trattava della sua prima gita al mare, che aveva fatto con la famiglia. Abbozzò un sorriso. Era felice. In quel momento Emma avrebbe potuto dire, senza ombra di dubbio, di aver raggiunto il culmine della felicità. Una beatitudine che l’aveva snobbata nelle ultime settimane.
“Sapevi che il fenomeno della marea è dovuto alla forza gravitazionale tra la Terra e la Luna? Questa reazione tende ad avvicinare i due pianeti, ma è compensata dalla forza centrifuga…”
Emma emise un gran sospiro di esasperazione, suo malgrado. Quel momento prezioso era durato solo pochi istanti. Senza volerlo o saperlo, Alice l’aveva rovinato. Le lanciò un’occhiata che sembrava volerle dire di levarsi di torno, ma fortunatamente la giovane donna non sembrava averlo notato. Emma si sentiva già in colpa per averlo fatto.
Fece uno sforzo e la gratificò con il suo sorriso più bello. La ragione le diceva di essere cortese perché dovevano passare tre giorni insieme. Anche Charlotte ed Elvie erano con loro in quell’hotel del New Jersey. Alice era ancora una completa estranea per lei e, dopo averla osservata, aveva notato che la ragazza sentiva un immenso bisogno di riempire i silenzi prolungati.
“Non lo sapevo. Grazie per l’informazione”, le rispose.
Passò il dito sulla sabbia per disegnare un cuore trafitto da una freccia.
“Sapevi che il numero di pesci…”
“Basta così, Alice. Non credo che Emma abbia davvero voglia di saperlo”, tagliò corto Charlotte.
Emma non aveva sentito arrivare la sua migliore amica. Alice sembrava offesa dalle sue osservazioni, ma non disse nulla. Preferì scusarsi e andare a fare una passeggiata nella direzione opposta a quella da cui l’altra era arrivata.
“Penso che tu l’abbia ferita”, sussurrò Emma.
“Non è colpa mia se parla troppo. Né sono responsabile di come reagisce a ciò che ho da dirle”, rispose Charlotte sedendosi accanto a lei.
“Dovresti scusarti e chiederle di tornare.”
“E che altro? Bisogna porre dei limiti ad Alice. Altrimenti, ci snocciolerà l’intera enciclopedia e, ti assicuro, non è questo che vuoi.”
Emma sospirò di nuovo, ma non trovò nulla da replicare. La sua amica era un essere ostinato e sapeva che insistere sarebbe stato inutile. Era lo stesso difetto che le aveva permesso di raggiungere il suo livello professionale. Una lottatrice.
Charlotte prese gli occhiali affumicati dal suo borsone e li mise sul naso. Tirò fuori anche la sua agenda personale per controllare il programma dei giorni seguenti.
“Dov’è Elvie?” chiese Emma.
“È ancora al telefono con il suo ragazzo. Sono talmente attaccati l’uno all’altra che mi chiedo perché l’abbia lasciata venire qui senza di lui”, rispose Charlotte, unendo l’indice e il medio a mo’ di esempio della fusione che stava sperimentando quella giovane coppia, secondo lei afflitta da dipendenza affettiva.
“Non puoi capire cos’è l’amore!”
“Ah, no! Non ricominciare con questa storia. Non voglio sentirti ripetere le stesse cose. Dici sempre lo stesso”, stroncò Charlotte e proseguì: ”Sei felice di stare con noi?”
Emma, che fissava sempre un punto immaginario all’orizzonte, si voltò verso la sua amica e le sorrise.
“Era il momento perfetto. Proprio nella pausa tra un contratto e l’altro. Come hai fatto a far credere al tuo capo che fossi indispensabile per te? Pensavo te la cavassi piuttosto bene con l’inglese da quando prendi lezioni dal signor Wilson.”
“Ho davvero bisogno di te. Il mio inglese non è abbastanza buono per le interviste, devi aiutarmi se inciampo nella lingua di Shakespeare. Le lezioni private con il signor Wilson sono fantastiche. Mi dice che dovrei avere molta più fiducia in me stessa.”
Emma scoppiò a ridere.
“Tu ? Mancare di fiducia in te stessa? Ma va’ là… Fa abbastanza ridere, conoscendoti.”
Charlotte Riopel scriveva per Style Magazine da almeno due anni. Una professione che aveva scelto fin dall’adolescenza. Provava un’ammirazione sconfinata per Anna Wintour, la famosa direttrice di Vogue. Lavorava duro per fare carriera. Sapendo benissimo che la vita non le avrebbe regalato nulla per semplice magia, si dava anima e corpo al suo lavoro.
Lei ed Emma si erano conosciute all’università. Erano state compagne di stanza durante gli anni di corso. Charlotte aveva studiato comunicazione, mentre Emma aveva scelto lingue. Nonostante le loro personalità completamente opposte, avevano sviluppato un’amicizia bella, sincera e duratura.
“Come va con il signor Wilson? Ti trovi bene con lui?”
“È davvero straordinario. Sa essere a dir poco paziente con me! Grazie per avermelo raccomandato. Lo adoro.”
Charlotte si strinse la coda di cavallo e si aggiustò la canottiera blu. Stava guardando un gruppo di uomini che giocavano a beach volley un po’ più in là. Era più forte di lei: i suoi occhi erano istintivamente attratti da loro. Alice stava già tornando, quando Emma si alzò e prese la parola.
“Hai il programma per i prossimi tre giorni?”
“Non nei particolari. Ho il mio per le interviste. Ognuna di noi ha i propri impegni. Controllerò i tuoi. Candice dovrebbe essere qui presto stasera e, vedrai, sarà felice di dirci cosa fare. A te compresa.”
Candice Rose era l’editrice, la direttrice e la fondatrice di Style Magazine. Il capo di Charlotte, Elvie e Alice. E quella che firmava gli assegni del contratto di Emma. Persona ambiziosa e calcolatrice, dirigeva la rivista con mano esperta. Si era costruita una solida reputazione e la sua pubblicazione aveva rapidamente acquisito notorietà nel corso degli anni e guadagnato un posto al sole.
Emma la trovava fredda e autoritaria, ma molto professionale. Sapeva che, invece, per la sua migliore amica era una grande ispirazione: Candice Rose si era affermata magistralmente.
“Perché non ha preso lo stesso aereo che abbiamo preso noi?” chiese Emma incuriosita.
“Perché dovrebbe abbassarsi al nostro livello?” ironizzò Charlotte, gettando una manciata di sabbia sui piedi della sua amica.
“Candice aveva un appuntamento importante stamattina. Ha preso un altro volo”, replicò Alice.
Charlotte le fece una boccaccia.
“La mia risposta era molto più divertente, lagna.”
Alice tirò fuori la lingua per restituirle il gesto. A quel punto Emma diede le spalle all’oceano per guardare Charlotte.
“Ho fame. Troviamo un bel ristorantino…”
Non ebbe il tempo di finire la frase che sentì un dolore alla schiena e fece alcuni passi forzati verso la sua amica, cercando allo stesso tempo di mantenere l’equilibrio e non cadere. Qualcosa l’aveva appena colpita alla nuca. Charlotte soffocò le risate che le salivano in gola. Si alzò, afferrò il pallone bianco da pallavolo che aveva colpito Emma e guardò un giovane, quasi troppo bello per essere reale, avvicinarsi al loro gruppetto. Indossava solo dei pantaloncini da spiaggia color crema. Il torso nudo era muscoloso e abbronzato.
“Mi dispiace tanto! Chiedo scusa, davvero!” disse in inglese.
Emma si voltò, ancora strofinandosi la nuca, visibilmente arrabbiata. Quando vide l’aggressore che le aveva parlato sorrise stupidamente. Osservò un attimo il suo viso, che trovava particolarmente simmetrico e molto attraente. Le ricordava vagamente un attore di una serie adolescenziale di moda. I suoi grandi occhi verdi, espressivi, persino seducenti, sotto due folte sopracciglia, la turbavano. I capelli castano scuro, disordinati, arrivavano alla base del collo e aveva una leggera barba di due o tre giorni che circondava il bianco sorriso, quasi perfetto.
“Va… va tutto bene…” farfugliò Emma, che sentì le guance diventarle rosse come il giorno in cui la sua gonna si era sollevata passando sopra una griglia d’aerazione in una strada affollata di New York.
Il giovane si avvicinò a Emma finché non fu a pochi centimetri di distanza. Le porse la mano.
“Ian Mark”, disse.
“Emma Tyler”, rispose lei stringendola.
Non riuscì a togliere la mano, notando che lui la teneva più a lungo del normale. Le rivolse un gran sorriso.
“Non stavo mirando alla sua testa, sa”, disse, afferrando la palla che Charlotte gli aveva lanciato.
“Immagino di no…”
“Salve Ian, io sono Charlotte Riopel, e lei è Alice Chayer.”
Ian sorrise alle due giovani donne prima di stringere loro la mano, una alla volta, ma si affrettò a riportare l’attenzione su Emma, che continuava a fissarlo. Non riusciva a distogliere lo sguardo. Ian parlò di nuovo con lei, ignorando le altre due.
“Stasera, il mio amico Ryan suona all’Ocean Bar. È a pochi minuti a piedi da qui. Può venire? Vorrei offrirle da bere e scusarmi per averla colpita col pallone. Naturalmente siete tutte invitate”, aggiunse.
“Non so cosa faremo questa sera, ma può essere che verremo”, rispose lei, smettendo di strofinarsi la nuca.
Ian sorrise e diede un’ultima occhiata a Emma. Le fece l’occhiolino e lei arrossì di nuovo.
“Sarei più che onorato di incontrarla, signorina Emma Tyler.”
Poi si voltò verso i suoi amici, che sembravano aspettare lui e il pallone con impazienza. Emma lo seguì con gli occhi. Il cuore le batteva forte. Quell’uomo le piaceva. Sentiva che era reciproco. Un colpo di fulmine? Non sapeva se sarebbe stato possibile, ma era consapevole di volerlo rivedere. Era attraente, certo, ma c’era dell’altro. Era stata sedotta dalle vibrazioni che emanava. Sotto il suo sguardo si sentiva viva. Non le succedeva da mesi.
“Hai visto che Apollo? Con me se la passerebbe bene di sicuro! Che corpo che ha… Dio!” esclamò Charlotte, dando una gomitata a Emma nelle costole.
“Ok, non dire altro. Per te gli uomini sono come dei pezzi di carne.”
“Lì sta il piacere, amica mia!”
***
Emma guardò il proprio riflesso nello specchio del minuscolo bagno. Dopo lunghi minuti di esitazione aveva optato per un delizioso prendisole bianco con grandi motivi floreali rosa. La sua pelle era leggermente arrossata, non avendo messo la crema solare durante il pranzo sulla terrazza del ristorante dell’hotel. Il trucco era morbido e discreto. Una sottile linea di matita nera sottolineava i suoi occhi verde intenso. I suoi occhi erano l’unico tratto fisico che aveva ereditato da sua madre e di cui andava fiera. Aveva disegnato una linea leggermente più larga al di sopra per evidenziarne il contorno, che trovava troppo piccolo. Aveva anche applicato un po’ di mascara sulle sue lunghe ciglia. Poi aveva scelto un balsamo rosa pallido e lucido per le labbra perché le ricordava il colore preferito di sua nonna. Lasciò i capelli castani sciolti.
“Vieni? gridò Charlotte, che l’aspettava dall’altra parte della porta chiusa.
“Sono pronta!” rispose Emma, aggiustandosi il vestito un’ultima volta.
Aprì la porta e si mostrò alla sua migliore amica, che indossava un paio di legging neri sotto una casacca rosso brillante molto ampia. Anche Charlotte aveva scelto un trucco discreto. Aveva però dato ai suoi occhi nocciola uno stile smokey e misterioso applicando un ombretto nero. I suoi capelli castani erano sciolti. Emma l’aveva sempre considerata una donna fatale. Invidiava la sicurezza che dimostrava quando si avvicinava al sesso opposto. Attirava gli uomini come gli altri collezionano francobolli. Erano pazzi per lei e quando entrava in qualche posto era su di lei che gli occhi si posavano immediatamente. In alcune donne suscitava ammirazione, altre la temevano. Aveva un magnetismo incredibile e doveva ammettere che la ammirava per questo. Anche se Emma era molto carina, le mancava la disinvoltura della sua migliore amica. A differenza di Charlotte, non aveva il piacere di scegliere l’uomo con cui andare a casa alla fine della serata.
Per questo aveva trovato strano che Ian le prestasse così tanta attenzione. Era persino convinta che fosse stato il suo senso di colpa per averle fatto male col pallone a spingerlo a invitarla.
“Wow! Sei semplicemente uno schianto!” esclamò Charlotte, facendo girare la sua amica con la mano.
“Non quanto te!”
Charlotte le fece l’occhiolino e iniziò a girare su se stessa a sua volta. Faceva quella mossa fin dall’infanzia. Sua zia, da cui andava dopo la scuola fino al ritorno dei genitori, le permetteva di giocare nel suo guardaroba per ‘fare le sfilate di moda’. Si divertiva sempre a girare su se stessa per imitare le modelle sulla passerella.
“Elvie e Alice non vengono. Avevo pensato di lasciare un biglietto a Candice alla reception per invitarla, ma non riesco a immaginarla in un bar sulla spiaggia con il suo immancabile completo di alta moda.”
Emma le lanciò un’occhiata assassina.
“No. Proprio no. Sembra così altezzosa e austera. Mi spaventa”, confessò Emma.
“Mi sono già chiesta se conosca la definizione del verbo divertirsi. Sono anche convinta che suo figlio debba prendere un appuntamento per vederla.”
“Che triste!”
Emma sospirò e si mise sul letto. Iniziò a giocherellare febbrilmente con il fondo del vestito. Quel tic l’aveva ereditato da suo padre, che giocava sempre con la punta della camicia. Era un uomo nervoso di natura e lei sapeva di ripetere il suo gesto quando si trovava in un momento di estrema tensione. Era comunque felice di assomigliare a lui piuttosto che a sua madre, che li aveva vigliaccamente abbandonati, suo fratello, sua sorella e lei, molto tempo prima.
Aveva appena compiuto otto anni. Il giorno dopo il suo compleanno. Preferiva non ricordare quel momento. Fu quando quella donna, che avrebbe dovuto essere il suo modello femminile nella vita, se ne andò. Se ne andò vergognosamente dalla casa di famiglia, lasciando un semplice biglietto d’addio che suo padre aveva gettato nella spazzatura. Lei, bambina, aveva recuperato il foglio stropicciato nel bidone. Lo aveva piegato con cura e nascosto nella sua scatola dei segreti.
“Pensi che sia una buona idea?” chiese Emma.
“Quale?”
“Questa serata. Andare all’appuntamento con quel tipo. Uno sconosciuto.”
“Sì! Un’ottima idea, direi. E so a chi stai pensando: Patrick. È FINITA. Ti ha mollata per una cadetta di polizia che sembra più un uomo che una donna. Io penso, anzi, che sia davvero un uomo.”
Patrick Vinet era l’ex ragazzo di Emma. Informatico di professione, viveva ancora con sua madre. Dopo alcuni anni che si frequentavano lei era pronta per la convivenza, lui no: a casa di sua madre stava da dio. Veniva servito e riverito come un re e non voleva rinunciarvi. La lasciò per un’altra.
“Devi proprio ricordarmi cosa mi ha fatto ogni volta?”
“Non ho altra scelta, continui a pensare a lui. Ti farà bene vedere gente nuova. Divertirti, ridere. Che ne dici di una piccola avventura di una notte?”
“E se fosse un serial killer?”
“Morire tra le braccia di un dio greco non è poi così male come fine…”
Charlotte scoppiò a ridere, mentre Emma abbozzò un sorriso. Prese la borsa che si trovava sul comodino e precedette Charlotte fuori dalla camera nello strettissimo corridoio, andando verso l’ascensore. Era felice di avere ottenuto quel nuovo contratto per la rivista e di passare del tempo con la sua amica, seppure in un contesto professionale. Non avevano avuto occasione di vedersi spesso nelle ultime settimane. Charlotte aveva un programma piuttosto fitto, mentre quello di Emma era più flessibile. Lavorava in proprio nel suo piccolo appartamento o nella caffetteria al piano di sotto, a seconda dell’umore del giorno.
Frequentava poche persone da quando aveva rotto con Patrick. La sua cerchia di amici non era molto numerosa, ma aveva ancora alcuni compagni d’università con cui poteva uscire di tanto in tanto per svagarsi e vedere qualcosa di diverso dal suo salotto.
Charlotte spinse il pulsante dell’ascensore per il piano terra. La porta si aprì quasi all’istante. Le due ragazze fecero un sorriso educato all’uomo e alla donna che erano già all’interno.
“Non ti sembra una cosa… senza speranza?” sussurrò Emma.
“No! Ti ha invitata lui. Stiamo rispondendo al suo invito. Smettila di dubitare, sei snervante”, rispose Charlotte, mettendosi una ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio.
L’uomo si voltò verso di loro e fece un gran sorriso, rivelando una fila di denti bianchi e dritti. Emma ne fu divertita perché le ricordò la pubblicità di un dentifricio che aveva visto in televisione il giorno prima.
“Siete del Quebec?” disse, spazzando via una polvere invisibile dal suo impeccabile abito nero, in un francese quasi senza accento.
“Sì”, risposero le due donne in coro.
“È piuttosto raro sentire parlare in francese qui, ma vi dico che è una bella sensazione. Gabriel Jones. Vivo a Montreal”, disse presentandosi.
“Com’è piccolo il mondo!” rispose Charlotte, analizzando l’uomo dalla testa ai piedi.
“Anche noi viviamo a Montreal, che coincidenza!” aggiunse Emma sorridendo timidamente.
“Un saggio ha detto che non ci sono coincidenze, solo appuntamenti”, rispose l’individuo, ammiccando con complicità alla giovane donna.
Emma osservò l’uomo e lo trovò, a prima vista, molto attraente. Non avrebbe potuto confrontarlo con Ian, perché erano due tipi completamente diversi. Gabriel doveva essere alto circa un metro e ottanta. Aveva gli occhi azzurri e dimostrava una particolare vivacità. Il suo lungo naso presentava una leggera curva. Immaginò che l’avesse rotto durante una partita di hockey. Il sorriso era franco e sembrava sincero. Era ben rasato con i capelli, neri e ondulati, leggermente in disordine. Appariva molto allegro e simpatico. Era evidente che aveva l’abitudine di parlare con gli sconosciuti e socializzare. Ebbero solo il tempo di presentarsi prima che l’ascensore si fermasse al quarto piano e l’uomo si dirigesse verso l’uscita.
“Ci incontreremo di nuovo sicuramente. Vi auguro una bella serata, signore!” disse prima che la porta si chiudesse di fronte a lui.
“Cosa?” mormorò Charlotte, leggendo lo sguardo espressivo che la sua amica le lanciava.
“Era davvero… wow!”
“Sì, ma sembra troppo serio”.