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VI

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Nello fu ricondotto nel carcere, molto abbattuto, affranto.

Le lunghe ore della udienza, il tormento degli interrogatorii, gli urli e le minaccie del Fisco, i rabbuffi del presidente, le grandi parole commoventi dell’avvocato, i mormorii del pubblico lo avevano stancato, confuso, stordito.

Appena entrato nella prigione, sedette, poi si accasciò come una massa inerte sull’intavolato, che gli serviva di letto, e, senza prender cibo, si addormentò.

Più volte i carcerieri lo udirono la notte urlare, schiamazzare nel sonno.

Lo stolido farneticava, rivedeva le immagini guaste e corrotte dei fatti, che tutta la giornata aveva udito ripetere, raccontare distesamente: un uomo ferito, morente, e poi sangue, pugnale, birri, persecuzioni, giudici, patibolo, altri terribili fantasmi.

La discussione fra gli auditori di Rota per compilare la sentenza fu lunga e tempestosa.

Le varie opinioni furono ventilate con passione; più che con zelo, con acrimonia.

Come già sa il lettore, gli auditori erano sei, il loro modo di giudicare severo, truce, inflessibile, peggio che inesorabile.

«Terminata la sessione, – scrive Agostino Ademollo() – i giudici si ritiravano in segreto e quindi davano la sentenza a pluralità di voti, determinati non già dalla morale convinzione, ma dalla prova o, convinzione legale, resultante dalle carte processuali, il che spesso situava il giudice nella inumana posizione di condannare un inquisito contro di cui concorreva la prova legale, sebbene l’animo suo non fosse convinto della di lui reità…

«Dalla sentenza non si dava appello, nè cassazione. Soltanto si accordava al condannato la facoltà di esperimentare la revisione del giudicato, o la grazia del principe per mezzo di supplica da inviarsi per il canale della Regia Consulta.

«Così finiva il giudizio criminale prima del 1838.

«Il processo inquisitorio, fin qui praticato, aveva questo gravissimo difetto e questa fatale conseguenza che, appena avvenuta la trasmissione della speciale inquisizione, essa nuoceva grandemente alla fama e al benessere del cittadino. Egli veniva generosamente ritenuto per delinquente, veniva sospeso da ogni pubblica carica; veniva cassato dai ruoli delle milizie se militare; veniva privato del consorzio degli onesti cittadini; e difficilmente si lavava la macchia dell’inquisizione, nonostante che con la difesa avesse provato la sua innocenza, non ostante che la sentenza la proclamasse.»

Il lettore attento faccia su questi rapidi cenni le sue meditazioni, chè gli gioveranno.

Noi torniamo alla Camera di Consiglio ove erano riuniti i sei auditori.

Il presidente sedeva ad una gran tavola, che era quasi nel mezzo della stanza. Accanto al presidente, quasi incollata alla sua poltrona, era la sedia su cui appoggiava il gramo dorso l’auditorino Lechini.

Dirimpetto al presidente, torbido, minaccioso, rannuvolato, con un cipiglio da augurarne ogni sinistro, sedeva il Relatore della causa, auditore Pantellini.

L’auditore Biscotti era a destra del Relatore.

Questo Giudice era un fanatico studioso dei Testi di lingua: spesso costringeva i suoi colleghi a sospendere la compilazione di una sentenza per i motivi che diremo.

Si trattava, poniamo, di mandare un disgraziato per quindici, venti anni, per tutta la vita, in galera.

L’estensore della sentenza, rigido, raccolto, dettava il racconto delle circostanze, che avevano potuto servire ad aggravare, o render migliori le condizioni dell’inquisito.

Si scrivevano allora lunghe, interminabili sentenze, i cui attesochè si prolungavano per quaranta e cinquanta pagine.

D’un tratto si udivano un grido, un’escandescenza, il rumore di una sedia, che si moveva. L’auditore Biscotti si alzava, tutto irritato, rosso in volto, solenne.

– Che cosa c’è, signor auditore! – domandava il presidente.

– Se io debbo firmare la sentenza non ammetto che si metta il participio concernente con il dativo…

– Signor auditore!…

– Non son disposto a transigere, signor presidente. La proprietà dei vocaboli è cosa sempre necessaria, necessarissima in una sentenza. Abbiamo l’obbligo di mostrar prima di tutto che sappiamo far giustizia alle parole, esser giusti nella espressione. Bisogna dire «concernente il delitto:» «concernente al delitto» è un solecismo. So bene che il poeta mugellese ha scritto nel suo Torracchione:

Fè quel tanto ordinare e porre in punto,

Che ad opra così pia fu concernente.

Però l’esempio è del seicento: c’è anche un altro esempio nel Segneri, ma questi autori bisogna citarli con cautela…

– Andiamo!… Basta!… Sempre tali questioni! – ripetevano gli auditori in coro.

Però erano sempre costretti a modificare la frase.

L’auditore Biscotti non si impauriva.

Alla prima occasione, egli tornava ad interrompere, ad esigere il cambiamento dell’espressione difettuosa.

Se il presidente talvolta gli rispondeva con una certa severità, e dichiarava assolutamente con la sua autorità che una parola era propria, che la discussione doveva troncarsi, il giorno dopo l’auditore arrivava in Camera di Consiglio col suo bravo volume del Vocabolario della Crusca, con un’osservazione di Basilio Puoti, con la Grammatica del Corticelli.

Bisognava, o dargli la sua parola, o… la vita!

A sinistra dell’auditore Pantellini, relatore, sedeva l’auditore Comettini, che tutte le sere andava a giuocare a calabresella, o a picchetto, col vicario dell’arcivescovo, e in Camera di Consiglio meditava, preparava i suoi più bei colpi.

Il sesto auditore, Dario Salti, vedovo, aveva per casa una grossa, ossuta fantesca, che lo dominava, lo raggirava, gl’incuteva un inesplicabile terrore, co’ suoi modi pazzeschi e indiavolati.

L’arcigna creatura aveva un odio furibondo contro i libri. Non voleva che l’auditore ne comprasse, nè gli aveva mai permesso di metter su, in casa, uno scaffale.

L’auditore, per studiare, per consultare un volume, andava qua e là, or con un pretesto, or con l’altro, nelle case de’ suoi colleghi.

Le stanze della Rota erano per lui il Paradiso. Non avrebbe mai voluto uscire dalla Camera di Consiglio: vi si trovava più contento che in casa sua.

Quando una sessione, una discussione era finita, mentre i suoi colleghi si alzavano in fretta, e apparivano sodisfatti di andarsene, egli diventava cupo, attristato; l’idea di dover tornare a casa, delle accoglienze, che gli avrebbe fatto la rozza e irosa Megera, il suo carnefice in gonnella di rigatino, lo atterriva.

Era lungo lungo, secco, calvo, con un naso sperticato, di larghe narici. Aveva circa sessant’anni.

Il presidente quella mattina, appena entrato, fece con gli auditori la sua solita conversazione.

– Avevano letto la poesia a Santa Cecilia del canonico Trenti?… Un nuovo Metastasio!… Si preparava alla Pergola un bello spettacolo… Era arrivata a Firenze Miss Zigstown… È dovuta venir via da Londra, dicono, perchè una sera un grande personaggio della Corte è stato sorpreso nel corridoio, che metteva alla cappella del palazzo dove la Miss, che è cattolica, si trovava… a pregare. Un altro magistrato, mio amico, mi scrive da Lucca che la marchesa Flabelli è fuggita col tenore Ottavini…

– Sempre bene informato il nostro presidente! – diceva in atto estatico l’auditore Lechini.

– Ora dunque passiamo agli affari! – osservò il presidente, interrompendo ad un certo punto la conversazione.

Era tornato molto serio. Si preparava a ribattere con la sua coscienza, con la finezza e il vigore del suo ragionamento le obiezioni, che prevedeva gli sarebbero mosse dall’auditore Pantellini. La lotta doveva essere combattuta fra que’ due magistrati, d’indole così diversa, sempre avversarii, l’uno, il Pantellini, geloso e rabbiosamente invidioso dell’altro, ma tutti e due le migliori teste, che avesse quel Turno della Rota. Secondo che l’uno o l’altro prevalesse nella discussione, era certo avrebbe avuto con sè il maggior numero de’ colleghi, salvo il Lechini, che dava sempre il suo voto conforme a quello del presidente, l’auditore Comettini, che votava sempre con l’auditore Pantellini suo pigionale.

L’auditore Pantellini fece un gesto brusco, come se avesse voluto dire: – Era tempo!

– Come sanno, – ripigliava il presidente, – dobbiamo occuparci della causa pel latrocinio commesso nel Vicolo della Luna. La Rota deve giudicare dei punti seguenti:

«È provato, in genere, il fatto che il signor Roberto Gandi pittore, come risulta dal libello fiscale, fosse proditoriamente assalito la sera del 14 gennaio nel Vicolo della Luna, che fosse ferito, e in conseguenza della ferita riportata alla testa, sia da varii mesi obbligato a guardare il letto…

– Costrutto francese! costrutto francese! – brontolò l’auditore Biscotti.

– A stare a letto, dunque, signor auditore, si calmi!… È provato che la ferita abbia messo in grave pericolo la vita del signor Gandi?

«È provato, in specie, che colui che produsse la ferita fu l’inquisito Nello Bartelloni?

«È provato che lo facesse a scopo di furto e con premeditazione?

«È provato che l’inquisito fosse in stato mentale, come ha dedotto la difesa, tale da escludere, o diminuire la sua imputabilità?»

– Ah se mi fosse toccato ieri sera l’asso di cuori! – pensava tra sè l’auditore Cometti!

– Questa causa è grave, molto grave, secondo me – riprese il presidente – Non so quali sieno i pareri degli egregî auditori, ma quanto a me dichiaro che il libello fiscale non mi ha lasciato molto persuaso.

– Come? Come? – domandò subito esasperato l’auditore Pantellini – lei può dubitare della reità dell’inquisito?

– Sì, signor auditore, io ne dubito…

– Ed io pure e da un pezzo! – interruppe l’auditore Lechini.

– Mi sembra che anche scartando.... molte prove – soggiunse l’auditore Comettini, che aveva sempre per la mente un resto di partita a calabresella – ci rimangano pur sempre prove irrefragabili....

– Se ci rimangono!… Ma dica che a ogni parola del processo si moltiplicano! – replicava ingrugnito il relatore.

– Prove… prove: è presto detto. Ma scrutiamole un poco, ventiliamole queste prove… Non si accorgono, lor signori, quanto appunto ci sia deficienza di prove assolute sulla origine del delitto?… Ecco, io apro il processo a pag. 26. Leggo la querela, in atti, dello Scrivano della Piazza. Stiano bene attenti! in questo documento è dichiarato che le prime traccie del sangue furon trovate nel Vicolo dinanzi alla porta della stanza segnata col num. 5.

– È chiaro – continuò il presidente – che l’assassinato ha ricevuto davanti a questa porta la ferita, l’ha ricevuta, cioè, dopo aver fatto alcuni passi nel Vicolo. È spiegato, è provato bene come il signor Gandi abbia potuto essere indotto a inoltrarsi a tale ora, in tal luogo? Per ricevere la ferita alla testa da un giovane di piccola statura come l’inquisito, è evidente che egli ha dovuto chinarsi, prestarsi all’aggressione… In che modo?… Il pugnale, che ha prodotto la ferita è stato brandito da mano robusta… Ora l’inquisito ha appena la forza di un fanciullo. Avranno osservato, durante l’udienza, che il suo braccio trema con una specie di movimento paralitico…

– Solite simulazioni di questi furfanti! – interruppe l’auditore Pantellini.

– Per ammettere che tutto ciò che ha fatto, o detto l’inquisito sia una simulazione, bisognerebbe ammettere che egli sia dotato di una intelligenza veramente straordinaria… Egli non si è smentito un momento… Per varii mesi è stato sempre eguale a sè stesso, non si è tradito un solo istante.... Dove ha attinto questa forza d’intelletto, questa sagacità un giovinastro, che sino a che non è stato arrestato, fu sempre creduto uno stolido, un imbecille?… Ci sono certi ragguagli insignificanti, in apparenza, ma de’ quali noi, cui è affidato un sì prezioso tesoro, l’onore, la tranquillità, la felicità talvolta dei nostri simili, siamo obbligati a tener conto. Non vi è nulla anzi di piccolo, d’insignificante per la giustizia.

– Il signor Presidente è stato convertito dal canto di sirena dell’avvocato Arzellini! – osservò con piglio ironico, il relatore della causa.

– No, caro auditore, io non mi lascio convertire, ma neppure mi ostino contro le evidenze, che mi porgono la scienza e la ricerca della verità. Mi ascolti. Abbiamo un ragguaglio, che ricorre più volte nel processo. L’inquisito la sera in cui fu commesso il delitto, è stato udito cantare. Ha cantato spesso, nel carcere: talora, lasciando il cibo e interrompendo di parlare con coloro che l’interrogavano… ha cantato all’udienza. Queste vociferazioni sono considerate come un espediente, di cui l’inquisito si serve a sviare l’accusa. Però si dice che egli è rimasto colto nella propria rete: volendo ingannare, ha rivelato invece la propria malizia perchè la sera del 14 gennaio egli cantava, ripetendo con precisione l’aria eseguita dal testimone Pardili sul violino; all’udienza cantava un’aria, che si è verificato esser quella eseguita, sull’organetto, da uno zingaro che passava per la strada in quel momento. Dunque, si conclude, egli non è stolido, non è idiota, è intelligente.

– Sicuro! sicuro! – bofonchiava l’auditore Pantellini.

– Ma, no, signor auditore! Posso mostrarle libri di scienziati, provarle con casi antichi e recenti che ci sono veri e propri idioti, i quali hanno speciali attitudini per la musica, si commovono, si esaltano all’udire melodie, le ritengono con estrema facilità, le ripetono con orecchio sì fine da disgradarne certi artisti dei teatri minori. Alcuni arrivano a suonare e ad inventare delle arie.... Questo delinquente, che cantava con premeditazione al momento di commettere il delitto, e ha cantato all’udienza, è troppo abile e troppo incauto al tempo stesso; per credere alla sua prodigiosa penetrazione, alla sua acutezza, ci vuole, mi lascin pur dire, uno sforzo maggiore che per credere alla sua innocenza, alla sua irresponsabilità.

Le sottili osservazioni del valoroso magistrato andavano perdute.

Gli auditori, Pantellini, Comettini e Salti non dissimulavano più i gesti della loro impazienza.

Il presidente non li vedeva. Egli era tutto assorto nella sua teoria.

– Le perizie estragiudiciali sono dovute ad uno scienziato eminente, ad uno di quegli osservatori perspicaci, che hanno studiato i fenomeni morali con una pazienza sublime. Ciò che si dice sulle condizioni mentali dell’inquisito, confesso, che mi ha colpito… Egli ha apparenza in certi istanti di uomo ragionevole, ma l’esistenza in certi infermi della mente di una facoltà qualunque, di una attitudine speciale, superiore, se vuolsi, non solo alle altre, ma eziandio a quelle degli uomini psichicamente sani, pone spesso in inganno gli osservatori superficiali… Io sento che abbiamo dinanzi un tipo degenerato: un eccentrico piuttosto che un delinquente.

– Ah, ma queste, scusi, sono utopie! – disse con la sua voce stridula il Pantellini.

– Ed io l’assicuro, signor auditore – ribattè il presidente – che la mia coscienza è molto titubante, e molto agitata. Io sono turbato da un’idea che mi è tornata spesso alla mente durante il processo, che cioè l’origine del delitto commesso la sera del 14 gennaio è sempre un mistero per la giustizia: che esso ci sfugge nel suo complesso: che non ne abbiamo in poter nostro che una parte accidentale. Una voce, che non posso far tacere, la voce della mia coscienza, mi grida che il sangue, di cui fu trovato cosparso l’inquisito, non è stato versato da lui. Egli è la vittima di un delinquente accorto quanto feroce. Nella debolezza del suo intelletto, invece di difendersi, egli si accusa, corre da sè incontro al precipizio.

Il magistrato, con la sua esperienza, con la sua squisita sensibilità, con la sua profonda intelligenza, vedeva, in quel momento d’immensa lucidità, la vera condizione del fatto luttuoso di cui la Rota doveva giudicare.

La sua mirabile intuizione parve a un tratto dissipare le oscurità del processo.

Nessuno fino allora aveva scrutato con tanta chiaroveggenza nell’intricatissimo e tenebroso affare.

Svolse più ampiamente le circostanze di fatto, le prove, le risultanze del processo, e finì esclamando:

– Riflettiamo; ponderiamo bene, o signori, prima di condannare un innocente!

I quattro auditori, che sedevano dall’altro lato della tavola, presero tutti insieme la parola.

– Lascino parlar me! – disse il relatore della causa, – poi ciascuno di loro farà le sue osservazioni.... Il ragionamento del dotto nostro presidente – si capiva che quell’aggettivo aveva scottato le labbra dell’auditore Pantellini – è ingegnoso, sottile, ma non distrugge le prove materiali, che ci sono contro l’inquisito. Alle teorie sullo stato mentale dell’inquisito io sono incredulo.... peggio che incredulo! – dichiarò con crudezza l’auditore, – per me sono ammennicoli.... Li detesto come argomenti di difesa, ma in qual via c’inoltreremo, se noi magistrati li raccogliamo e cominciamo a ripeterli in Camera di Consiglio?

Il presidente fece un lieve movimento d’impazienza, ma uomo di tatto squisito, di educazione eletta, si rattenne.

– Lei auditore, – rispose con calma il presidente, gingillandosi con la catena dell’orologio, e mezzo rovesciato sulla spalliera della poltrona, – insiste tanto sulle prove materiali, mentre fa assoluta astrazione dall’origine, dalla sostanza del delitto…

Il più grande scoglio, – aggiunse il presidente – quando si tratta di scoprire un delitto misterioso, è un errore sul movente di esso… Se le prime ricerche prendono una falsa direzione, più uno si avventura in queste, più si allontana dal vero… Mi pare, scusi, che Lei segua un poco la strada che pur troppo è stata tenuta dagli attuarii nel formare il processo. Essi hanno dimenticato l’assioma: prius de re quam de reo inquirendum! Quanti innocenti, in casi consimili, sarebbero stati condannati, se il magistrato non si fosse elevato a considerazioni, che sono imprescindibili nel nostro ufficio, e si fosse fermato ai soli indizii, per quanto gravi?… Tutti loro conoscono ciò che ha detto uno dei nostri più grandi dottori sulla importanza delle prove congetturali: «Etiam si mille conjecturas Fiscus cumularet, tamen illae nihil prorsus efficerent non data… ascoltino bene… non data… probatione præcedenti in qua præsumptiones et adminicula fundari possint!....

– Bella dottrina! – interruppe con certo sdegno l’auditore Pantellini. – Dottrina da avvocato! E in fatti è roba del Farinaccio… Le prove necessarie alla convinzione legale abbondano negli atti del processo, per me ce n’è anche troppe. E la Rota.... mi par superfluo ricordarlo… deve giudicare secondo la convinzione legale, non già ingolfarsi in ipotesi scientifiche, morali…

Il presidente combattè anche questa obiezione.

La discussione divenne sempre più irritante.

– Va bene, – disse alla fine il presidente. – Veniamo ai voti. -

Succedette allora un grande silenzio.

Que’ giudici, tutti noti per la loro severità, alcuni proverbiali per il carattere bisbetico, per una certa ferocia nel condannare, vero spavento dei delinquenti e disperazione dei difensori, che sapevano bene come erano composti i turni; que’ giudici, gelosi della loro indipendenza, rigidissimi, alieni dalle facili indulgenze, si preparavano a dir alto la loro opinione.

– Al voto! al voto! – mormorava, tutto rubicondo l’auditore Pantellini girando attorno gli occhi, che dardeggiavano sotto le folte sopracciglia grigie.

Gli pareva di esser certo di aver guadagnato il Collegio, di averli tirati quasi tutti dalla sua.

Sul primo quesito in genere non ci furono negative.

Naturalmente nessuno degli auditori poteva pensare a negare che il pittore Gandi fosse stato ferito.

Al presidente tremava la voce, formulando il quesito in specie:

«È provato, che colui che produsse la ferita fu l’inquisito Nello Bartelloni?

Il magistrato era divenuto pallido.

Egli si trovava in una grande angoscia.

Il processo Bartelloni

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