Читать книгу La principessa romanzo - Jarro - Страница 5
PARTE PRIMA
IV
ОглавлениеIl giorno appresso continuarono le feste nel parco del duca.
Enrica, mentre la mattina era nella serra, avea ricevuto una lettera, gettata nel grembo di lei da un fanciullo, che s’era poi dato a correre come un capriolo.
Sulle prime Enrica fu tentata di buttar via quella lettera senza aprirla: ma un forte presentimento la vinse.
La lettera era di Roberto Jannacone; egli le annunziava il suo ritorno; le dava convegno nel luogo più inaccesso del parco.
In quel luogo eravi un altissimo precipizio formato da due pareti rocciose, o in fondo di esse gorgogliava il mare.
Era stato gettato un ponte da una parete all’altra; un piccolo ponte di ferro leggero con bassa spalliera.
Molti e molti, a non dir presso che tutti, aveano paura di passar da quel ponte e preferivano di pigliar i viottoli più lunghi per arrivar dove voleano, anzi che andar da un luogo sul quale v’erano tante superstizioni.
Come luogo di convegno era scelto benissimo; nessuno avrebbe disturbato i due nel loro colloquio.
A Enrica, nel legger quella lettera, che conteneva espressioni di tanto amore, ed era nel tempo stesso sì imperiosa, avvampò il volto di sdegno.
Costui la credea proprio cosa sua; non nutriva ormai il menomo dubbio su’ suoi diritti.
Ciò irritava la superbia di lei.
Parlò con Cristina e deliberò di andare al convegno; risoluta a ingannarlo, a perderlo, se occorresse, a far tutto, pur ch’egli rinunziasse a lei. L’altro vi si recava invece con l’animo che, magari il mondo dovesse perire, egli non avrebbe rinunziato ad essa.
Mentre le feste continuavano nel parco, Enrica e Roberto si trovarono presso il ponte, che era chiamato dell’Inferno: attorno a loro erano boschetti di alberi.
Si rivedevano dopo molti mesi.
Roberto era cresciuto di forza e di bellezza: aveva acquistato una certa eleganza.
Appena scorse Enrica, le mosse incontro tutto baldanzoso e soddisfatto.
Ma fu sorpreso di trovar Enrica in tale stato di abbattimento, d’aspetto sì cagionevole: sì fredda e altera.
Le parole d’entusiasmo gli si gelarono sul labbro,
Enrica si reggeva appena in piedi.
Senza quel convegno, ella si sarebbe già coricata.
– È questa l’accoglienza che mi fai, – disse il figlio di Cicillo Jannacone, – dopo una separazione sì lunga.... Non ti ricordi ciò che mi dicesti nel momento della mia partenza?…
– Mi resta poco da vivere, Roberto, – incominciò, dissimulando, Enrica. – Io non posso più esser la moglie d’alcuno: sono gravemente ammalata. Mi ami tu?
– E me lo domandi? non v’è amore più forte. più tenero, più appassionato del mio. In tutti questi mesi non ho cessato di pensare a te un solo istante: il mio cuore ha sempre palpitato a’ ricordi della nostra affezione.
– E bene: io ti domando una gran prova di amore.
– E io sarò felice di dartela, io che non voglio ormai più separarmi da te, o che spero ottenere tu mi segua ne’ miei viaggi.... Fra poco io sarò ricco, già sono stimato, e ho un grado di cui ognuno può tenersi onorato.... Non sono più soltanto il misero figliuolo d’un contadino del duca.... Ma hai parlato al duca, a tuo padre, del nostro matrimonio?
Enrica si mordeva le labbra.
– Ho detto che aspetto da te una gran prova d’amore.
– Potevi rispondermi se hai parlato al duca del nostro matrimonio.... Tu comprendi la mia impazienza.... Quanto a darti prove d’amore, allorchè tu sii mia moglie in faccia al mondo, tu sai già non ve n’ha alcuna che mi potesse sembrar troppo grande.... Hai parlato, dunque, a tuo padre?
– Mio padre è tornato soltanto ieri....
– E tu avresti già dovuto parlargliene.
Enrica tremava, non sappiamo se di rabbia, di commozione, di sofferenza.
– Stanotte io ero entrato nel parco per l’impazienza di riveder questi luoghi, di farmi udire da te, di mostrarti ch’io non poteva occuparmi, se non di te.... Ho corso rischio di essere ucciso come un ladro… e tu sei così indifferente.... Ma non hai coraggio di parlare a tuo padre? Gli parlerò io stesso....
– Oh, impossibile! – esclamò Enrica inorridita. – Vi sarebbe fra te e lui una scena tremenda: come potrebbe egli perdonare a te suo servitore.... – Enrica fece spiccare la parola, – -di aver abusato d’ogni sua generosità verso la tua famiglia, di aver osato ciò che hai osato?..
Roberto si sentiva, come schiaffeggiato da quelle parole.
Ma era anch’egli d’animo altero.
– Bisognava pensarci prima! – rispose risoluto. – Che tu non credessi io fossi uno di questi vagheggini imbecilli, che voialtre donne del bel mondo burlate a piacer vostro e cuoprite di ridicolo.... Enrica, io sono pronto a dare per te tutto il mio sangue, a goccia a goccia; sono pronto, se occorre, a seppellirmi vivo, a entrare in una tomba con te, per sfuggire ogni contrarietà… ma cederti ad altri, rinunziare al mio diritto… mai. Sai ch’io t’ho conquistata.... Tu mi costi umiliazioni, oltraggi, ingiurie d’ogni maniera, prima del nostro amore; dopo, ansie crudeli, notti insonni, il sacrificio di tutto me stesso a un solo scopo.... Tu sei la mia idea fissa… sei la sola cosa che desidero, che amo, che voglio possedere; ogni ostacolo che mi si opponga, se non potrò sormontarlo, lo spezzerò....
La sua veemenza faceva paura.
Protese un braccio per stringer la vita di Enrica....
Essa schivò quella carezza.
– Non ti riconosco! – mormorò Roberto pallidissimo. – A bordo, nelle mie notti insonni, vedevo spesso uno spettro, un cadavere, con una gran ferita, tutto sangue… Enrica, – disse Roberto angosciato e come fuori di sè, – tu vuoi la mia rovina: sento che qualche cosa di terribile si prepara.
Enrica provava un’interna soddisfazione di quelle parole; sembrava che esse corrispondessero a certi suoi perfidi disegni.
– No; essa riprese, simulando molta mansuetudine, – non bisogna andar a questi eccessi. Dobbiamo ragionar più freddamente. Che amore è il tuo, se non può sopportar un piccolo indugio? Parlando a mio padre, in momento inopportuno, io posso guastar tutto e in modo irrimediabile.... Che ne parli tu, non v’è, ripeto, neppur da pensarci. Egli potrebbe chiuder me in un convento: e chi sa in qual parte d’Europa seppellirmi per tutta la mia vita, chi sa dove, senza che tu sapessi più nulla di me: e contro di te che non potrebbe fare? Il duca non ti concederebbe mai l’onore di un duello: ti vorrebbe trattar di certo come un malfattore… e, se ben pensi, la tua condotta giustificherebbe… forse… a sua severità.
Roberto sentiva la febbre: le tempie gli martellavano: il sangue gli bolliva come lava nelle vene.
Pure egli ebbe ancora la forza di contenersi.
– Enrica, – disse, rattenendo la sua indignazione, – io ti trovo molto cambiata.... Io mi aspettavo un’accoglienza entusiastica, da innamorati: io avevo avuto la debolezza – la parola gli sfuggì – di credere alle tue promesse: ora mi vedo dinanzi una donna che pare si vergogni di me, arrossisca della nostra passione, abbia distrutto nel cuor suo le memorie del nostro amore....
– T’inganni, – riprese la giovane. – Già vedi come io soffro: e tu con queste violenze accresci il mio martirio.
– Violenze? – interruppe Roberto, che credeva esser riuscito, con sforzo sovrumano, a serbare la calma. – No, io non sono violento: no, io sono innamorato, appassionato, io ti adoro sino alla frenesia: io non posso più separarmi, più staccarmi da te: io debbo passar tutta tutta la mia vita a’ tuoi piedi, obbedendoti come uno schiavo, indovinando ogni tuo cenno, ogni tuo desiderio, ogni tuo ordine; io posso, se vuoi, inalzarmi nell’onore, ne’ gradi, migliorarmi con lo studio: sento che avrò la volontà, la forza, per piacer a te, di giungere molto in alto: ma se tu credi altrimenti, se la mia vita dev’esser tutta assorta in un amore sensuale, in un amore di fuoco per te, se io debbo essere il docile strumento d’ogni tuo capriccio, il tuo ludibrio; il trastullo d’ogni tua fantasia, io son pronto anche a questa esistenza, che ad altri potrà parer vile: io ti sacrificherò, se occorra, l’onore, la dignità: io lascerò si dicano di me i maggiori vilipendii: che tu mi hai comprato, che mi satolli come una bestia che ti dà piacere: tutto sopporterò: rinunzierò a’ beni maggiori, all’amicizia, alla stima: solo il mio istinto, il mio cuore, i miei sensi, non consentiranno mai… ch’io ti ceda ad altri, che mi separi da te… No, no! Maledizione! guai a chi s’interponesse fra noi!
E Roberto singhiozzava come un fanciullo.
Avrebbe destato commozione in chiunque veder piangere in tal modo quell’uomo sì forte, sì prestante, sì altero.
Enrica stropicciava le foglie rosee, che cadevano da’ fiori di un albero sul suo abito bianco.
Essa le distruggeva indifferente, come distruggeva le rosee illusioni di Roberto.
– Ritorno – continuava Roberto – dopo un lungo viaggio: cerco parlarti: tu ti presenti come una padrona, come una signora dinanzi al suo servo, non come una sposa innanzi all’uomo che ha davanti a Dio su di lei il massimo tra i diritti.... Poichè il padrone qui sono io! – disse Roberto in uno de’ suoi impeti selvaggi, – e accerchiandole il collo, la accostò a sè, con una stretta di ferro, di quelle che Enrica già conosceva, e la baciò lungamente, da vero padrone di lei, sulle labbra.
Essa tremava: era divenuta in volto bianca come il suo abito: quel bacio di fuoco l’avea subito richiamata ad altre sensazioni e altre idee: ma incontanente il suo orgoglio le attuti.
– Dianzi ho cercato abbracciarti… – insisteva Roberto, -, e tu mi hai sfuggito, e vuoi ch’io sia calmo!
La scena andava troppo in lungo.
Enrica cominciava ad esser inquieta: non sapea più come tener a bada quell’innamorato sì pieno di foga.
Giungevano fino a loro i suoni e le grida di coloro che pigliavan parte alla festa nel parco: ma verso quel punto, com’abbiamo detto, nessuno mai si avvicinava.
A’ loro piedi s’inabissava il precipizio, mugghiava il mare.
Enrica avea preparato un tranello, degno del suo animo raffinatamente perverso, e ora trepidava un poco sulla riuscita di esso.
Ella avea detto, con diabolica perfidia, al suo corteggiatore, il conte di Squirace, che, a una cert’ora, ella sarebbe stata presso il ponte che traversava il precipizio.
– Oh! – avea esclamato il bellimbusto, e avea fatto intendere che ve l’avrebbe presto raggiunta.
Il vanaglorioso credeva ad un convegno d’amore. Enrica gli aveva insinuato:
– Se, per caso, io parlassi con altra persona, non vi mostrate: nascondetevi in uno de’ boschetti: però, se vi accorgeste che io avessi bisogno di aiuto, accorrete a difendermi....
Vedrà il lettore qual era il terribile disegno di Enrica e di quali risoluzioni ella avesse l’animo capace.
In fatti, il conte si avvicinava, tutto baldanzoso: uno scudiscio in mano: una gardenia all’occhiello.
Udì la voce di Roberto, e si nascose, com’Enrica gli aveva indicato.
Roberto si era inginocchiato dinanzi alla giovane e le diceva:
– Un’altra cosa mi ha colpito: il trovarti così accasciata, così disfatta. Qual è il motivo?… Che cosa ha logorato una parte della tua floridezza?
Enrica mostrava che quelle osservazioni la annoiassero.
– Ma tu sei sempre bella, anche così, – aggiunse l’innamorato, che l’attirava a sè, le premea la vita, i ginocchi: e lo invadeva un fremito al sentire, sotto l’abito leggerissimo indossato da Enrica, non ostante il pallore e la stanchezza del volto, molto più della sua floridezza ch’egli non avrebbe pensato.
– Però vorrei sapere il motivo perchè sei sì affranta e sì debole… – continuava.
Enrica cercava allontanarlo da sè: e finalmente gli disse, tanto per guadagnar tempo, e perchè realmente ciò voleva, in estremo, alla disperata, se altro partito non riuscisse:
– Ecco qual è il mio pensiero. Tu devi ripartir subito… e per un lungo viaggio. Fa di star lontano ancora da questi luoghi tre, quattro anni, di crescere in grado, in fortuna.... Io aspetterò.... Lascia che si parli di te, di ciò che farai: mio padre ne avrà certo compiacenza. Egli, se può esser rigoroso, intrattabile su certi punti, è poi abituato a considerare tutti i suoi servitori come della sua famiglia… – aggiunse con qualche sprezzo. – E chi sa non perdoni, quando la sua collera abbia anni per raffreddarsi.
Non stiamo a dire se Roberto fosse turbato.
– Io sono già tua sposa dinanzi a Dio, – continuò la dissimulatrice, – lo sarò un giorno dinanzi a tutti.... In questi anni saprò trovar un momento propizio per parlar a mio padre; mi getterò a’ suoi piedi: gli racconterò ciò che fu: ch’io ti scelsi, non già che tu mi prendesti a forza....
– Basta, Enrica, – esclamò Roberto con voce concitata, vibrante di rabbia, di passione, di disgusto. – Ho tutto capito in un istante.... Tu sei una traditrice....
E i suoi occhi corruscavano: e le sue mani or si accostavan verso Enrica, or egli le ritraeva come inorridito.
– Tu vuoi perdermi: tu speri che in tre, quattro anni, io, che esco ora per miracolo da un naufragio, possa lasciar la vita.... Oh!…
E, scorgendo che Enrica non faceva alcun energico segno di diniego:
– Creatura perversa, – continuò, – sento che tu farai la rovina di me e de’ miei.... E l’ho più volte sentito nella mia solitudine.... Già, fin dal principio, fin da’ giorni delle nostre ebbrezze, la tua bellezza, la tua avidità del piacere, la crudeltà che avevi spiegato contro di me, mi facevan paura....
Avea i capelli irti, il sudore gli grondava dalla fronte, si muoveva com’un uomo che non sa più dominarsi.
– Senti, – disse, prendendo Enrica per le mani e costringendola ad alzarsi, – io potrei farti cadere in ginocchio: poichè tu sei qui davanti al tuo vero signore: all’uomo che ti ha posseduta e che ti vuole possedere per sempre.... Ciò è irrevocabile!… Non ho più la mia ragione: tu me l’hai tolta: sono in preda a una vertigine tremenda.... Nella mia famiglia abbiamo nelle vene le fiamme del vulcano: e, in questo punto, vedi, mi salgono al cervello.... Io ti faccio ormai due proposte: le uniche ch’io possa e voglia farti nell’estremo cui siamo giunti: o tu ti risolvi a partir subito con me… so una strada che ci menerà in un attimo fuori del parco… ti alzerò io sulle mie braccia sopra un muro… e fuggiremo senza che nessuno ci veda.... Usciremo dai possessi del duca: ti porterò subito palesemente a Napoli… come mia moglie… e vi saremo in poche ore. Tu entrerai in una casa, ove è preparata la camera nuziale.... E il duca verrà là, se vuole e se crede, a strapparti dalle mie braccia.... Vedremo!… Acconsenti?…
Enrica non avea più parole; cercava con occhi furenti l’aiuto, aspettato: dentro di sè scherniva quell’uomo forte, entusiasta, che pur, ella confidava, dovesse esser vittima degl’intrighi preparati da una debole donna. E Roberto lesse ne’ suoi sguardi quel furore e quella fredda malignità.
– Non acconsenti? – esclamò con voce cupa, e scuotendola con una stretta vigorosa. – E bene… ci getteremo tutt’e due in quell’abisso, – e la trascinava verso il ponte, – il mare c’inghiottirà: inghiottirà la mia immensa passione, la tua ferocia, il tuo tradimento.... Ti concedo soltanto due minuti di tempo per dir la tua scelta!… Creatura sleale.... Io ti punirò del male che avresti potuto fare a tanti....
– E chi vi dà questo diritto di punire? – gridò il conte di Squirace, facendosi innanzi, e agitando lo scudiscio che aveva in mano. – Con qual diritto avete osato alzar gli occhi sino alla duchessa, voi, il figlio d’un suo villano?… Ho tutto udito, Roberto Jannacone!
– Signor conte, voi arrivate in mal punto, – rispose Roberto concitatissimo. – Non curo le vostre ingiurie: sono quelle d’un uomo indegno di stima, d’un gentiluomo che si disonora, appiattandosi per ascoltare un colloquio. Vi disprezzo tanto che non saprei come addimostrarvelo.... Ma prendete un buon consiglio: tornate per la vostra strada....
– No, villano!… Io rimarrò qui per tutelare la purezza, l’onore, la vita della duchessa: per ricondurla a suo padre e salvarla dalle mani di un assassino....
– Signor conte, – ribattè Roberto, pestando un piede, – non abusate della mia pazienza! Essa non è molto grande!
– Venite con me, signorina, – aggiunse il conte di Squirace, porgendo il braccio ad Enrica, che subito vi si appoggiò. – E continuò:
– Io ardo di raccontare al duca, a tutti, le prodezze di questo ladro, che dopo aver tentato, costringendovi a un matrimonio infame, profittando della vostra inesperienza, impadronirsi d’una parte delle ricchezze del duca, ora vi minacciava di morte. Il villano non è agitato dal delirio di posseder voi; come tutti i pari suoi, cupidi, avari, insidiatori dell’altrui, egli mira al vostro scrigno.... Diciamo tutto al duca: e a voi, signorina, – esclamò il nobile rifinito, – offro io il mio nome per riparare un passato, in cui non avete nessuna colpa....
Roberto rivolgeva per la mente i pensieri più truci. Gli era sembrato a un tratto che lottava col conte di Squirace e che le sue mani erano lorde di sangue.
Enrica vedea ben avviati i suoi disegni: voleva spingere quella scena più oltre, inasprire il conflitto; e con arte infernale, soggiunse:
– No, signor conte, voi non direte nulla a mio padre… ve ne supplico… morirei di dolore e di vergogna....
– No: il duca, almeno, deve saper tutto: e insieme concerteremo il modo di schiacciare questo… rettile velenoso!
E, senza sapere ciò che faceva, il conte alzò il suo scudiscio su Roberto.
Il vaso, già pieno sino all’orlo, traboccava.
– Signor conte, – disse con voce rauca Roberto, – trovate modo di darmi una soddisfazione pronta, immediata anzi: domandatemi scusa del vostro affronto: umiliatevi dinanzi a me e a Enrica: placatemi, – seguitò con spaventosa freddezza, – io ho già la febbre d’avervi tra le mie mani.... Ho sete del vostro sangue....
– Sì, – interruppe pronta Enrica, – egli può parer vile d’aver sopportato da voi sin ora tanta insolenza! Roberto non può esser vile: nè forse potete, voi, gentiluomo di nascita, domandargli scusa.
– E che scusa, – rispose il conte, – che soddisfazione volete io conceda al figlio di Ciccillo, il quale ingannava mio padre, vendendogli, come buona, pessima biada per i nostri cavalli? Il duca penserà a esercitar giustizia su questo villano.... Con la sua influenza può farlo intisichire nel fondo di un carcere: può farlo ammazzare, come si ammazza una bestia nociva: e accomodar tutto senza che nessuno si disturbi.... È gente si vile che la loro carne val meno di quella d’un quadrupede.... Va’, canaglia, va’....
E alzò di nuovo il suo frustino.
Roberto si contorceva, si divincolava.
Allorchè il conte ebbe finito, fece un gesto per trascinar con sè Enrica. Ella dette a Roberto uno sguardo indescrivibile, uno sguardo esprimente voluttà, ferocia, provocazione: uno sguardo che diceva: – ti lasci annientare così, mi ti lasci rapire!
Poi essa si staccò dal conte, corse, con atto finto, a gettarsi al collo di Roberto: si strinse a lui sì forte che sentisse tutto il rigoglio di quelle forme, che egli, nella sua sensualità, adorava; gli si accostò alle labbra, spirandogli un alito di fuoco.
La trista sirena lo inebriava al delitto.
Enrica trovò modo di volgere un altro sguardo al conte di Squirace. Egli, già imbaldanzito, non avea bisogno di quell’eccitamento.
Si fece innanzi per togliere Enrica dalle braccia di Roberto: e di nuovo con male parole.
– Ah! – esclamò Roberto, che era fuori del senno e a cui Enrica avea abilmente eccitato i sensi e la mente. – Tu aggiungi ingiuria ad ingiuria: tu vuoi correre a far uno scandalo: tu vuoi rapirmi questa donna, che è mia… mia: ch’io ho posseduta e possederò: te lo dico col massimo orgoglio: tu non vuoi rispettare il mio uniforme, il mio grado: tu insisti nel chiamarmi villano: e bene abbiti il villano.... Io torno figlio di Ciccillo; poichè tu hai insultato anche mio padre, torno bifolco.... Eccomi a te....
E, gettato da sè l’uniforme, si slanciò sul conte. Egli si difendeva e, irritato, percosse con lo scudiscio Roberto nella faccia.
L’onta, il furore inferocirono il giovane sì gagliardo.
Il conte l’avea ferito in un occhio.
Si rotolarono per terra: Roberto, forte come un leone, premeva sempre sotto di sè il conte, che pur faceva sforzi grandissimi per liberarsi. Si rialzarono, si riazzuffarono: Roberto era ubriaco di rabbia: tutti e due inveleniti dall’odio; a poco a poco si accostarono al ponte: a un urto di Roberto il conte di Squirace cadeva nell’immenso precipizio, gettando un grido straziante: all’assassino! che risuonò in tutto il parco.
Enrica era scomparsa.
Ella avea attirato il conte in quell’insidia: si era servita di lui per eccitare Roberto: la vita di due uomini le sembrava ben poco per sbarazzarsi di un solo fra essi, per assicurare la libertà de’ suoi piaceri, il fasto, la pompa del suo avvenire.
Al grido del conte di Squirace, librato nello spazio, succedette un altro grido, proferito da Enrica, che ebbe pur la forza di urlare contro il suo antico amante, contro l’uomo cui era unita da un vincolo segreto: all’assassino, all’assassino!
Roberto era rimasto stordito per l’accaduto: egli avrebbe voluto gravemente offendere, castigare il conte: non pensava ad ucciderlo, almeno a quel modo: avrebbe voluto indurlo a un duello leale e lì, poichè era sicuro della vittoria, sbramarsi del suo sangue, di cui, come gli era uscito dal labbro, avea sete.
La gente incominciò ad accorrere da ogni banda. Un delitto, un delitto nel parco! – ripetevano tutti inorriditi.
Fu trovato presso il ponte Roberto, che rimetteva indosso il suo uniforme: fu trovato in terra il cappello del conte di Squirace; un cappello verdastro, facilmente riconoscibile, e che avea, nel di dentro, le cifre del frivolo e sfortunato gentiluomo.
Il duca era a capo della sua gente: e, accanto a lui, Emilio, la guardia del parco.
Al vedere l’uniforme, che Roberto avea indosso, il duca ed Emilie scambiarono uno sguardo.
– Che fate voi qui, Roberto? – disse il duca, severamente.
Roberto si confuse.
Avea il volto graffiato, le mani lacere in varii punti, i pantaloni tutti cosparsi di polvere, la cravatta stracciata.
– Roberto! – esclamavano molti e molte, – lui l’assassino!
– Voi siete entrato qui nel parco anche stanotte… per compiervi qualche azione trista… poichè, alle intimazioni di Emilio, siete fuggito come un ladro e avete lasciato questo bottone, che manca al vostro uniforme.... Perchè stanotte siete entrato nel mio parco?
Roberto taceva. Così i sospetti, anzi le ragioni di accusa si accumulavano su lui: così si chiudea da sè in una rete, dalla quale non avrebbe potuto uscire,
– Dov’è il conte di Squirace? – domandò il duca, guardando con orrore il vicino precipizio, il mare gorgogliante nell’imo di esso e gettando poi gli occhi sul cappello, che teneva in mano.
Anche a questa domanda Roberto non fiatò.
La gente gli si stringeva attorno, un po’ minacciosa, un po’ incredula ch’egli fosse stato capace di commettere tale delitto.
– Vi ripeto: perchè vi trovato qui, perchè anch’oggi siete entrato nel parco di nascosto?
Roberto ebbe un’idea: invocare la testimonianza di Enrica, sicuro che essa l’avrebbe salvato.
Enrica si era fatta trovare presso al ponte, allorchè era giunto suo padre insieme con gli altri: come per chiarir tutti ch’ella era stata testimone dell’accaduto. Ora s’era posta accanto al duca e s’appoggiava al braccio di lui.
– Signor duca, – disse Roberto, rompendo ogni esitanza, – c’è una persona che può esser testimone autorevole, raccontare ciò che qui avvenne, e perchè io sono entrato nel parco stanotte, e perchè mi ci trovo adesso....
– E chi è questa persona?
– Vostra figlia!
– Enrica – esclamò il duca. – Tu hai veduto tutto, e puoi parlare?…
– Non avrei voluto parlare: non so perchè s’invochi la mia testimonianza....
– Enrica!… – interruppe Roberto con una familiarità, che urtò il duca, e spiacque a tutti gli astanti.
– E bene: già che debbo parlare, io parlerò, – disse Enrica, che si teneva immobile e rigida, mentre due lacrime artatamente provocate le rigavan le guancie. – Roberto Jannacone ha assassinato il conte di Squirace....
Si alzò un grido d’indignazione e di orrore.
Roberto, accasciato da quel tradimento infame, rimase come un uomo senza volontà, senza sentimenti, senza più che un sembiante di vita. Avrebbe tutto creduto possibile, fuorchè una tale scelleratezza.
I servi del duca lo arrestarono.
Egli lasciò fare: non oppose resistenza di sorta. Enrica lo vide allontanarsi, e un’espressione di trionfo illuminava la sua ammaliante fisonomia.
Un dubbio la crucciava.
Se Roberto parlasse del loro matrimonio, durante il processo? Se ella dovesse comparire in pubblico a giustificarsi?
Ma Roberto era generosissimo; e poi egli era annientato, sbigottito dall’atto di lei, dal sangue freddo con cui ella lo avea compiuto.
Il suo amore, la sua passione eran rimasti troncati in un attimo: essa non gl’ispirava più nè affetto, nè odio, nè disgusto, nè desiderio di rappresaglie: gli sembrava fosse morta la giovane da lui amata e che fosse sorto un mostro dalla sua spoglia. Sulle prime, non si rese conto della condizione in cui egli era piombato. Poi, a poco a poco, si svegliò in lui la coscienza della miseria, dell’abiezione, dell’immenso cordoglio a cui l’aveano spinto.
Gli era stato tolto il suo grado. Chi e che era egli nel mondo e pel mondo? Un assassino, un omicida, che aspettava la sua condanna – e quale condanna? – dovea esser certo di morte.
Non v’era caso che trionfasse la sua innocenza: gli pareva ben arduo.
E il suo vecchio padre?
Vi pensava, smaniando. Avea saputo che s’era presentato alle carceri, ma non gli era stato concesso di vederlo.
Roberto entrava nella convinzione che la morte del conto di Squirace sarebbe stata vendicata col supplizio di due uomini: quello a cui i giudici l’avrebbero condannato e quello, tutto morale, che suo padre avrebbe risentito e che lo avrebbe, in breve, trascinato alla tomba.
E tale mutamento di eventi si compieva un giorno dopo che Roberto era tornato dal suo viaggio, ben fornito di denaro, onusto di onori, e il vecchio avea pianto per l’allegrezza, ed era corso alla chiesa, pregando con quel cuore con cui pregano i padri pe’ loro figliuoli, e ringraziando la Provvidenza, in cui avea tanta fede, dell’altezza insperata alla quale il giovane era arrivato.
Il pensiero del padre straziava Roberto.
Ma il vecchio non s’era invece lasciato punto abbattere.
Allorchè, con molta cautela, gli fu riferito da un frate, venerando per anni e per pietà, inviatogli dal duca, ciò che suo figlio avea fatto e gli furon palesate le conseguenze del suo delitto, il vecchio, sereno, si cavò la sua berretta, s’inginocchiò innanzi al sacerdote, dicendo con voce ferma:
– Il Signore vuole provarmi in questa mia tarda età.... Che la sua volontà, la quale mi castiga così, sia ben accetta dal mio animo di cristiano!
Poi, alzandosi, più fiero, disse, al frate:
– Dite al duca che lo hanno ingannato.... È impossibile che mio figlio abbia commesso un tale delitto.... Siate sicuro, come sono io, che mio figlio è innocente.... Qui sotto c’è un tranello, che scuopriremo.... Tutti sono stati ingannati.... E che? mio figlio assassino?
Il vecchio non seppe più contenersi e proruppe in singhiozzi, che avrebbero straziato i cuori men disposti alla pietà.
Poi riprese tutta la sua gagliardia:
– Sento, – disse al padre, – che la fede mi dà una gran forza… e in Dio attingo la convinzione che il mio povero figliuolo innocente è vittima di un agguato.
Allo stesso frate, uomo dotto e pio, esperto; da tempo, in tutti i dolori, parve grandiosa questa figura di umile cristiano; e riferì tutto al duca.
Nella voce, con cui il duca gli rispose, si sentiva il pianto. Si parlava molto del delitto, di cui era accusato Roberto. Alla indignazione verso di lui succedeva un sentimento di pietà, di simpatia. Questa simpatia gli era pur cattivata dal rispetto, dall’affezione universale di cui godeva suo padre.
La domenica dopo il fatto accaduto nel parco, egli era andato alla chiesa: e verso lui si volgevano gli sguardi di tutti: tutti l’aveano veduto entrare eretto, sereno, ma tutti ne indovinavano il dolore.
Al punto più solenne della messa, in mezzo al silenzio più profondo, si erano uditi i singhiozzi del vecchio, che, unendo la sua veemente preghiera alla preghiera del sacerdote, invocava dall’alto fosse chiarita l’innocenza del suo figliuolo.
Si udirono poi altri singhiozzi, più sommessi; molte anime semplici si turbavano a quell’immenso dolore, che già aveano indovinato: partecipavano a quella grande preghiera.
Anche il sacerdote avea gli occhi inumiditi di pianto: e portò a Dio, nella pienezza del sacrifizio che consumava, nel ricordo del santo martirio, fatto con parole divine, il dolore di quel padre, di quel cristiano. Dopo l’elevazione, Andrea Marrato, il più ricco contadino dei dintorni, e che si sapea, da diecine di anni, nemico acerrimo di Ciccillo Jannacone, corse ad abbracciarlo. Quindi i due vecchi rimasero inginocchiati l’uno accanto all’altro. La commozione era in tutti gli animi.
Ma anche a Napoli tutti si occupavano dello strano, atroce delitto. La morte del conte di Squirace avea indignato e fatto inorridire l’aristocrazia napoletana.
L’odio contro il presunto assassino era, nella popolazione, fomentato dall’alto.
Però, nella stessa aristocrazia, alcuni, più spregiudicati, o più intelligenti, faceano osservare il delitto essere stato commesso in circostanze ben strane.
Il duca, venuto in città, accendeva gli animi di tutti contro Roberto: Enrica aveva voluto restare nel castello.
Sola, con Cristina, la sera stessa in cui Roberto era tratto in prigione per la denunzia di lei, essa se ne stava, tutta nuda, dinanzi al grande specchio della sua camera, vanagloriosa di contemplarsi.
Le punte rosee del suo turgido seno si ergeano come due bottoni di fiori.
Cristina, l’infernale Cristina, le si accostava sempre di più: le facea carezze, che si dava sembiante di farle con piglio materno.
Enrica s’infatuava in quella corruzione e sorridea di piacere, mentre Roberto, nella, sua prigione, era dilaniato da tutti gli spasimi.
Ed esclamava, a ragione, pensando a lei:
– Donna crudele, infame, maledetta!
Il processo di Roberto era aspettato a Napoli con acutissima ansietà.
Si sapeva che Enrica avrebbe dovuto deporre come unica testimone.
Rendea più trepidante l’aspettativa il sentimento che dalla deposizione di una ragazza dipendeva la vita di un infelice.
Ciccillo Jannacone avea voluto lasciar subito il servizio del duca: e molti aveano fatto offerte al vecchio, ma egli se n’era tornato con un suo parente, e attendeva ne’ campi a’ suoi soliti lavori.
Aveva un tacito risentimento contro la figlia del duca. Per lui, convinto dell’innocenza di Roberto, e cui niuna sentenza umana avrebbe potuto strappar tale convinzione, essa aveva mentito. Ma si torturava il cervello: passava le notti insonni, poichè tra sè ricercava: a quale scopo?
Gli era venuta l’idea di trovar modo di parlare ad Enrica. E un giorno, poichè l’idea non lo lasciava, si recò nel parco.
Enrica passeggiava e scherzava col principe di Gorreso, giovane ministro del Re di Napoli presso una Corte straniera, e che era il nuovo innamorato della duchessa.
Si diceva, anzi, ch’egli avesse domandato già al duca la mano della figliuola.
Al solo vedere il padre di Jannacone, Enrica svenne.
Il vecchio fu scacciato dal parco come un malvivente. E, mentre lo scacciavano, Enrica si era fatta sentire da’ servi esclamare:
– Il padre dell’assassino! il padre dell’assassino!
Così, fingendo di parlare fra gli spasimi, nel delirio, coloriva viepiù la sua accusa contro Roberto.
Ormai era lieta: viveva sicura, sulla nobiltà d’animo del giovane: aspettava di giorno in giorno apprendere ch’egli si fosse nella sua prigione tolta in qualche modo la vita.
Roberto le avea fatto pervenire, chi sa con qual mezzo, e valendosi certo di denaro ch’era riuscito a portare con sè, una breve lettera.
Le diceva, dopo un gravissimo insulto, in cui qualificava il carattere di Enrica, che egli non l’accusava, non le perdonava, la disprezzava. Aggiungeva, co’ suoi consueti impeti di selvatichezza: “ti potessi aver sola con me per pochi istanti, ti farei a brani, ti punirei della tua protervia, vendicherei il mio onore… ma ora non voglio contristare tuo padre, che è già sì afflitto per causa tua. Egli è costernato che sia stato ucciso un amico suo, sì vicino a lui, senza ch’egli abbia potuto difenderlo. Tu hai voluto straziare, a un tempo, il cuore del tuo sposo e di tuo padre. Ti ripeto che tu m’avevi sempre fatto paura.... Io non parlerò nel processo. Sono generoso e non voglio competere di arti tristi con una femmina vile; poi, appunto per la mia generosità, quali prove avrei contro di te? Possedevo un tuo biglietto: lo portavo sempre indosso: l’ho ingoiato prima che mi perquisissero!”
Ecco le parole che Enrica lesse e rilesse.
Roberto continuava, scrivendo:
“Sono certo che tu, conoscendo la mia indole, aspetti ch’io m’uccida per non sopravvivere a una condanna.... Tu non hai, da tempo, altra bramosia che quella del mio annientamento, della mia morte. Ma io vivrò!… sì, vivrò. E il cuore mi dice che un giorno avremo ad incontrarci. Te lo immagini quel momento di gioia… per me? Fremo al pensarci. Gli anni di miseria che devon passare non mi spaventano… se mi sarà concesso di vendicarmi.... Ma già, di che io vaneggio? Il delitto di cui sono accusato, ha, secondo la legge, a pena la morte.... Tu aneleresti ch’io morissi anche prima del processo per risparmiarti qualche ansietà....”
In un poscritto, queste parole, sulle quali eran cadute alcune lacrime:
“Non ti odio, ti amo sempre: la memoria di certi momenti, de’ piaceri ch’io ebbi da te mi agita anche in questa prigione.... Che fai? Pensa che, malgrado tutto, io ti adoro: e vorrei stringerti di nuovo tra le mie braccia.... Ti salverò ad ogni costo: anche a costo della mia vita.”
Enrica ripiegò la lettera e la mise nel suo seno per rileggerla più a suo agio. La lettera le piaceva: essa voleva destare grandi passioni: godeva irretire, far vittime con la sua bellezza, con la sua frenesia di piaceri; l’averla amata, desiderata, già costava la vita a due uomini, ad uno di essi anche l’onore: il solo ricordo di ciò sarebbe bastato ad aumentare l’acutezza de’ suoi godimenti in avvenire.
Vi hanno esseri sì pervertiti cui lo stesso pensiero del male serve di pungolo, di stimolo alle gioie materiali, le ravvalora, le rende più vive.
Nell’istruttoria del processo, Roberto, sottoposto a ogni molestia da un giudice ignorante e crudele, non volle dir verbo.
Non negò, non confessò di esser autore del delitto: tacque sempre: gli ripugnava, mal suo grado, fino il dichiarare ch’egli era innocente, per una tenera deferenza per Enrica.
Qualche volta era stato tentato di parlare, allorchè il pensiero gli correva a suo padre; ma rifletteva subito: A che prò? Quali testimonianze egli aveva? Chi avrebbe prestato fede più a lui che alla figlia del duca? E poi tutte le apparenze non erano contro di esso?
Dobbiamo pur dire ch’egli si apponeva assai male: e appunto nel suo contegno, nobilissimo, ma improvvido, avrebbe trovato la maggior causa della sua rovina.
Ed ecco perchè.
Già in Napoli, come fra gli stessi coloni tra’ quali era nato e che aveano assistito in sì gran numero alla denunzia del suo delitto, molti se gli manifestavano favorevoli, propensi a credere alla innocenza di lui. E ne vedremo la causa.
Vi fu il processo.
Roberto, dopo aver risposto alle domande generali, disse non aver altro da aggiungere.
Il vecchio magistrato, che presiedeva la Corte Criminale, lo trattò con molto affetto e tentò invano persuaderlo a discolparsi.
Quasi l’esimio giureconsulto, sulle prime, mostrava troppo palesemente la sua convinzione circa l’innocenza di Roberto.
Ma la convinzione fu subito distrutta dal contegno dell’accusato e il giudice divenne più rigido, e forse implacabile.
Roberto si presentò a’ giudici tutto vestito di nero. Era pallidissimo: ma la sua fisonomia onesta, aperta, la gentilezza del suo tratto, il suono della sua voce, l’espressione del suo sguardo contrastavano di troppo con l’accusa.
La sua tranquillità pareva a’ malevoli cinismo; ma gl’intelligenti, che lo vedevano senz’ombra di spavalderia, si sentivano inclinati a scernervi un indizio di sicura coscienza.
Fra i testimoni comparve naturalmente Enrica, attesa e ascoltata con un’impazienza febbrile.
Più di tutti, siccome il lettore può comprendere, era impaziente di rivederla Roberto.
Anch’essa comparve tutta vestita di nero: quasi tutta coperta di un velo.
Alle domande fattele studiò di mostrare che non potea rispondere: finse le mancasse la forza: dette in un pianto dirotto.
Alla fine, non riuscendo a ottenere ch’essa parlasse, il presidente lesse la deposizione scritta, e le domandò se ella la confermasse.
Col capo fece cenno di sì, e molto risoluta.
Lasciamo immaginare al lettore qual fosse l’animo di Roberto, che non la perdeva di veduta e ne seguiva l’interrogatorio con ineffabile perplessità.
– Non basta, – disse il presidente, con molta affabilità, alla duchessa, – accennare con gesti: la sola prova per la Corte risulta dalla affermazione orale esplicita. Debbo, dunque, domandare a V. S. dichiarazioni precise.
La giovane duchessa non si smarriva.
C’era, tra i giudici, un sapiente: il conte Guicciardi. Di nobilissima famiglia, le cui sostanze si erano molto assottigliate, il conte avea seguito con grande ardore lo studio delle leggi. Era un degno discepolo, a non dir un degno continuatore di quegli esimii giureconsulti della illustre scuola napoletana, alcuni dei quali alla sapienza accoppiarono l’amor di patria, e ne morirono martiri.
Il conte osservava con molta attenzione la duchessa. Egli non avea mai veduto chiaro in questo processo; sulle prime avea gridato che si faceva ingiustizia a un popolano, a un uomo di umil condizione per adulare la grande aristocrazia napoletana.
Ma il conte era tanto pusillanime quanto era dotto: e un gentiluomo, ben accetto al Principe, gli susurrò all’orecchio: cessasse dal turbare i colleghi con dubbi che acquistavano autorità perchè da lui mossi: esser giunta al Sovrano la voce della sua discrepanza coi colleghi: e averla S. M. in un colloquio familiare energicamente riprovata: non si compromettesse più oltre.
Il conte non avea la forza, la virtù di que’ giureconsulti napoletani che avean saputo, per la libera parola, per obbedire alla coscienza, sfidar il patibolo, e salirvi con animo intrepido: e fermò in sè di aver prudenza: in certe congiunture consigliera vilissima.
Pure, egli ch’avea molti generosi istinti non seppe in tutto acconciar l’animo a quella parte muta, devota, che facea di lui, in fondo, un carnefice.
Il contegno della duchessa avea ribadito i dubbi del giovane e acuto magistrato.
Non la perdeva d’occhio un solo istante.
La smania di scoprire la verità, nient’altro che la verità, in quel punto lo dominava e gli facea dimenticar tutto il resto.
Avrebbe voluto interloquire; lo riteneva per allora. un leggero riguardo verso il presidente.
Una o due abili domande avrebber modificato l’esito del processo: Enrica si sarebbe imbarazzata: sarebbe stato facile cogliere in mendacio la giovane duchessa.
Essa guardava con terrore que’ magistrati, temendo che la sottoponessero alla tortura di un interrogatorio minuto: ma sempre padrona di sè, anche ne’ più spinosi frangenti, si volse con un’occhiata molto significativa all’avvocato della famiglia Squirace, costituitasi parte civile.
L’avvocato era un vecchio vagheggino, musicista, poeta, e a cui l’occhiata di una donna bastava per incitarlo alle maggiori follie.
Egli vide scintillare traverso il velo, assai rado, i begli occhi di Enrica: e venne subito in soccorso di lei.
– Faccio osservare all’onoratissimo presidente, – egli disse, – che la signora duchessa è in uno stato di salute molto precario.
Enrica era floridissima, dacchè credeva essersi sbarazzata di Roberto e avea accettato il corteggiare del principe di Gorreso, suo fidanzato.
– Io domando alla Eccellentissima Corte che voglia tener conto trattarsi di una gentildonna giovanissima, vissuta sinora in abitudini verginali, nella castità, nella purezza degli affetti domestici: d’una giovane gentildonna, che ha veduto dar morte, atrocemente, sotto gli stessi suoi occhi, a un amico della sua famiglia: e, credo, a un suo probabile fidanzato.... Essa non è ancor guarita dal colpo che allora riceveva.... L’Eccellentissima Corte insistendo potrebbe cagionare un deliquio, peggiorare le condizioni già gravi della gentildonna: essa è venuta qui accompagnata da suo padre e dal medico della famiglia....
– La signora duchessa, – tornò a dire il presidente, – conferma, dunque, la sua deposizione scritta?
– Sì, – rispose nettamente questa volta Enrica che vedeva necessario l’uscir presto da tali angustie, e voleva profittare dell’aiuto portole sì destramente.
– Ha ella veduto il nominato Roberto Jannacone gettare dal ponticello, detto dell’Inferno, nel parco di Mondrone, il conte di Squirace?
– Sì.... l’ho veduto! – rispose audacemente Enrica. Roberto teneva il volto nascosto fra le mani; il suo cuore si spezzava negli sforzi ch’egli faceva per contenersi.
Il conte Guicciardi non potè tacere più a lungo e mormorò al presidente:
– Nella deposizione scritta manca una parte essenzialissima: la narrazione ragguagliata del modo con cui è avvenuto l’assassinio del conte di Squirace!
L’avvocato di Roberto si alzava e faceva la medesima domanda.
Enrica si sentì perder d’animo: que’ momenti erano per lei troppo crudeli.
Le sembrava che l’espiazione fosse infinitamente più acerba del delitto, anzi de’ delitti, ch’ella aveva commesso per il suo egoismo.
Sentiva che in quel tribunale essa era, in tal momento, la sola delinquente: e che, se fosse stato saputo tutto il vero, i giudici non l’avrebbero lasciata uscire.
Enrica, quasi tramortita, teneva gli occhi fissi sul presidente.
Già, a un cortese cenno di lui, ella si era alzato il velo.
– La domanda è importante, – insisteva l’avvocato di Roberto. – Ci preme sapere qual era la posizione de’ due uomini: chi era fra loro che attaccava con energia: chi offendeva, e chi soltanto si difendeva.
Ma già si alzava il vecchio avvocato della parte civile, irruentissimo.
Era inutile per lui domandare chi attaccasse con maggior energia.... – Tutti abbiamo conosciuto il conte di Squirace: poteva esser coraggioso, ma era debolissimo: guardiamo l’accusato....
Nacque un battibecco fra’ due avvocati.
– Si vuol gettare lo scompiglio nella causa – dicea il vecchio avvocato della parte civile, – intimidendo il più importante e autorevole testimone che abbiamo. Si vogliono gettare insinuazioni, dubbii sulla parola di una gentildonna, e di una giovane gentildonna piissima, che ha prestato innanzi ai magistrati il suo giuramento....
– Perdono, avvocato.... – interruppe il collega.
– Mi lasci parlare.... Si domandano i particolari di un assassinio a una giovinetta, accorsa al rumore di una zuffa, impaurita, commossa, e che ha veduto, come è naturale, nel suo sbigottimento, un solo fatto, che è innegabile per tutti: quello di un uomo gettato nel mare.... dall’alto di un precipizio!
L’avvocato di Roberto non era molto avveduto, e dovea portargli egli stesso, non volendo, il colpo forse più funesto.
– Si parla di chi provocò: di chi attaccò con maggior energia, – disse il precipitoso avvocato, – ma non si è tenuto conto abbastanza di un ragguaglio in questo processo.... Il giovane, che si trova dinanzi a voi come accusato, era stato gravemente percosso nella faccia dal signor di Squirace con uno scudiscio.... Lo scudiscio fu ritrovato presso il ponte: e tutti attestarono aver appartenuto al compianto signore.... L’accusato, che io credo innocente, aveva, nel momento in cui fu arrestato, una ferita nell’occhio destro.... Vedete che il conte provocava, attaccava con energia....
– E allora, – ripigliò l’altro avvocato, – se ammette tanta provocazione, tanta energia nel conte, in che modo il mio avversario può persistere a credere l’assoluta innocenza del suo cliente! Sì, concediamo la più dura provocazione, per parte del conte; è chiaro che l’accusato, volendo reagire, ha assassinato il gentiluomo nel modo che tutti sanno.... È inutile, dunque, cercar di torturare l’unica testimone che abbiamo, di confonderla, di atterrirla per gettar l’equivoco in un processo che, per noi, è sì limpido.... Questa insistenza dimostra che si vuol davvero scusare, cuoprire un delitto....
L’avvocato di Roberto fece un gesto, come se fosse offeso dalle parole del suo avversario, che continuava con voce tonante:
– E sottrarre un reo alla sua legittima pena! L’altro avvocato ribattè.
Il presidente li lasciava fare: il tempo che costoro impiegavano a bisticciarsi, dava a lui agio di riflettere come uscire dalle sue perplessità e por termine all’interrogatorio della duchessa.
Enrica, che avea ascoltato avidamente ciò ch’avea detto il vecchio avvocato della parte civile, si accorse che egli le porgeva modo di finire il suo interrogatorio, con una dichiarazione, corroborante le prove della reità di Roberto, e atta a toglier lei d’imbarazzo.
Ella, dunque, a nuove domande del presidente, rispose che, dopo aver udito parlare dello scudiscio, che il conte di Squirace teneva in mano nel giorno in cui fu ucciso, rammentava una circostanza, dimenticata sin allora nella sua profonda agitazione.
Aveva veduto, – soggiunse, – a una certa distanza, il conte di Squirace che alzava lo scudiscio sulla persona che aveva di fronte (non nominò Roberto) e la percoteva.
L’avvocato della parte civile, il presidente sospirarono.
Uno dei giudici era indifferentissimo a tutto: pensava sempre alle sue ristrettezze domestiche: alla moglie troppo spendereccia e ambiziosa, a’ figliuoli che logoravano troppo i vestiti, e il cui appetito non era proporzionato al suo gramo stipendio.
Egli condannava, condannava sempre: gli pareva che l’ergastolo fosse una prigione assai più dolce di quella in cui egli viveva, fra i garriti, le esigenze domestiche, le privazioni e nell’ufficio le tirannie dei superiori.
Avrebbe assoluto Roberto, se avesse avuto la certezza di far dispetto al presidente, che, secondo lui, col dar cattive informazioni sul suo conto, gli aveva impedito d’esser promosso.
Il più giovane e il più dotto magistrato, di cui già abbiamo discorso al lettore, il conte Guicciardi, non era ancor convinto della reità di Roberto: vedeva sempre in questo processo molti e molti punti dubbiosi.
La prudenza, o, diremo meglio, la pusillanimità, gli impediva di studiarsi a chiarirli con una certa franchezza, durante il giudizio.
Prima di licenziare Enrica, il presidente chiese a Roberto se nulla avesse a domandare alla testimone.
Enrica aveva il batticuore.
– Nulla! – rispose Roberto con un tuono di voce, che Enrica non doveva più dimenticare, e che forse doveva riudire in un momento per lei terribile.
Enrica fu licenziata.
Non avea mai rivolto lo sguardo a Roberto: nè si volse punto a lui, nell’istante in cui essa usciva dalla sala, singhiozzando altamente col fazzoletto in sugli occhi, attrice perfetta, come tutte le donne viziose, cui l’inganno è potenza, ragione di vita.
Non ebbe un pensiero della magnanimità del giovane: non uno slancio d’ammirazione pel suo contegno nobilissimo: al contrario: ella titubava sempre ch’egli aggiungesse qualche parola compromettente: aspettava ansiosa la condanna.
Fin che questa non fosse venuta, ella temeva nuovi richiami, temeva nascessero viluppi insidiosi per lei. Non si curava d’altro. La falsa accusa, la calunnia contro Roberto?
Per lei non era nè calunnia, nè falsa accusa.
Che il conte di Squirace fosse caduto nel precipizio, per un movimento da lui fatto nella mischia, poco significava: Roberto l’avea sospinto a quel movimento; dunque Roberto era l’assassino del conte di Squirace. E poi egli non avea minacciato di morte anche lei?
Se il conte non fosse sopraggiunto, o ella avrebbe dovuto fuggir con Roberto, o sarebbe stata inabissata, com’egli le avea proposto, fra i gorghi del mare, ov’era stato gettato il conte.
Ella doveva la vita, l’onore alla cautela (la chiamava così) spiegata nell’invitar il conte a trarre in suo aiuto.
Di tal guisa, acquietava la triste sua coscienza; poichè anche i perversi hanno una coscienza, foggiata a lor modo.
E non le bastavano tutte le scuse, che già abbiamo addotte; un’altra ne allegava a sè stessa.
Roberto avea indegnamente abusato di lei: avea mancato al suo dovere di soggezione verso il duca: a forza l’avea voluta a sè, probabilmente, anzi sicuramente, ella arrivava a persuadersi, con lo scopo di rendersi padrone delle sue ricchezze: diventar l’erede del duca. Ardito e scellerato pensiero!
Quindi, si diceva, egli avea commesso, non uno ma più delitti, e il suo contegno assegnava non a nobiltà d’animo, ma a un tardo rimorso.
Costui dovea aver compreso che il sacrificio della vita era poco alla espiazione che gli spettava.
Nell’animo di Enrica, Roberto era ormai un gran delinquente, ed essa avea reso a tutti un segnalato servizio, sbarazzandoli da un uomo sì violento!
Chiuso il processo, i giudici si erano stretti in Camera di Consiglio per deliberare sulla sentenza.
E la discussione riuscì assai vivace.
Lì, fra’ suoi colleghi, il conte Guicciardi volle parlare aperto.
Non sosteneva l’assoluta innocenza di Roberto, ma quante lacune – disse – in questo processo!…
– Ammettiamo pure, – osservava, – il giovane marinaio sia stato provocato dal conte di Squirace. Sa la Corte il motivo di tale provocazione?… Che rapporti potevano esservi fra il gentiluomo e il figlio di Cicillo Jannacone?…
Come mai la duchessa, sì debole, sì ammalazzata, che avea appena partecipato alle feste in onore del padre, si era di tanto allontanata dalla sua villa e, sola, si trovava nel punto più remoto del parco? In che modo si erano incontrati proprio lì l’accusato ed il conte? Certo non casualmente....
L’accusato, mi direte, – aggiungeva a’ colleghi, – non ha voluto dare spiegazione alcuna, si è chiuso in un assoluto silenzio: non ha neppur consentito di parlare col suo avvocato, ha rifiutato di scegliersi altro avvocato che quello designatogli, per ufficio, dalla Corte.... Vedete voi in ciò un indizio di reità?… Io, egregi colleghi, sarei allora di parere diverso dal vostro.
Un reo, nega, attenua, si difende: qui abbiamo un uomo che, dinanzi al patibolo, nella probabilità di una condanna a morte, non cerca alcun espediente per sfuggir a tal fine; anzi vi va incontro quasi volenteroso. E voi non scorgete nulla d’insolito in questo uomo che tace? Ricordate ch’egli è un valoroso: ricordate che la sua condotta fu sino ad oggi esemplare, anzi fu, in certe occasioni, eroica: rammentate le testimonianze de’ suoi camerati che ci vennero a fare il suo elogio, commossi, piangenti. Ah, miei cari, non ci troviamo innanzi un volgare assassino! Dobbiamo piuttosto giudicare un fatto molto misterioso. Mancano le prove dell’innocenza: non abbondano quelle della reità, se si scrutina bene. Non è la prima volta che un soldato, un uomo d’onore e cavalleresco, tace, accetta la responsabilità di un delitto, infama il suo nome per salvar l’onore di una donna, per un motivo di suprema delicatezza....
– Il silenzio può essere il ripiego di un uomo abilissimo, appunto per indurre in questa credenza, – disse il presidente.
– Ma non quando si corre il rischio di una sentenza di morte! – esclamò l’altro magistrato, che condannava quasi sempre, lieto di contraddire al presidente.
Vi fu un breve silenzio.
Il conte Guicciardi si era alzato, e si era avvicinato alla finestra della stanza.
Tornò indietro, dopo aver guardato un po’ nella strada, distrattamente, mentre seguiva le sue meditazioni; si fermò dinanzi al presidente, e gli disse con piglio benevolo, ma assai risoluto:
– Io non ho il coraggio di firmare una sentenza di morte.... E non la firmerò!
– E neppur io! – aggiunse l’altro magistrato.
– Io aderisco, – disse affabilmente il presidente, – alle proposte de’ miei colleghi.
Roberto avea seguito con gli sguardi Enrica, fin che non si era richiusa dopo di lei la porta della sala d’udienza: era rimasto qualche tempo con gli occhi fissi su quella porta, come se attendesse che ella tornasse ancora addietro: poi l’angoscia più acuta gli avea di nuovo stretto il cuore ed era ricaduto nel suo solito torpore.
La sentenza fu molto ponderata: Roberto fu condannato all’ergastolo. Tutta Napoli comprese il dubbio che avea assalito i giudici.
Il vecchio Jannacone, venuto a Napoli, volea recarsi al cospetto del Re: chieder grazia: potè finalmente presentar la sua domanda, ma fu respinta.
Nella popolazione napoletana il processo destò una certa effervescenza, che poi subito quetò. Altre cure, altri dolori, e la tendenza all’oblìo, forse, la sola cosa che renda la vita tollerabile, fecero scordare il delitto del parco di Mondrone.
In breve non si parlò più nè di Roberto, nè del conte di Squirace.
Ciccillo Jannacone tornò al suo lavoro: stette mesi senza dir parola, sempre convinto della innocenza del figlio. Domandò di vederlo: gli fu negato. Egli non malediceva: non imprecava. Lo ritroveremo, a suo tempo.
Roberto era entrato nella prigione con un solo pensiero: – che ne sarebbe presto o tardi uscito, malgrado la condanna a vita, malgrado tutte le sentinelle, destinate a vegliar su di lui, malgrado tutti i rigori – e sarebbe tornato in Napoli, e magari a Mondrone, a esercitare le sue vendette.
Il desiderio di fuga dovea esser acresciuto in lui da un caso che esporremo nella seconda parte del nostro racconto: del quale questa prima parte forma come chi dicesse l’antefatto.
Circa sei mesi eran corsi dalla condanna di Roberto, ed Enrica una sera, parlando con la sua fida Cristina, le rivolgeva una domanda che le aveva già ripetuto in altre occasioni:
– Come sta la bambina?
Cristina avea saputo da Domenico che egli avea ritrovato la bambina morta nella carrozza.
Subito gli avea fatto giurare di non dir verbo: e avea cercato modo di allontanarlo dal castello. Gli fornì, di tratto in tratto, molti denari, che servirono a Domenico, com’ella prevedeva, per ingolfarsi nel suo vizio prediletto.
Vi furono scenate, scandali al castello: e finalmente Domenico fa pregato di trovarsi altro servizio: egli vi si adattò a malincuore, poichè a Mondrone i servitori stavano bene, ma dovè prendere commiato, non ostante che Cristina facesse sembiante di difenderlo a tutta possa; ed egli le professava la maggior gratitudine.
Ma Cristina, invece, avea soffiato nel fuoco: era stata la causa ch’egli dovesse abbandonare il buon servizio.
Essa avea più volte spinto Domenico ubriaco nelle stanze di Enrica, col pretesto ch’egli portasse i fiori degli splendidi giardini, a lui affidati: e quindi Enrica stessa avea sollecitato il duca perchè lo allontanasse.
Cristina l’avea poi consigliato a lasciar Napoli, ove godea sì mal nome: e Domenico che le obbediva, credendo ella volesse soltanto il suo bene, si allogò con una famiglia d’inglesi che partiva per la Calabria.
Anche Roberto, d’ordine superiore, forse per riguardo alla famiglia degli Squirace, forse per zelo di qualche assiduo cortigiano e commensale del duca, era stato inviato in Calabria: e in una delle più dure prigioni: nella prigione di ***.
Enrica, dunque, domandava di tanto in tanto notizie della bambina. L’astuta cameriera le rispondeva che la bambina prosperava: le parlava sempre delle ingentissime spese che occorrevano a mantenere il segreto: e poi la creatura era sì malaticcia.... la gente, che l’avea in cura, ingordissima.... Essa l’avrebbe adottata come le avea promesso: stesse tranquilla.
Già Enrica era in vere angustie per procurarsi tutto il denaro che Cristina le domandava. Non poteva chiedere forti somme al duca senza eccitarne i sospetti. Cristina diveniva esigente, imperiosa.
Ah, se Enrica avesse potuto sapere in quali mani si trovava davvero la sua bambina!
Una sola persona era a parte del terribile segreto: Roberto Jannacone, poichè egli era l’uomo nascosto fra le rovine del casolare, allorchè vi erano andati a tenere il loro conciliabolo il marchese di Trapani e Marco Alboni.
Ma a Roberto Jannacone mancava allora un punto: sapere chi fossero il padre e la madre della bambina, che i due bricconi aveano trafugato.
FINE DELLA PARTE PRIMA