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CAPITOLO VII.
ОглавлениеFermiamoci alla porta, appena fuori di essa, dove la gente affluiva e donde partiva; guardiamo ed ascoltiamo aprendo bene occhi ed orecchie.
Giungiamo proprio in tempo opportuno! Ecco due uomini ragguardevoli che si avanzano in modo da esserci bene in vista.
— «Dio, come fa freddo!» — diceva uno di essi ch'era ricoperto d'una gagliarda armatura e portava sul capo un elmo di rame e sul petto una corazza lucente. — «Come fa freddo! ti ricordi, mio caro, quel sotterraneo nel Comitium, che la storia dice servire d'entrata al mondo intero? Per Plutone! Io potrei fermarmi lì questa mane, finchè mi sono scaldato!» —
Dette queste parole sparvero entrando in città. Quando anche non avessero parlato, dall'armatura e dal passo pesante, si sarebbero giudicati soldati romani. Dietro ad essi veniva un Ebreo, magro di statura, dalle spalle ricurve, vestito d'una tonaca rossa; gli occhi e il viso erano ombreggiati dalla lunga capigliatura scomposta. Egli era solo. Quelli che l'incontravano ridevano, se non facevano di peggio, perchè egli era un Nazzareno appartenente alla setta spregevole che rifiutava i Libri di Mosè e si dedicava ai riti e non si tagliava i capelli mentre duravano i voti. Mentre questa abbominevole figura si allontanava, avveniva un improvviso tumulto nella folla che si divideva prontamente a destra e a sinistra con pungenti esclamazioni. Cagione di ciò era un individuo che lineamenti e costume rivelavano Ebreo. Il suo mantello di tela bianca, era allacciato al collo con dei cordoni di seta gialla svolazzanti liberamente sulle spalle; il suo abito riccamente ricamato, una fusciacca rossa con frangie d'oro gli girava parecchie volte intorno alla vita; la sua fisonomia era calma, egli sorrideva anche a coloro che in modo rozzamente frettoloso, gli facevano largo. Un lebbroso? No; egli era solo un Samaritano. La folla che si allontanava, se interrogata, avrebbe risposto che egli era un mulatto, un assiro; il solo contatto del suo abito era così ripugnante che un Israelita, nemmeno se in agonia, avrebbe a prezzo di tale contatto accettata la vita. Quando Davide pose sul monte Sion il suo trono col solo aiuto di Giuda, le dieci tribù si stabilirono a Sheckem, una città molto più vecchia e a quel tempo infinitamente più ricca di sacre memorie. L'unione finale delle tribù non acquetò la disputa cominciata. I Samaritani difendevano i loro tabernacoli per Gerizim e mentre sostenevano superiore la loro santità, ridevano degli irati dottori di Gerusalemme. Il tempo non mitigò il loro odio. Sotto Erode la conversione alla fede era aperta a tutto il mondo eccetto che ai Samaritani. A loro soli era proibita assolutamente, e per sempre, la comunanza cogli Ebrei.
Mentre il Samaritano si incamminava sotto l'arco della porta di là uscirono tre uomini così diversi da tutti quelli da noi finora veduti.
Essi erano di una statura straordinaria, e di una straordinaria complessione; i loro occhi erano azzurri e la loro carnagione tanto delicata che il loro sangue traspariva attraverso la pelle come azzurre pennellate; i loro capelli pure chiari e corti, le teste piccole e rotonde, riposavano ferme sui colli come tronchi d'albero, tuniche di lana aperte sul petto, senza maniche, fermate con una larga cintura, avvolgevano il loro corpo lasciando scoperte le braccia e le gambe talmente forti che si sarebbero dette di gladiatori; e quando vi aggiungessimo i loro modi trascurati, confidenziali ed insolenti, non ci meraviglieremo che il popolo lasciasse loro il passo, si fermasse e si voltasse addietro dopo che erano passati per dar loro un'ultima occhiata. Erano giuocatori nell'arena, lottatori, corridori, pugillatori, schermidori, professionisti sconosciuti nella Giudea prima della venuta dei Romani, i quali, eccettuato il tempo che dedicavano all'addestrarsi e al gironzolare pei giardini reali, si facevano vedere seduti in compagnia delle guardie alla porta del palazzo, o forse erano ospiti provenienti dalla Cesarea, Sebaste o Gerico, dove Erode, più Greco che Ebreo, e con tutto l'amore di un Romano amante di giuochi e di spettacoli sanguinosi, aveva fabbricato vasti teatri e vi teneva ora delle scuole di scherma come quelle d'uso nelle provincie galliche, o nelle tribù slave del Danubio.
— «Per Bacco! — esclamò uno di essi, portando il pugno all'altezza della spalla — i cranî degli avversarî non hanno lo spessore di un guscio d'ovo!» —
Lo sguardo brutale che accompagna quel gesto ci disgusta e noi siamo lieti di rivolgerci a qualche cosa di più piacevole.
Di rimpetto a noi sta un banco di frutta. Il proprietario è calvo, ha il viso lungo e un naso fatto a guisa del becco di un falco. È seduto sopra un tappeto disteso sulla sabbia e volge le spalle al muro; sopra la sua testa pende una misera tenda; intorno a lui, alla mano, disposti sopra piccoli sgabelli, stanno scatole piene di mandorle, uva, fichi e melegrane. Gli si avvicina un uomo che non possiamo a meno di guardare, ma per ben altra ragione di quella che ci fece alzare gli occhi sui gladiatori: egli è veramente bello, un bellissimo Greco. Una corona di mirto alla quale sono ancora attaccati pallidi fiori e bacche mature, gli tiene fermi i capelli e circonda le sue tempia. La sua tunica scarlatta è fatta di una morbida stoffa di lana; sotto alla cintura di cuoio di bufalo, allacciata davanti da una fibbia d'oro lucente, gli cade la sottana fino alle ginocchia con profonde pieghe e guarnizioni dello stesso metallo; una sciarpa, pure di lana, mista di bianco e di giallo, gli circonda il collo. Le braccia e le gambe sono scoperte, sono bianche come l'avorio, d'un candore che rivela l'uso continuo di bagni, d'olio, di spazzole e di forbici. Il venditore, fermo al suo posto, si piega in avanti, e alzando le mani, colle palme all'ingiù e le dita distese.
— «Che hai questa mattina, o figlio di Pafo?» — gli domandò il giovane Greco guardando più alle scatole che al Cipriotto. — «Io ho fame; che hai da colazione?» —
— «Frutta genuine del Pedio, come ne fanno uso solo i cantanti di Antiochia ogni mattina per rinforzare la loro voce» — rispose il venditore in tono lento e nasale.
— «Non me ne importa un fico dei cantanti di Antiochia» — esclamò il Greco. — «Tu sei, come sono io, un adoratore di Afrodite, quindi ti assicuro che le loro voci sono fredde come il vento del Caspian. Vedi tu questa cintura? è un regalo della grande Salomè.» —
— «La sorella del Re!» — esclamò il Cipriotto con un altro inchino.
— «È di un gusto regale e ammirevole. E perchè no? Essa è più greca del Re. Ma... la mia colazione? Ecco il tuo danaro. Rame rosso di Cipro. Dammi dell'uva e...» —