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L'immenso mondo fuori casa

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Entravamo ed uscivamo tutti insieme in dei negozi dove non ero mai andato prima.

C'era tanta gente, tanta confusione e la cosa non mi piaceva.

Riuscivo a rimanere un po' contento soltanto perché erano tanti bambini e bambine di tutte le misure. Poi c'era un po', ma soltanto un po' di curiosità per quei vestiti che mi dovevano comprare per andare all'asilo.

La curiosità è stata quasi subito esaurita, e dopo che mi hanno fatto provare quella specie di vestito da donna chiamato grembiulino, che non vedevo l'ora di togliere, e quella specie di borsetta come quella del postino ma a mia misura, anche quella poca curiosità era scomparsa.

Non vedevo l'ora di tornare a casa.

Appena arrivati a casa, sono andato subito dalle mie macchinine, perché il discorso dell'asilo per me era già chiuso.

L'unica cosa buona in quel momento era l'entusiasmo di mio fratello per l'elegante vestito che doveva indossare a scuola e la montagna di quaderni, matite colorate, birro, pene stilografiche e tante altre cose nuove ed interessanti che riempivano il tavolo in quel momento.

Soltanto dopo qualche giorno, quando ero da solo con mia mamma, mi ha detto che dovevo indossare di nuovo il grembiulino, per vedere se andava tutto bene.

Dopo averlo fatto, mia mamma mi aveva chiesto di tenere i miei due indici tesi ed intorno, è passata più volte con una fascia rossa di seta larga quanto le mie dita, che ha fatto diventare all'improvviso, una bella farfallina.

Vestito e con la farfallina intorno al colo, mi sono visto per la prima volta allo specchio.

Sembrava tutto meno brutto di come pensavo.

Con il grembiulino celeste chiarissimo come il cielo di fine estate, il colletto bianco con una forma buffa ma divertente e d'avanti quella grande farfalla rossa di setta quasi trasparente, con appesa a tracollo quella borsetta marrone molto chiaro, ero pronto per cominciare l'asilo.

Ho capito che protestare non serviva.

Il secondo giorno, con mia mamma per mano, dopo aver indossato di nuovo tutto e dopo che nella borsetta mi aveva messo del cibo ed un bicchiere di plastica per poter bere, siamo usciti di casa e siamo andati in una direzione dove non ero mai stato prima.

Dopo aver fatto non tanta strada, siamo passati attraverso un grosso cancello di ferro, oltre una recinzione in cemento che non lasciava vedere nulla da l'altra parte.

Appena entrati, mi sono sentito investito in pieno dalla testa ai piedi da un forte boato.

Era come se mi avesse investito un muro fatto da voci di bambini.

Erano così tanti che mi stavo chiedendo se si erano radunati, i bambini di tutto il mondo.

Di tutte le misure.

I maschietti, quasi tutti, erano vestiti come mio fratello.

Le femminucce, erano ancora più belle di loro.

Ho visto subito che ero della misura più piccola.

In un attimo, siamo andati oltre quel grande gruppo di bambini, nel' angolo più lontano di quel grosso cortile. Li c'era un gruppo molto, molto più piccolo di quello dei bambini più grandi, ma immenso nei confronti di quello dei miei amici, in campagna dai nonni.

Quando le mamme erano ancora con noi, ci hanno divisi in gruppi più piccoli e poi hanno fatto entrare ogni gruppo con la sua maestra, nella sua aula.

Le sedie ed i tavolini erano a nostra misura, come quelle in campagna nella grande casa. Poi, quando tutti insieme, prima le femminucce e poi i maschietti, siamo andati in bagno, ho visto che anche li, era tutto fatto a nostra misura.

Tutto molto bello.

Ho subito visto, fatto ed imparato cose nuove, ma erano tutte meno interessanti di quelle viste, fatte ed imparate a casa dei nonni.

Questo mi piaceva meno.

Tutte le mattine sarei rimasto a casa, perché dovevo andare e rimanere lì dentro per tanto tempo, troppo tempo. Fare tante volte gli stessi giochi che avevo imparato subito e che non mi divertivano più. Stare sempre nello stesso posto, con vicino a me sempre gli stessi due bambini, non potermi alzare ed andare da un amico, o un’amica per dire loro ciò che volevo, quando volevo, non mi piaceva.

Tutte quelle cose nuove, chiamate regole, mi facevano vivere in una sofferenza continua.

Come mai prima.

Stavo un po' meglio soltanto quando ci portavano nel cortile e ci lasciavano liberi, tutti insieme, con i nostri giochi, oppure quando dentro l'aula, ci dicevano che stavamo per fare del lavoro manovale ed ogni volta imparavo qualcosa di nuovo. Soprattutto, quando ci davano carta e matite per disegnare bastoncini, linee ed altre cose tutte in riga, una dietro l'altra sullo stesso foglio.

Stavo ancora meglio, quando mentre mangiavamo, scambiavo il mio cibo con quello del mio amico di fianco, oppure quando buttavo via qualcosa che non mi piaceva, senza che la maestra riusciva a vedere e capire nulla.

Era sempre una grande vittoria.

In tutto quel tempo, l'unico momento di vero sollievo è stato quando ho sentito che era arrivata la vacanza grande.

Quella estiva.

Mi sono sentito ancora più sollevato quando attorno a me, hanno cominciato a dire che dovevamo andare al negozio per comprarmi la roba per la scuola e poco tempo dopo, come l'anno prima, siamo entrati nello stesso cortile pieno di bambini.

Questa volta ci siamo fermati con quelli un pochino più grandi.

Era tutto bellissimo.

Il sole luminoso e caldo, le voci dei bambini, stare insieme a loro, i vestiti.

Tutto.

Poi, quando e venuta una bellissima maestra, con un bel vestito rosa a prendere il gruppo dove mi avevano messo, la prima cosa che ho sentito nel cuore è stata quella di mandare via mia mamma, perché stavo così bene, da sentirmi come a casa.

Entrati nella nostra classe ho visto che anche lì, i mobili erano della nostra misura, ma una misura più grande di quella dell'asilo.

Dopo averci fatto sedere in coppie nei banchi, la maestra ci ha spiegato che eravamo tutti lì per la prima volta.

Noi, perché al primo giorno di scuola nella vita.

Lei, al primo giorno di lavoro come maestra.

Avremmo imparato tutti insieme a camminare, ognuno per la sua strada, facendo tante cose nuove, belle ed interessanti nel viaggio lungo quattro anni, che avremo fatto insieme.

Dopo, ci ha spiegato che i due libri nuovi sul banco, d'avanti ad ognuno di noi, ci avrebbero aiutato in quel anno di scuola per imparare a leggere, scrivere e fare i primi conti. Poi, che la bellissima rosa bianca appoggiata con tanta cura sopra i due libri, era il benvenuto che la scuola, ormai nostra, dava ad ognuno di noi.

Pulcini del primo anno.

Dal primo attimo, mi sono innamorato di tutto, e qualsiasi cosa facevamo, mi piaceva come nessuna mai prima.

Ogni giorno quando andavo via da scuola, non vedevo l'ora di arrivare a casa per fare di nuovo scuola.

I compiti.

Appena finiti, sarei partito per ritornare a scuola e farli vedere alla mia maestra, con il desiderio di andare subito oltre ed imparare un'altra cosa nuova.

Giocavo anche fuori casa tutti i giorni con i miei amici di sempre, ma quelle cose nuove, mi piacevano molto di più.

Vedevo che anche i più grandi intorno a me, in casa erano molto sereni, contenti, e mi lasciavano fare da solo tutte quelle mie cose nuove.

Mi sentivo libero.

Per la prima volta sentivo che stavo facendo qualcosa di importante, e nello stesso momento, sentivo un piacere unico nel fare tutto quello che stavo facendo.

Un piacere mai provato prima.

Purtroppo, è passato tutto molto in fretta.

Mi è sembrato un attimo, dal primo giorno in qui ero entrato nel cortile della scuola, a quando la nostra maestra ci detto che eravamo arrivati all'ultimo giorno di scuola ed alle premiazioni.

Non sapevo cosa significava "le premiazioni", ma a casa, la sera prima, ho visto la mia mamma darsi un gran da fare a preparare la divisa del mio fratello e la mia in un modo più attento, con ancora più cura del solito.

La mattina dopo, siamo partiti tutti insieme e già quella, era una cosa nuova, perché non era mai accaduto di andare a scuola, insieme al mio fratello.

Noi piccoli andavamo a scuola al mattino e quelli più grandi di pomeriggio.

Più ci stavamo avvicinando alla scuola, più mi sembrava di vivere una giornata completamente diversa da tutte le altre.

Una giornata di grande festa.

Era un po' come nel primo giorno, soltanto che sembrava ancora più festa.

C'erano dei bambini, non tanti, che portavano dei mazzi di fiori, ed anch'io come loro, avevo in mano un bel mazzo di rose bianche.

In più, nessuno di noi, aveva la borsa che portava di solito con i libri, quaderni e tutte le altre cose che servivano tutti i giorni.

Arrivati nel grande cortile, si e aperto un altro mondo.

Per me tutto nuovo.

Tutti i bambini, dai più piccoli, ai più grandi erano radunati in un ordine molto bello da vedere.

Tutte le classi, una di fianco all'altra, quasi attaccate tra loro.

Quando sono arrivato, sono andato con la mia classe e più venivano i bambini, più prendeva forma una grande ed ampia lettera “U”, che facevamo tutti noi insieme ed alla fine, al centro del lato libero, c'era un palo di ferro altissimo.

All'interno di questa lettera, nello spazio libero, avremmo potuto benissimo giocare una partita di calcio.

Ogni classe, era messa su quattro fila e di fianco la propria maestra.

Sembrava un disegno perfetto.

D'avanti al grande palo, c'era un grosso tavolo addobbato a festa.

La grande lettera “U” era pronta, ed ero meravigliato di tutti noi bambini.

Non riuscivo quasi a credere quando dopo aver chiesto alla mia maestra in quanti eravamo, mi ha risposto: < Più di mille >.

Sul lato libero della lettera “U”, c'erano i genitori.

Molto meno bravi di noi.

Stavano tutti insieme in modo non ordinato.

All'improvviso, quel rumore di voci, immenso, ma non forte, si è fermato all'improvviso.

Se una mosca sarebbe volata vicino a me, l'avrei sentita benissimo.

In quel momento ho visto che soltanto noi, i pulcini del primo anno avevamo la divisa con quale andavamo a scuola tutti i giorni.

Gli altri, erano diversi.

I maschietti avevano i pantaloni blu scuro della divisa e le femminucce una gonna molto bella dello stesso colore. Nella parte alta, avevano tutti una camicia bianca. La cosa tutta nuova per me, era che intorno al colo, avevano una specie di fazzoletto rosso e su tutto il bordo del fazzoletto c'era il tricolore della bandiera nazionale. Tutti, avevano sul capo un basco bianco.

Non ho fatto in tempo ad aprire bocca per riempire di domande, come al solito, la mia maestra, perché il grande silenzio, è stato interrotto da un bel suono di trombe.

Quando è cominciato, i grandi vestiti di bianco, tutti insieme nello stesso momento, hanno alzato il braccio destro, mettendolo d'avanti alla fronte.

Sembrava un saluto come quello dei soldati nei film di guerra, ma era un po’ diverso.

Più il suono delle trombe si avvicinava, più si sentiva che l'emozione in tutti noi, stava crescendo.

Dopo pochi attimi, dal lato libero della lettera “U”, di fianco ai genitori, sono arrivati quattro ragazzi che suonavano le trombe.

Camminavano in due coppie, una dietro l'altra.

Subito dopo, c'erano altre due coppie.

Due ragazze d'avanti e due ragazzi dietro.

Tutti e quattro insieme, tenevano con una mano alta e bene in vista, la bandiera tricolore del paese.

Dietro a tutti loro, c'era il direttore della scuola ed altre due persone.

Appena arrivati vicini al grosso palo di ferro, le trombe si sono fermate e mentre i ragazzi con la bandiera, la legavano al filo steso su tutto il palo, i ragazzi più grandi, quelli vestiti di bianco, tutti insieme, hanno cominciato a cantare la stessa canzone.

Mentre loro cantavano, uno dei ragazzi con la bandiera, ha cominciato a girare una piccola manovella, facendo salire sul palo di ferro la bandiera.

Quando e arrivata in cima, si sono fermati tutti ed è ritornato il grande silenzio.

Era stata una cosa molto bella da vedere, molto emozionante.

Ho sentito un brivido freddo sulla schiena.

Noi non avevamo cantato e non sapevo bene cosa stava succedendo, ma sentivo che eravamo tutti uniti e che facevamo parte di quel grande gruppo.

Bello ed organizzato.

Eravamo tutti insieme.

Dopo pochi attimi di silenzio, il direttore ha proclamato aperta la festività di premiazione dei migliori allievi di quel anno scolastico.

Nell'attimo successivi, la nostra maestra, ancora più bella del solito, ci ha detto di restare lì cosi come eravamo. Non muoverci per nessun motivo e chi si sentiva chiamato per nome, doveva andare da lei.

Poi, è andata dietro al grosso tavolo addobbato.

Da quel momento, uno alla volta, partendo da noi piccoli, ogni maestro andava dietro, al centro del tavolo e chiamava alcuni allievi per nome. Vedevo che gli allievi chiamati si avvicinavano, davano alle maestre i bei mazzi di fiori, e le maestre, dopo averli baciati, davano loro qualcosa. Poi, ognuno tornava al posto suo, ma non prima di essere applaudito.

Tutto molto bello da vedere.

Quando però, al centro del tavolo è andata la nostra maestra e ho subito sentito il mio nome, è stato come se addosso mi era appena caduto il sasso più grande del mondo.

All'improvviso mi sembrava di non sentire più.

Mi sentivo molto piccolo.

Ero diventato così pesante che mentre camminavo, mi sembrava di farlo nello stesso posto.

Mentre mi avvicinavo al tavolo, le persone dietro, mi sembravano sempre più grandi ed il tavolo immenso. I bambini sempre più numerosi e mi sembrava di essere tutto sudato.

Il mio respiro, diventava sempre più affannato.

Appena sono arrivato, dopo un abbraccio ed una carezza sulla guancia, la mia bella maestra mi ha attaccato al suo fianco, alle sue gambe.

La pace è ritornata subito.

Ho visto in quel momento, quanto era bello il verde molto chiaro del suo vestito, quello chiaro, come il gelato.

Con me attaccato a lei, quando ha detto al microfono nell'altra mano, che in quel anno, ero stato il migliore nella nostra classe ed avevo preso il primo premio, mi è sembrato di sentire dentro un’esplosione di luce e di calore, da non poter descrivere con parole.

La pace si è subito trasformata in gioia.

La gioia, in una felicità senza limiti, forte da sentire che se non mi teneva lei, mi sarei alzato da terra.

Avrei cominciato a volare.

Dentro il mio petto, c'era una forza immensa.

Il sole era di un giallo più bello e la luce più luminosa.

Quando tutti i grandi dietro al tavolo, mi hanno dato la mano e mi facevano le loro congratulazioni, erano tornati normali.

Non li vedevo più giganti.

Subito dopo, la mia bella maestra, mentre mi spiegava cosa stava per fare, mi ha dato il diploma per il primo premio e sopra, c'era scritto il mio nome. Insieme, mi ha dato un libro molto bello, molto colorato con una favola che a me piaceva tanto.

La mia preferita.

"Il gatto con gli stivali".

Mentre con le mani piene, provavo a darle il mazzo di rose con i gambi quasi spezzati per quanto li avevo stretti forte, mi sono sentito girato da lei su me stesso, in un modo molto deciso, ma con dolcezza.

Era per la prima volta che vedevo bene tutti i bambini, piccoli e grandi.

Tutti di fronte a me.

Erano tantissimi.

Anche loro sembravano ancora più belli di prima e quando tutti insieme, hanno cominciato ad applaudire, lei, all'orecchio mi ha detto:

< Lo fanno per te, perché sei stato bravo >.

Il Paradiso dei nonni in quel momento, era un ricordo molto bello, ma lontano, perché quella cosa che vivevo, era molto di più.

Per la prima volta ero fuori casa, da solo, d'avanti al mondo.

D'avanti a tutto il mio mondo.

Stavo raccogliendo i miei primi frutti.

I frutti del mio lavoro.

Per me era già il sogno più bello che avevo mai vissuto ad occhi aperti.

Poi, a cerimonia finita, mentre i miei amici mi facevano le congratulazioni e la maestra diceva loro di prendermi come esempio, mi sembrava che all'improvviso, ero diventato un po' più grande di quanto ero stato quella mattina mentre uscivo di casa.

Dentro sentivo una cosa mai sentita prima.

Molto bella, molto interessante, ma non più così semplice, come quando giocavo insieme agli amici, studiavo, o facevo qualsiasi altra cosa. Non sapevo che cos'era, ma una piccola vocina dentro me, sembrava che mi parlava.

Mi diceva che da quel momento, se qualcuno dei miei colleghi di scuola avrebbe avuto dei problemi, delle difficoltà, o qualche bisogno, dovevo aiutarlo.

Dovevo starli più vicino.

I giorni delle vacanze estive passavano uno dietro l'altro abbastanza veloci, ma molto più lenti di quello che volevo.

Non vedevo l'ora di tornare a scuola, anche se non pochi sono stati i problemi che ha avuto mia madre con me, per farmi fare i compiti di vacanza.

La scuola era la cosa che più mi piaceva in quel momento, ma non comprendevo ed ancora meno accettavo, perché dovevo fare dei compiti, mentre mi godevo la vacanza guadagnata con tanto lavoro, impegno e fatica.

Era un mio diritto.

Avevo già impegnato del mio tempo, tempo della mia vacanza, per andare insieme ai miei genitori e tanta altra gente, in un posto, abbastanza vicino a casa, dove si costruiva il nuovo stadio della squadra di calcio della nostra città, appena salita in serie C.

Li, dove tutti i cittadini dovevano fare delle ore di “lavoro volontario”.

Dopo tante contrattazioni tra me ed i miei genitori, non pochi sforzi per tutti e fatti i compiti delle vacanze, finalmente è arrivato un grande sollievo quando siamo andati a comprare ciò che serviva per la scuola.

Era il segnale che a poco si cominciava.

Una gioia immensa ho sentito dentro me, quando una sera, ho visto la mia divisa preparata con tanta cura sulla sedia.

Il giorno dopo, sarei andato a scuola.

La gioia e la felicità di ritrovarci tutti nella nostra classe, erano immense.

Tutti noi, eravamo un po' più grandi.

La nostra aula, sembrava più bella con il nuovo colore sulle pareti appena dipinte.

Sul banco, d'avanti a noi, i libri nuovi che ci aspettavano, non erano più soltanto due.

Erano diventati quattro.

Poi, quando la porta si è aperta ed è entrata una donna molto giovane, la nostra maestra ci ha spiegato che nell'anno appena cominciato, sarebbero successe due cose molto importanti per noi.

La prima, che avremo cominciato a studiare la lingua tedesca e la donna appena entrata era la nostra professoressa di tedesco.

La seconda e più importante, che saremo diventati tutti "pionieri".

Dopo pochi giorni tranquilli all'inizio, giorni in quali ci siamo di nuovo abituati con la scuola, abbiamo cominciato ad imparare tante cose nuove tutti i giorni. Una più bella dell'altra, una più interessante dell'altra.

Tutto bellissimo, non mi annoiavo mai.

Poi, un giorno, la maestra ci ha detto che dovevamo cominciare i preparativi per diventare pionieri.

La prima cosa, ci ha dato su un foglio di carta, una poesia da imparare a memoria ed ogni giorno, dopo le ore in qui si studiava, restavamo tutti insieme a scuola, nella nostra aula, ancora per un’ora.

Dovevamo prepararci bene.

Abbiamo imparato anche la musica di quella poesia.

Era l’inno nazionale del paese.

Abbiamo imparato tanti altri movimenti da fare tutti all'interno della nostra aula. Uscire dai banchi ed andare d'avanti alla lavagna uno per volta, dove poi in gruppo, c'erano da fare altre cose tutti insieme ed alla fine, quel saluto che avevo già visto alla cerimonia di premiazione.

Tutto, per far vedere quanto eravamo bravi, alla compagna comandante istruttrice dei pionieri che veniva ospite nella nostra classe.

Dopo qualche settimana di preparativi, la nostra maestra ci ha detto che il giorno dopo, sarebbero stati fatti pionieri la metà di noi, scegliendo quelli con i risultati migliori nel anno scolastico passato. Ci ha spiegando che doveva fare cosi, perché alla cerimonia dovevano venire anche i genitori e non c'era posto per tutti insieme nella nostra aula.

Era per la prima volta che dentro sentivo nello stesso momento gioia, ma anche qualcos'altro.

Una cosa mai sentita prima.

Una cosa che toglieva un po' di quella gioia e mi faceva fare tante domande parlando me con me. Tra tutte queste domande, c'era una più forte che non si fermava mai, mi girava in continuazione nella testa.

Avevo anche due risposte, ma non sapevo quale era quella buona.

< Andava bene fare come ha detto la maestra, oppure sarebbe stato meglio senza i genitori, ma tutti noi colleghi insieme, nello stesso giorno? >

Senza sapere quale era la risposta giusta, è arrivato il giorno in qui, sono andato a scuola, vestito con i pantaloni della divisa ed intorno una cintura abbastanza larga fatta per quei momenti, la camicia bianca ed il basco bianco sul capo.

Appena arrivato, nella nostra classe, c'era aria di grande festa.

Tutti i genitori, uno per ogni bambino, si sono seduti in fondo al' aula e noi, i primi diciotto della classe, nei banchi d'avanti.

Ognuno aveva d'avanti a sé, un bel garofano rosso per la compagna comandante istruttrice.

Era tutto molto bello, ma non sentivo la stessa gioia, la stessa serenità, la stessa leggerezza, come alla cerimonia di premiazione dell'anno passato. Forse era perché avevamo dovuto preparare tutto molto bene, in tanti giorni di lavoro. Forse perché, non eravamo tutti noi colleghi insieme. Forse perché la mia bella maestra mi sembrava meno bella e più preoccupata. Forse perché anche i genitori sembravano meno sorridenti.

Forse tutto insieme.

All'improvviso, ho cominciato a chiedermi, se quella sarebbe stata la giornata delle tante domande senza risposta, perché mentre mi stavo dando un bel d'affare a trovarle, ho sentito dal corridoio il suono delle trombe, come quello della premiazione.

La cosa nuova, ma anche molto curiosa, era che tutti i grandi, sembravano diventati in quel momento, meno sereni.

Forse più rigidi.

Non avevo più tempo per fare domande.

La porta della classe si è aperta e sono entrati i due ragazzi che suonavano le trombe.

Dietro a loro, un ragazzo ed una ragazza che portavano: uno, la bandiera tricolore del paese e l'altra, la bandiera rossa dei pionieri. Dietro a loro, uno di fianco all'altra, due ragazze ed un ragazzo.

Tutti erano vestiti da pionieri, ma gli ultimi tre, avevano un filo blu, mai visto prima.

Partiva dalla spala sinistra e dopo che scendeva quasi fino alla cintura, faceva una curva molto ampia e molto bella, salendo fino al bottone del taschino sinistro, sul petto della camicia. Quello della ragazza in centro era più scuro e quelli della ragazza e del ragazzo ai suoi fianchi, erano più chiari.

Sembravano i grandi comandanti nei film di guerra.

Alla fine è entrata nella classe una donna quasi anziana e non bella.

L'avevo vista una sola volta, dietro al grande tavolo alla cerimonia di premiazione dell'anno passato. In mano aveva una cosa, come un grande vassoio, su quale erano messi con tanta cura, quei fazzoletti rossi con il bordo tricolore.

Le nostre cravatte da pionieri.

Quando la compagna comandante istruttrice ha posato sulla cattedra il suo vassoio, le trombe si sono fermate.

Lei ha salutato tutti e subito dopo, ha cominciato a parlare, dicendoci che i tre con il filo blu, erano: il comandante ed i due vice comandanti dei pionieri per la nostra unità, cioè, la nostra scuola. Spiegandoci poi, che in quel giorno, anche noi diventavamo pionieri.

Pionieri, che sono la forza e l'orgoglio per il futuro del paese.

Da quel giorno diventavamo più grandi e dovevamo essere ancora più bravi nello studio e più responsabili in tutto quello che facevamo. Dovevamo cominciare a servire il nostro paese come pionieri, in tutte le nostre attività.

Poi ha dichiarato aperta la cerimonia del nostro ingresso nelle fila dei pionieri.

Mentre uno dopo l'altro, in ordine alfabetico, siamo andati d'avanti alla lavagna e la compagna comandante istruttrice metteva ad ognuno la cravatta intorno al colo, anche se ero molto attento e presente in tutto quello che succedeva, il mio cassetto dei pensieri e domande, senza chiedermi il permesso si è aperto di nuovo.

Da una parte c'era molta emozione, perché, entravo nelle fila dei pionieri della nostra scuola ed ero molto contento.

Da l'altra parte, mi sembrava di vivere un qualcos'altro che non mi lasciava ad essere contento del tutto.

Non sapevo bene cosa, ma forse era quella comandante istruttrice che in tutto quello che faceva e diceva, era molto seria e molto decisa.

Forse anche troppo.

Fredda.

Rigida.

Quasi aggressiva.

Mentre ero in mezzo a tutto questo, ho sentito il mio nome.

Sono saltato in piedi ed i miei pensieri sono finiti non lo so dove.

Con decisione e sicurezza, così come ci aveva insegnato la nostra maestra, ho fatto i pochi passi e quando la maestra compagna comandante si è piegata per mettermi intorno al colo la mia cravatta, ho visto che oltre ad essere anziana, era anche non bella. Non mi piaceva.

Mi chiedevo perché il suo viso era cosi dipinto.

Le sopracciglia, le palpebre, le guance ed anche le labbra.

In quel momento ero fiero di diventare pioniere, ma non vedevo l'ora di andare subito vicino ai miei colleghi, allontanarmi da lai e di tutte le cose che mi ha detto, ho capito soltanto che dovevo essere "degno".

Mentre facevo attenzione per rispettare tutti i movimenti da fare d'avanti a lei: dal saluto da pioniere, a darle la mano e ringraziarla promettendo di essere sempre pronto per servire quando mi veniva chiesto, darle il garofano, fare dietro front ed andare al mio posto nella nuova formazione, mi sentivo come spinto da un qualcosa per fuggire via da lei.

Prima possibile.

Pochi momenti dopo aver messo intorno al collo, la cravatta all'ultimo bambino, aver consegnato alla nostra classe la bandiera tricolore del paese e quella rossa dei pionieri, con la scritta gialla < Sempre Avanti > che era il saluto dei pionieri, per la prima volta, tutti insieme, abbiamo cantato l'inno nazionale. Subito dopo, la maestra compagna comandante ha dichiarato chiusa la cerimonia, andando via nello stesso modo come era venuta.

Quando la porta della classe si e chiusa, è cominciata la festa.

La nostra maestra ha cominciato a baciarci uno ad uno.

La formazione ordinata non c'era più.

Tutto era più tranquillo ed anche i genitori che fino in quel momento sembrava che stavano lì senza muoversi e neanche respirare, li vedevo di nuovo come li ho sempre visti.

Come li conoscevo.

Si sono avvicinati a noi, per abbracciarci e baciarci ed in quel momento si sentiva forte la festa.

I dubbi che mi erano venuti prima, se mi piaceva ancora diventare pioniere, erano svaniti tutti, perché in quel momento ero felice di esserlo. Poi, quando tutti insieme, uno ad uno, con i genitori, da soli, con e senza la maestra, abbiamo fatto le foto, ho anche visto che eravamo tutti molto beli vestiti da pionieri.

Più luminosi.

La festa si sentiva ancora di più.

Andando verso casa, insieme ad altri colleghi che vivevano vicino ed i loro genitori, ci siamo fermati alla confetteria, per concludere la festa con dei bei dolci e succhi di frutta, fatti lì, nel loro laboratorio.

A poche settimane distanza, dopo che tutti i bambini della classe erano diventati pionieri, la maestra ci ha detto che un giorno dovevamo fermarci dopo scuola, al meno per un’ora.

Per fare le elezioni nella nostra classe.

In quel periodo, ci sono state così tante cose nuove, così tanti comportamenti nuovi belli e meno belli e così tante parole sentite per la prima volta e tutto in così poco tempo, che ho deciso di smettere a fare domande ai grandi su ogni cosa e scoprire tutto al modo mio.

Nel giorno in qui la maestra ci ha detto di andare a scuola vestiti da pionieri il giorno dopo, perché c'erano le elezioni, ho soltanto obbedito, aspettando con curiosità, ma senza entusiasmo di vedere cosa doveva succedere.

Dopo scuola, nella nostra aula, ci siamo preparati e stavamo aspettando gli ospiti.

Dovevano venire ragazzi delle medie insieme alla loro dirigente della classe. Mentre li stavamo aspettando, la maestra ha messo bene in vista, d'avanti alla lavagna, le due bandiere della nostra classe.

Quando la porta si è aperta, in modo molto ordinato, sono entrati i due porta bandiera con le due bandiere della loro classe, tre ragazze, due ragazzi e dietro a loro, la dirigente della loro classe.

Dopo che la loro dirigente ha posato sulla cattedra il grande vassoio che aveva in mano ed i ragazzi si sono sistemati d'avanti alla lavagna in una specie di formazione, tutti insieme abbiamo cantato l'inno nazionale, poi, la dirigente ha dato loro il commando di riposo. In quel momento ho visto che tutti, avevano un filo che scendeva dalla spala sinistra al taschino della camicia, uguale come forma ai tre visti, quando siamo stati fatti pionieri, ma di colori diversi.

Uno, era giallo e quattro erano rossi.

I ragazzi venuti, hanno cominciato a spiegarci che la nostra classe si doveva organizzare ancora di più per poter dare risultati sempre migliori nello studio e nel lavoro.

Per farlo bene, doveva essere organizzata in quattro gruppi.

Ogni gruppo avrebbe avuto il suo comandante e tutti i gruppi, sarebbero stati guidati dal comandante della classe, della nostra piccola unità.

I ragazzi appena venuti, erano i compagni comandanti dei gruppi ed il compagno comandante della loro classe.

La dirigente aveva portato sul vassoio, i figli colorati da consegnare ai futuri compagni comandanti della nostra classe.

Non riuscivo a comprendere perché dovevamo organizzarci ancora di più.

Noi stavamo bene insieme cosi e nessuno aveva mai litigato con nessuno.

Eravamo amici.

Giocavamo insieme e da poco tempo avevamo anche saputo che l'anno prima siamo stati la seconda migliore classe come risultati nello studio, tra le otto classe della prima elementare. Eravamo obbedienti alla nostra maestra che poche volte si è dovuta arrabbiare con noi. Per me andava tutto bene cosi e non mi piaceva quella cosa di formare quattro gruppi.

Non sapevo come si doveva fare, ma per me, quattro gruppi, voleva dire non più un gruppo solo.

Voleva dire divisione.

Come quasi sempre in momenti così, i miei pensieri si fermavano soltanto quando erano interrotti da qualcuno.

La dirigente ha ripreso a parlare, dichiarando aperta la cerimonia delle elezioni.

Ci ha spiegato che dovevamo già cominciare a scegliere il comandante del primo gruppo e che per farlo dovevamo seguire la "procedura" che usavano tutti.

Noi piccoli, dovevamo proporre tre nomi di nostri colleghi, poi, per ognuno si votava alzando la mano. Una sola volta, per il proprio preferito.

Abbiamo ripetuto la stessa cosa e quando i quattro compagni comandanti di gruppo erano scelti, sono andati d'avanti alla classe per ricevere quel filo rosso dalla dirigente.

Tra i quattro scelti, c'ero anch'io.

Ero il compagno comandante del primo gruppo.

Quando la dirigente, mi ha messo il filo rosso alla spallina della mia camicia e poi lo ha attaccato al bottone del taschino sinistro, dentro mi sentivo fiero e molto contento dei miei risultati, ma subito dopo, i miei pensieri si sono fermati, perché ho dovuto dare la mano e salutare, con il saluto dei pionieri, la compagna dirigente.

Quel saluto come da soldato, ma con la mano d'avanti alla fronte, senza toccarla.

Mentre lei faceva la stessa cosa con gli altri miei amici scelti, ho potuto guardare con attenzione quel filo rosso.

Il colore era molto bello, intenso e profondo.

Come il sangue.

Non era un filo, ma un cordone di seta.

Erano intrecciati tre fili più fini e l’ho capito perché al lavoro manovale, avevamo appena imparato a intrecciare con tre fili. Alla fine della parte bassa, dopo l'aggancio al bottone del taschino, due dei tre fili, scendevano per qualche centimetro e finivano con due palline molto dure che sembravano le ghiande che piacevano tanto ai maiali dei nonni. Anche loro rivestite di seta.

Appena finito con il compagno comandante del quarto gruppo, la nostra maestra, ha cominciato a chiamare per nome uno ad uno, tutti gli altri nostri colleghi ed ognuno si metteva dietro al comandante di gruppo scelto dalla nostra maestra. Quando tutti i banchi erano vuoti, la compagna dirigente ci ha detto di fare altre tre proposte, per scegliere il compagno comandante di classe. Dopo che tutti noi, in piedi ed in formazione d'avanti alla lavagna, abbiamo votato le proposte fatte, non riuscivo a credere quello che avevo appena sentito.

Avevano scelto me.

La compagna dirigente, mi ha tolto il cordone rosso appena messo, ed al posto suo, mi ha messo quello giallo.

Poi e stato scelto un nuovo comandante di gruppo al mio posto.

All'improvviso, è diventato tutto bellissimo.

Mi sembrava quasi una ripetizione della premiazione del primo anno di scuola.

Quella bellissima cerimonia, dove tutto il mio lavoro, veniva riconosciuto.

Veniva ripagato.

Avrei avuto voglia di volare per festeggiare bene.

Avrei voluto gridare al mondo, al mio mondo, quanto ero felice.

Avrei voluto ringraziare uno ad uno tutti i miei amici che mi hanno votato ed ancora di più a chi mi ha proposto, ma subito dopo, la compagna dirigente, ha cominciato a parlarmi dei miei doveri come comandante della nostra classe.

Tutto è diventato di nuovo molto serio.

Cosi serio, che non mi ricordavo più quale era la ragazzina che ha proposto il mio nome.

Dopo che la nostra maestra, ha nominato un ragazzino ed una ragazzina, come porta bandiera della nostra classe, abbiamo cantato tutti insieme l'inno dei pionieri che nel fra tempo avevamo imparato, poi, la compagnia dirigente ha dichiarato chiusa la cerimonia e con i suoi allievi, sono andati via.

Non vedevo l'ora, perché ero convinto che subito dopo, saremo andati via anche noi ed avrei potuto far' vedere a tutto il mondo, a tutto il mio mondo, quanto di bello mi era successo in quel giorno.

Far' vedere ai miei genitori il cordone giallo e bello come il sole nei giorni d'estate.

Purtroppo non è successo subito, perché la nostra maestra, dopo che ci ha mandati nei banchi, ha cominciato a parlarci dei nostri doveri, come comandanti, soprattutto quello della classe.

Delle nostre responsabilità nei confronti di tutti.

Prima di tutto, dei nostri colleghi meno bravi nello studio, nei confronti dei nostri colleghi che avevano più problemi e di tutto quello che avremo dovuto fare per la nostra classe, la nostra scuola, la nostra città ed il nostro paese.

Tutti ancora più uniti da quel giorno in poi.

Ci stava parlando del piano economico, lavoro volontario e tante altre cose nuove che in quel momento non sapevo che cos'erano. Non sapevo come avremo dovuto e potuto fare tutto, perché erano cose di qui sentivo parlare per la prima volta nella mia vita.

Non ero molto attento a quello che ci raccontava, perché mi incuriosiva molto di più un'altra cosa.

Quello che ci stava raccontando, di sicuro lo avrei scoperto, conosciuto e capito bene, quando arrivava l'ora di fare tutte quelle cose.

Mi incuriosiva lei ed ero molto attento a questo.

Era per la prima volta che la nostra bella maestra ci parlava di quelle cose ed in quel momento, non lo so perché, era diventata meno bella. La pace e la tranquillità che sentivo sempre con lei, non c'erano più ed ascoltarla, era meno interessante del solito.

Non capivo perché succedeva.

Appena ha finito e dopo averci salutato a noi comandanti, dandoci la mano, ho deciso che a tutto quello avrei pensato in un altro momento, perché volevo che niente e nessuno doveva disturbare quei miei momenti di immensa soddisfazione.

Gioia e felicità.

La strada fino a casa, con gli amici insieme a quali si camminava sempre, è sembrata più corta del solito.

D'avanti al ingresso del condominio, sulle grosse panchine, come spesso capitava nelle giornate belle, soleggiate e luminose come quella, c'era della gente. Sono rimasto molto contento, felice, quando i grandi si sono congratulati con me, per il mio cordone, dicendomi che: < Ero appena diventato motivo di orgoglio, per il nostro condominio. >

Era una cosa molto bella ed importante, che in così poco tempo, da un bambino rumoroso e vivace come tutti gli altri, ero diventato un rappresentante importante del condominio. Mi faceva molto piacere sentirli mentre me lo stavano dicendo, ma non vedevo l'ora di poter parlare anch'io.

Ringraziare tutti loro per quelle belle parole, ma soprattutto, per salutare ed andare via subito.

Volevo arrivare a casa dai miei genitori perché, volevo condividere prima di tutto con loro la mia grande gioia.

Il grande risultato.

Erano loro i primi a qui volevo dare quella grande soddisfazione.

Parlare prima con altre persone, mi sembrava quasi di fare un torto ai miei genitori.

Quando la porta di casa si è aperta e dietro è comparsa mia mamma, prima di dirle qualcosa ed ancora prima di salutare, mi è bastato vedere la sua faccia, per capire quello che succedeva dentro di lei.

Dopo avermi abbracciato, era arrivato il turno di mio padre.

Mentre mi abbracciava dolcemente forte, mi ha detto che mai nella nostra famiglia allargata, a nessuno aveva toccato questo onore.

Ero felicissimo.

Non lo so se erano i momenti più felici della mia vita, ma di sicuro, erano i più importanti.

Era per la prima volta, che i risultati del mio lavoro, dei miei sacrifici, oltre ad essere premiati dandomi soddisfazione personale, venivano riconosciuti da tutti.

Davano tanta gioia ai miei genitori.

Vedevo che erano molto fieri di me e capivo che per la prima volta, avevo portato anch'io, un qualcosa per la nostra famiglia.

Un qualcosa in più, che faceva stare meglio tutti.

Ero molto felice per i miei genitori.

Molto fiero e molto contento di me.

Vedevo che tutto, sembrava quasi più importante del primo premio che avevo preso l'anno prima e non riuscivo a capire perché. Quello che stava succedendo, quello che stavo vivendo, mi ha aiutato a dimenticare in fretta i momenti che non mi sono piaciuti, quelli che non mi hanno fatto stare non bene durante la cerimonia.

Dopo essere rimasto ancora un po' vestito con la divisa da pioniere per farmi vedere bene dal mio papà, come lui mi ha chiesto, mi sono svestito prima di sporcarmi. Invece di metterla nell'armadio come facevo di solito, l’ho messa con tanta cura su una sedia, per farla vedere bene anche al mio fratello appena tornava dalla scuola, poi, come sempre, non vedevo l'ora di cominciare a fare i miei compiti.

In quel giorno però, oltre a farli bene, volevo farli più in fretta, per poter scendere prima e raccontare ai miei amici del condominio, quanto di bello mi era successo a scuola.

Stavo quasi finendo i compiti, quando il campanello di casa ha suonato.

Era uno dei miei amici.

Mi chiamava perché, avevano già organizzato una partita di calcio con la squadra di un altro condominio.

Ho avuto il tempo che mi serviva per finire bene il mio lavoro e mi sarebbe bastato anche per raccontare prima della partita a tutti, le mie belle novità.

Appena sceso, non ho fatto in tempo a raccontare niente.

È stata una bellissima sorpresa vedere che i miei amici, tutti insieme avevano già deciso una cosa molto importante.

Da quel giorno in poi, sarei stato il capitano della nostra squadra.

Sapevano già tutto.

Era la giornata delle grandi soddisfazioni, ma anche dei grandi dubbi.

Non sapevo come facevano a sapere già tutto, ma la loro decisione era un bel segno di amicizia ed è stato ancora più bello che appena arrivata l'altra squadra, lo hanno fatto sapere a grande voce e con tanto entusiasmo anche a loro. Subito dopo, sul nostro “Maracana” in terra rossa, è partita la nostra “Finale Mondiale”.

"Una battaglia epica."

Correre è lavorare per la squadra mi piaceva tanto, ma in quel giorno mi sembrava di volare. Diventavo sempre più sudato ed in mezzo al polverone di terra rossa alzato da noi stessi, la mia pelle diventava sempre più appiccicosa e sporca, ma nessuno di noi aveva la più piccola intenzione di mollare niente, correre meno in quel' incontro, o risparmiarsi in quella forte battaglia.

Nessuno voleva fermarsi mai.

Neanche quando qualcuno di noi cadeva sbucciandosi le ginocchia, i gomiti, i palmi delle mani ed il rosso molto vivo del sangue, si mischiava con la polvere scura ed appiccicosa sulla pelle.

Oppure quando qualche donna con le borse della spesa, per fare meno strada tagliava in diagonale il nostro campo, invece di andare sul marciapiede intorno e veniva centrata in pieno con il pallone.

Vincere “la finale del nostro mondo", era l'unica cosa che contava.

Ogni volta.

Era molto più importante che lamentarsi per delle piccole ferite, o ascoltare le imprecazioni di un adulto che comunque aveva torto, perché era lui ad aver appena invaso il nostro territorio.

Alla fine, ero ed eravamo pieni di tante soddisfazioni.

Per la nostra vittoria.

Perché avevo fatto più gol di tutti.

Ma la più grande in assoluto era un'altra.

Quella di portare intero a casa, il nostro pallone, perché, non poche volte finiva sotto le ruote di qualche macchina, nel corso non molto lontano, dietro ad una delle due porte.

Il sole aveva cominciato a scendere e pensavo che per me, quello era stato il giorno più movimentato, bello e felice della mia vita.

Il giorno perfetto.

Non potevo sapere che la ciliegina sulla torta, doveva ancora venire.

Mentre tutti insieme, ci stavamo facendo i nostri conti di come e quanto era andata bene la nostra partita, è arrivato il gruppo dei ragazzi più grandi del nostro condominio. Stavano tornando dalla collina, dove erano andati a giocare tutti insieme.

Come sempre.

Era un posto di qui parlavano tanto e tutti.

La vedevo al di là del corso, dalle nostre finestre, ma non ero mai andato sulla collina.

Ero ancora troppo piccolo.

Alcuni di noi, parlando quasi tutti insieme, hanno cominciato a raccontare anche a loro, mentre erano ancora abbastanza lontani, di come era andata la partita, chi ha fatto i gol e chi è stato il migliore e tutte le altre cose per una cronaca completa.

In quel momento per me, è arrivata la soddisfazione più grande di tutta la giornata.

I grandi si congratulavano con me per tutto ciò che di bello ed importante mi era successo in quel giorno.

Essere riconosciuto subito e rispettato per i miei meriti dal gruppo dei grandi, che erano molto uniti ed avevano la squadra di calcio più forte della zona, per me era la cosa più importante di sempre.

Sentirli dire che sono fieri di essere miei amici, mi stava quasi facendo volare fino al sesto piano dove abitavo.

Non ero più riconosciuto perché fratello del mio fratello più grande e loro amico, ma per quello che ero.

Mi ero fatto strada da solo.

Per i miei meriti.

Il mio lavoro ed i miei sacrifici venivano ripagati.

Era tutto splendido e quella era la mia vera soddisfazione, la più grande di quel giorno.

Forse di sempre.

Mi ha subito aiutato mia mamma a restare per terra, quando all'improvviso l’ho vista non molto lontana e mi diceva che anche quella sera, avrebbe dovuto mettermi nella lavatrice perché, ero sporco come un minatore.

Per me, forse sarebbe stato molto meglio, perché l'acqua calda non arrivava a tutte le ore del giorno.

Tante volte, anche quando le ore erano giuste, quelle decise dal programma di distribuzione, ai piani più alti, non arrivava ed in quei momenti, come in quella sera, mia mamma riscaldava l'acqua sulla cucina in un immenso pentolone che poi diluiva con acqua fredda nella vasca da bagno.

Non era tanta ed il mio corpo non riusciva a stare tutto sotto l'acqua.

Questo non mi piaceva e non mi faceva stare bene, ma di estate era molto meglio che nei giorni molto freddi d'inverno.

Poi, alla fine di quel giorno così importante della mia vita, andava bene tutto.

Le giornate passavano lente e tranquille.

Ero molto contento, perché a scuola, ogni giorno imparavo qualcosa di nuovo. Tutte cose molto interessanti che assorbivo senza neanche respirare. Mi piacevano moltissimo perché, erano conoscenze sempre più complesse ed aumentavano il mio sapere in ogni momento. Poi, a casa, da solo, facendo i compiti in totale pace, tranquillità, serenità e silenzio, riuscivo ad approfondire ancora meglio, al modo mio.

I voti erano sempre molto buoni.

A casa andava tutto molto bene.

Per i miei amici ero sempre più la loro guida, il loro leder.

Vivevo da beato.

Nel giorno in qui la maestra è entrata nella classe con in mano un piccolo bigliettino di carta che poi me lo ha dato, mi ha messo tanta confusione, perché, era per la prima volta che faceva un gesto cosi, nei confronti di un suo allievo.

Mi ha detto abbastanza decisa, di leggere bene tutto e di fare quello che era scritto.

Era un biglietto scritto, firmato e timbrato dalla compagna comandante dei pionieri per la scuola.

Informava i compagni comandanti delle classi appena entrati nelle fila dei pionieri, di essere invitati al primo incontro con tutti i compagni comandanti delle classi di tutta la scuola.

Sotto la sua guida.

Sembrava molto interessante e mi incuriosiva molto.

Era una cosa nuova, poi il fatto di stare insieme a tutti i più grandi della scuola, mi incuriosiva ancora di più. Di sicuro, avrei potuto imparare qualcosa di nuovo.

Non mi piaceva affatto tutto il resto perché l'incontro, si doveva svolgere fuori dagli orari di scuola.

Nel mio tempo libero.

Quando è arrivato il giorno, sono andato davanti ad una porta che fino in quel momento, da quando ero nella scuola, avevo sempre visto chiusa e più di una volta mi ero chiesto: "cosa c'era dietro".

Arrivavano sempre più compagni comandanti di classe ed a parte i miei altri sette coetanei, tutti erano più grandi. Più venivano, più mi sentivo piccolo, senza che nessuno dei grandi faceva qualcosa per farmi sentire in quel modo. Forse mi capitava, perché vedevo tutti con dei comportamenti quasi da grandi.

Molto seri, freddi, quasi rigidi.

Appena arrivata la compagnia comandante, ha aperto quella porta e finalmente siamo entrati.

Era una specie di aula, molto diversa da tutte le altre aule della scuola, ma molto più piccola.

Forse la meta ed era più lunga che larga.

Per terra, sui due lati lunghi, dall'ingresso e fino in fondo, quasi fino alle finestre, c'erano porta bandiere riempiti tutti da bandiere.

Messe in ordine: una tricolore del paese ed una rossa dei pionieri.

Erano moltissime e facevano quasi fermare il cuore appena entrati.

D'avanti alle bandiere, una di fronte al' altra, due fila di sedie su quali ci siamo seduti tutti noi. Mi sedevo per la prima volta nella mia scuola, su una sedia e non in un banco. In fondo alla camera, con le spalle verso la finestra, si era appena seduta dietro ad una scrivania abbastanza grossa, la maestra compagna comandante. Purtroppo, in quella giornata luminosa, con tutta la bella luce che entrava nella camera dalle grosse finestre, non riuscivo neanche a vederla e questo mi infastidiva non poco.

Capivo soltanto che li seduta, c'era una persona.

Non ho fatto in tempo a vedere altro, perché si è alzata in piedi ed ha "dichiarato aperti" i lavori di quella assemblea.

Dopo aver cantato l'inno nazionale del paese, la compagna comandante pioniera per la scuola, quella con il cordone blu, ha preso la parola.

Hanno accolto tutti noi piccoli, che eravamo lì per la prima volta, con un applauso da parte di tutti.

Poi ci ha spiegato che in tutte le foto grandi e piccole sui panelli rossi attaccati fino al soffitto sulle pareti, sopra le due fila di bandiere, in modo disordinato ma bello da vedere, erano tutti compagni pionieri piccoli e grandi, di qui la nostra scuola andava molto fiera. Erano vincitori delle “Olimpiadi dello Studio” al livello cittadino, regionale e nazionale. Vincitori di concorsi interscolastici. I migliori nel portare a buon fine il lavoro di raccoglimento del piano economico. I più intraprendenti nel lavoro volontario ed i migliori nelle gare sportive.

A parte le gare sportive e qualcosa sul lavoro volontario – perché avevo sentito i miei genitori quando siamo andati insieme a lavorare per il nuovo stadio -, tutte le altre, erano per me parole e cose nuove che non avevo mai sentito prima.

Di quello che sentivo, non capivo nulla.

Sapevo di essere tra i più piccoli, ma nella mia classe ero il più bravo nello studio. Quando parlavano le persone grandi, riuscivo a capire cosa si dicevano, ma in quei momenti, all'improvviso, per la prima volta nella mia vita, non capivo niente, neanche una parola, di quello che si stava parlando.

Sembrava che parlavano tutti in un'altra lingua.

Mi chiedevo se non capivo perché ero stato troppo superficiale nello studio e quelle cose mi erano sfuggite, se ero troppo poco preparato, oppure mi stavo scoprendo semplicemente scemo.

< Ma se lo ero per davvero, lo erano anche tutti i miei amici che mi hanno votato, la nostra maestra ed anche la dirigente che hanno permesso quello sbaglio? >

Le cose andavano sempre peggio, perché quando la compagna comandante con il cordone blu, ha finito di parlare e la maestra compagna comandante ha cominciato a fare domande ai compagni più grandi, che avevano il cordone giallo come il mio, loro rispondevano con sicurezza, tanta decisione e dando tante cifre.

Come delle persone molto più grandi della loro età e molto ben preparate.

Con la voce molto forte e decisa.

Molto sicuri di loro.

Finiva uno e cominciava un altro.

Più parlavano, più mi chiedevo: < Cosa avrei risposto se chiedeva a me? >

Doveva essere un giorno bello e molto importante. Lo avevo immaginato come quando i ragazzi grandi del condominio mi hanno riconosciuto loro amico per i miei meriti, ma in quei momenti, la grande curiosità dell'inizio, si è trasformata in domande, le domande in preoccupazioni, le preoccupazioni in insicurezza e l'insicurezza, stava diventando sempre più, paura.

Era per la prima volta nella mia scuola tanto amata, che non stavo più bene.

L'unica cosa che desideravo era di uscire da quella camera, dalla scuola e fuggire con tutte le mie forze subito a casa.

Nella mia cameretta.

Al mio tavolo dove facevo i compiti.

Li dove stavo sempre bene.

Quando gli unici rimasti senza essere interrogati eravamo noi piccoli, la maestra compagna comandante, si è fermata nel fare quelle domande strane ed a noi ci ha soltanto chiesto se avevamo visto: < Quanto erano stati bravi i nostri compagni più grandi nello svolgere il loro compito come compagni comandanti di classe >.

Nessuno di noi piccoli ha aperto bocca.

Non aver fatto anche a noi quelle domande strane, mi ha fatto sentire un po' meno la forza di quella paura ed anche se ho capito molto bene la domanda che ci aveva fatto, era per la prima volta da quando andavo a scuola che non volevo rispondere alla domanda di una maestra,

Di questo ero convinto.

Avevo già deciso che quello era il giorno più brutto della mia vita e la causa, era soltanto lei.

La maestra compagna comandante, perciò, non volevo avere nulla a che fare con lei.

Subito dopo, ci ha spiegato che avendo visto come si doveva svolgere un'assemblea, nello stesso modo, avremo dovuto organizzare le assemblee nelle nostre classe, per informare i nostri compagni pionieri su quanto si era detto li.

In quel momento, la paura è diventata terrore, perché non ricordavo più nulla di tutte quelle cose.

Come erano state fatte, di cosa si era parlato e mi chiedevo se sarei stato capace di organizzare l'assemblea della nostra classe.

Subito dopo, ci ha detto che voleva venire nel nostro aiuto e ci ha dato dei fogli scritti, con "l'ordine del giorno".

L’ho messo con tanta cura nella mia borsa dentro un libro, perché sapevo che mi sarebbe servito, ma all'aiuto di quella persona che vedevo per la seconda volta nella mia vita, non ci credevo più.

Quando ha dichiarato chiusa l'assemblea e tutti insieme abbiamo cantato l'inno dei pionieri, è stato l'unico momento che mi è piaciuto di tutto quello incontro.

Nell'attimo dopo, ero già fuori.

Mentre camminavo da solo, pensavo che i miei amici erano già a casa, da più di un'ora.

Ero stato lì, dal mio tempo libero e come risultato, non vedevo niente di buono.

Era per la prima volta che sentivo delle cose che non conoscevo e che insieme alla paura di prima, facevano muovere tutto dentro me, in modo strano.

Un disordine totale.

Nella testa avevo un sacco di domande che venivano tutte insieme. Mancavano però le risposte ed in più, la pace e la tranquillità che tanto amavo, in quei momenti, mi chiedevo se mai le avrei ritrovate.

Appena entrato in casa, prima ancora di togliermi le scarpe e la divisa da pioniere, i miei genitori, senza neanche guardarmi, mi facevano un sacco di domande in modo allegro, scherzoso, vivace ma tranquillo, su come era andata la mia prima assemblea da "grande capo", insieme agli altri grandi capi della scuola.

Sembrava quasi che mi prendevano in giro.

Silenzioso e senza rispondere, sono andato a svestirmi.

Quando vestito da casa sono ritornato in cucina per mangiare, ho visto che all'improvviso hanno smesso di farmi domande sull'assemblea e dopo un attimo di silenzio, mio papà mi ha chiesto se volevo andare con lui sulla collina dove andavano a giocare i ragazzi grandi del condominio.

Aveva voglia di camminare un po' e non li andava di farlo da solo.

Soltanto in quel momento ho cominciato a rivedere che fuori era una bellissima giornata serena ed ancora molto luminosa, anche se autunno. Dentro di me, al' improvviso, sembrava che quel grande disordine che si muoveva in continuazione, cominciava a fermarsi, lasciando il posto alla tranquillità. In quei attimi, ho capito che anche il mio corpo tornava piano, piano ad essere meno rigido, caldo e vivo.

Piano, piano e finalmente dopo un po', cominciavo a vedermi e sentirmi come mi conoscevo.

Sarebbe stato per la prima volta che andavo sulla collina.

Mi è bastato, per far ritornare in me la vita.

Quando ho provato a spiegare a mio papà che prima avrei avuto dei compiti da fare e lui mi ha risposto che aveva fiducia in me ed era sicuro che li avrei fatti tutti e fatti bene al nostro ritorno, l'ultimo pezzo di disordine ancora rimasto dentro me, è stato spazzato via da un'esplosione di entusiasmo, di gioia.

I piedi che prima sentivo pesanti come il piombo, erano diventati leggeri e pronti alla camminata e prima di dire, oppure sentire qualsiasi altra cosa ero nel' ingresso, d'avanti alla porta di casa, con le scarpe già ai piedi.

Pronto per partire.

Prima di uscire, mio papà ha soltanto preso nello sgabuzzino una cosa che sembrava un bastone, spiegandomi che era una piccozza da montagna.

Era per la prima volta che la vedevo.

Mi è subito piaciuta tanto.

Ha poi preso anche un piccolo borsellino da minatore, un po’ più grande di quello che avevo al' asilo, dicendo che era il periodo buono, per la maturazione delle noccioline selvatiche.

Siamo usciti.

All'improvviso, quello era appena diventato uno dei giorni più felici ed importanti della mia vita.

Quando d'avanti al condominio, qualcuno dei miei amici che era già sul nostro “Maracana”, mi ha chiamato a fare due tiri, con tanta fierezza ho risposto che non potevo, perché andavo con il mio papà sula collina dei ragazzi grandi.

Appena attraversato il corso, quasi subito, siamo scesi in una piccola vallata e dopo aver attraversato il letto abbastanza grosso del piccolo fiumiciattolo che passava di lì, abbiamo cominciato la salita. Una salita dolce, tranquilla e mentre la stavamo facendo, mio papà ha cominciato a farmi vedere e spiegare tante cose.

Dove si poteva camminare perché era la collina di tutti e dove non si poteva, perché apparteneva alle persone che abitavano nelle case all'ingresso della città.

Dove si poteva accendere un fuoco per fare alla brace delle buone patate oppure lardo di maiale affumicato, il cibo preferito dei montanari, e dove non si doveva mai accendere un fuoco.

Quale era il legno buono per fare gli archi, come quelli dei ragazzi grandi e quale era il legno buono per fare le frecce.

Dalle piccole fonti di acqua che ogni tanto vedevo uscire da sotto terra, da quale si poteva bere tranquilli e quali era meglio evitare.

Quale pianta, oppure foglie di alberi potevano andare bene per qualche cura naturale e per quale cura.

Era tutto bellissimo.

Stavo vivendo una lezione di "conoscenze della natura", in mezza alla natura e scoprivo in quei momenti quante cose nuove mi stava insegnando mio papà senza nessuna fatica.

Quante cose sapeva.

Ci siamo fermati in un grosso spiazzo.

La città si vedeva già dall'alto ed il rumore era rimasto lontano.

Eravamo su un bel prato ancora molto verde e molto morbido.

Intorno allo spiazzo, non molto lontani, c'erano tantissimi alberi dai più piccoli, a molto grandi. Riempivano tutta la collina e lo spettacolo che davano era splendido. Visto da vicino, era ancora più bello di quanto era quando lo vedevo dalla finestra della nostra cameretta.

Le loro chiome erano fatte di tantissimi colori.

Sembrava che tutti i tipi di verde ed alcuni di giallo erano scesi dal cielo e si sono posati sopra, per dipingerle. Verso l'alto della collina si vedevano tanti con delle chiome di un colore quasi rosso. Mentre il leggero vento passava, le loro foglie si muovevano tutte insieme nello stesso momento e nella stessa direzione in un modo tranquillo, molto delicato.

Era per la prima volta che sentivo il loro fruscio.

Il loro canto armonioso, portatore di pace.

Quando il leggero vento veniva verso di noi, anche se molto tranquillo, oltre aria più fresca, portava anche un bel po’ di foglie gialle piccoli e grandi che scendevano a terra leggere e tranquille come i fiocchi di neve.

Mentre respiravo a bocca chiusa ma a polmoni pieni, per poter assorbire tutti i profumi buoni che sentivo, per riempirmi più che potevo di quel' aria, mio papà mi spiegava che quella specie di sentiero molto, molto largo, quasi una strada, che partiva dal nostro spiazzo e salendo sulla collina, si perdeva in alto dentro la foresta, era il posto che d'inverno, con la neve, diventava la pista di slitta di tutta la nostra zona.

Cominciando a salire anche noi su quella che diventava d'inverno la pista delle slitte, sentivo l'erba corta sotto i piedi cosi morbida, che ogni tanto, mi sembrava quasi, di perdere l'equilibrio.

Era come camminare sopra un morbido e spesso tappetto persiano della migliore qualità.

Mi sembrava di essere entrati, nel regno della natura e che lei, ci aveva dato gratuitamente e con tanta generosità il permesso di farlo, per poterci gustare da vicino tutto.

I suoi colori, profumi, suoni.

Tutta la sua vita.

Di dentro, in un modo tranquillo e naturale, sentivo che l'unica cosa da offrire in cambio come ringraziamento a tutta quella ricchezza, a tutto quello che ci donava e ci permetteva di vivere, era il mio più profondo rispetto per lei.

Per la natura.

La mia testa non si fermava mai, perché a destra, a sinistra, su e giù, c'era sempre qualcosa di nuovo, di bello e di interessante da vedere. Anche se non lo guardavo sempre, sentivo molto bene la voce di mio papà che ogni tanto interrompeva il grande silenzio per insegnarmi come si doveva respirare, come si doveva camminare e cosa si doveva fare in alcune situazioni di difficoltà in montagna.

Mentre mi parlava, all'improvviso si è fermato e con la parte curvata della piccozza di montagna, dopo averla alzata, ha piegato con attenzione e senza spezzarla, una pianta non spessa, fino a portarmela quasi d'avanti al naso ed appena fatto, ho sentito la voce di mio papà, che mi diceva di guardare come erano belle le noccioline sui rami d'avanti a me.

Sembrava che soltanto in quel momento i miei occhi si sono aperti.

Ho visto attaccate alla pianta, tante coppie di noccioline di colore giallino, quasi bianco in dei gusci di un verde molto fresco.

Con l'aiuto di mio papà, che uno dietro l'altro piegava e poi rilasciava i rami delle piante, ho raccolto le noccioline finché abbiamo riempito la piccola borsetta che avevamo.

Dopo aver finito e senza aver fatto nessun danno alle piante, abbiamo ripreso il nostro cammino e quasi subito dopo, seguendo mio papà, abbiamo lasciato quella specie di largo sentiero, per andare in mezzo agli alberi. Entrati nella foresta, il canto delle piante era ancora più bello e forte.

Il profumo della foresta e di terra umida, me l'ho gustavo tutto e fino in fondo.

Ad ogni respiro.

Camminando, ho capito che si sentiva sempre più chiaro e sempre più vicino, come una voce fuori dal canto della foresta, un rumore non forte e molto delicato di acqua che scorreva.

In un piccolo spiazzo, da sotto una pianta, usciva dalla terra un bel filino di acqua.

Sembrava un filo di argento.

Dopo che toccava la terra e cominciava la sua discesa verso vale, ho visto che era cosi limpida e chiara da riuscire a vedere bene tutti i colori di tutte le cose sopra quali scorreva.

Mentre beveva, insegnandomi come dovevo fare, mio papà mi spiegava di bere piano, piano, perché era molto fresca, ma soprattutto per poter gustarla bene.

Appena toccata, mi è sembrato che le labbra, la lingua si erano subito congelate e stavano per rompersi.

Era così fredda che sentivo molto bene come scendeva dentro il mio corpo.

Cosi buona che l'avrei bevuta tutta.

Dopo aver bevuto, siamo usciti dalla foresta sullo stesso sentiero di dove eravamo entrati.

Appena fuori, mio papà, dopo aver alzato gli occhi verso il cielo, ha detto che era l'ora di prendere la via del ritorno, perché il sole, stava cominciando a prepararsi per "andare a dormire".

Arrivati d'avanti al condominio c'era tanta vita come sempre.

A tutti quelli che incontravo, piccoli e grandi, non vedevo l'ora di raccontare che ero già andato sulla collina dove giocavano i ragazzi grandi e con tanta fierezza, spiegavo anche le cose belle che ho visto, vissuto ed imparato.

Per dare subito la prova che era tutto vero.

I compiti, mi sono sembrati ancora più belli ed interessanti del solito.

Alla fine, ho anche avuto il tempo, ma soprattutto la voglia, di leggere i fogli su quali era scritto come dovevo organizzare l'assemblea di classe e quale era l'ordine del giorno di quella assemblea. Ho capito subito tutto, ma non volevo approfondire niente in quel momento. Non volevo disturbare quanto di bello ho avuto dalla vita in quel meraviglioso pomeriggio.

Volevo conservare tutto com'era.

Non potendo fermare il tempo, è arrivato anche il giorno in quale, dopo l'orario di scuola, ci siamo fermati nella nostra classe.

Era il giorno per l'assemblea dei pionieri.

Dopo aver dichiarata aperta l'assemblea, la mia maestra, mi ha chiamato d'avanti alla classe e mi ha dato la parola e farmi guidare tutto, come compagno comandante di classe.

Mentre stavo andando, lei ha preso la sua sedia che di solito stava dietro alla cattedra e si è messa nell'angolo più lontano.

Tra la lavagna e la finestra.

Sembrava quasi che non voleva intromettersi in quello che dovevamo fare.

Sembrava che non voleva far' parte.

Appena arrivato e girato verso i miei amici, in quei momenti, compagni pionieri, dentro ho cominciato a sentire cose mai sentite prima.

Ero già andato tante volte d'avanti alla classe, vicino alla lavagna.

Ogni volta per essere interrogato e non ho mai avuto paura, o problemi.

In quel momento era tutto diverso.

Era per la prima volta che guardavo in faccia, da quella posizione e nello stesso momento, tutti i miei colleghi.

Tutti i miei amici.

Erano tanti.

Vestiti tutti di bianco con la divisa dei pionieri, sembravano ancora di più.

I loro occhi e la loro attenzione che di solito erano sulla nostra maestra, in quei momenti, era su di me.

Le loro facce erano molto incuriosite, ma belle, tranquille e questo mi faceva stare anche a me più tranquillo.

Con la maestra non vicina, quasi assente e sapendo che mi ero preparato bene a casa da quei fogli che avevo letto più volte, abbastanza sicuro di me, ho cominciato a parlare.

Dopo le prime parole, ho visto che i miei compagni erano ancora più attenti a me e sembrava un gruppo ancora più unito, più compatto, soprattutto quando dicevo loro, “davo gli ordini”, su cosa e come dovevano fare, come la maestra compagna comandante aveva scritto.

Dal farli venire tutti d'avanti ai banchi vicino a me, prima i quattro comandanti di gruppo e poi uno alla volta, nell'ordine già deciso, tutti i compagni pionieri - ognuno dietro al suo comandante -, fino all'ingresso delle bandiere. Dal cantare l'inno nazionale del paese, all'ascoltare “il rapporto” di ogni comandante di gruppo al comandante della classe. Dal' ascoltare "in formazione", l’ordine del giorno della nostra assemblea, fino a “rompere le righe” e tornare in silenzio, ognuno al suo posto nel banco, per cominciare ad approfondire l'ordine del giorno.

Il primo punto di quel ordine del giorno, che stavamo già vivendo ed andava anche molto bene, era di imparare tutti insieme come si doveva svolgere un'assemblea.

Tutte le cose da fare.

Tutto il protocollo.

Il secondo era di spiegare che cos'era e come si doveva fare “I Piano Economico della classe”.

Quando a casa avevo letto questo punto, con tutte quelle parole nuove e che di solito non venivano usate dai bambini, subito non ho capito nulla. Dopo aver letto finché mi sono sentito sicuro di me, ho anche deciso senza dire o chiedere niente a nessuno, che nell'assemblea della classe, avrei spiegato tutte quelle cose ai miei amici, al modo mio.

Con parole che usavamo noi, per farmi capire bene da tutti.

Ero il loro comandante e mi sembrava giusto aiutarli a capire.

Mentre parlavo, lì dove sapevo di aver messo parole mie, ogni tanto guardavo la maestra per vedere se era d'accordo, oppure no, ma non riuscivo a capire niente.

Non diceva nulla e la sua faccia era sempre la stessa, come in quel giorno quando siamo diventati pionieri, ma questo non mi disturbava, anzi mi dava la sicurezza per andare avanti, perché non mi ha mai fermato.

Più andavo avanti, più mi sentivo sicuro e certo che spiegavo bene ai miei compagni.

In ognuno dei tre trimestri di scuola che si facevano in ogni anno scolastico, dovevamo raccogliere dei soldi, cioè, “il piano economico della nostra classe”, che poi venivano tutti versati nel “piano economico della nostra scuola”.

Tutti quei soldi, venivano usati per i lavori di qualsiasi tipo nella nostra scuola, che si facevano ogni anno nella vacanza grande, quella del' estate.

In un trimestre, ogni bambino doveva versare al proprio comandante di gruppo, nel momento in qui voleva, anche un po' alla volta, una cifra che a me sembrava molto piccola.

Con quei soldi si sarebbe potuto andare al cinema per neanche tre volte, oppure mangiare due dolci e mezzo nella confetteria, comperare la metà di uno dei palloni con qui giocavamo a calcio, oppure dieci dei gelati più piccoli che esistevano.

La cosa importante, era che quei soldi non potevano e non dovevano essere dati dai nostri genitori.

Ognuno di noi, per mettere insieme quella cifra, doveva dedicare del tempo.

Del suo tempo.

Ognuno doveva lavorare.

Un terzo della cifra, doveva essere ottenuto da residui di carta raccolti e portati in uno dei centri di raccolta nella città.

Andando nei vari centri, dovevamo avere dietro come segno di riconoscimento il nostro libretto di allievo, quello dove di solito si mettevano i voti per farli vedere e firmare dai genitori a casa.

Il responsabile del centro ci pagava la carta, ma la cosa che a me, sembrava molto più importante dei soldi, era la ricevuta che ci doveva dare, con il nostro nome e cognome, la quantità di carta portata, i soldi pagati, la data, la sua firma e soprattutto il timbro del centro di raccolta.

L'altro terzo della cifra si doveva ottenere, portando bottiglie, oppure barattoli di vetro vuoti e puliti. L'ultimo terzo, portando del ferro vecchio.

Ognuno di noi, appena aveva la cifra giusta, ma soprattutto le ricevute dei centri di raccolta, doveva dare tutto al proprio comandante di gruppo.

Il comandante, aveva il compito di creare la statistica del proprio gruppo. e poi, di consegnare tutto a me.

Dopo aver fatto la statistica della classe, controllando che la soma dei soldi, era la stessa con la somma scritta sulle ricevute, dovevo consegnare tutto alla compagna comandante dei pionieri per la scuola.

Più andavo avanti, più mi rendevo conto che stavo spiegando bene, perché vedevo le facce e gli occhi dei miei compagni molto attenti.

Nella nostra aula, c'era un silenzio profondo in qui si sentiva soltanto la mia voce.

Nessuno mi chiedeva nulla.

La maestra non stava più dritta sulla sedia, ma era piegata un po' in avanti, come facevo nel banco quando lei ci spiegava un qualcosa che mi interessava di più e volevo capire bene.

Ero così tranquillo, sereno e soddisfatto, che mentre parlavo sono anche riuscito a chiedermi perché quella maestra compagna comandante è stata cosi rigida ed aggressiva quando ci ha spiegato tutto, visto che io piccolo bambino, ci riuscivo a farlo da amico con tutti e le cose andavano molto bene.

Quando ho finito e ho chiesto se hanno capito, oppure se c'erano delle domande, la mia soddisfazione è stata ancora più grande.

Non avevano domande, ma prima uno, poi un altro, poi un po' tutti insieme, i miei amici hanno cominciato a dire ognuno un qualcosa, su tutte quelle novità.

Quando il rumore e diventato un po' troppo forte, è intervenuta la nostra maestra e con tanta tranquillità ci ha ricordato che dovevamo ancora chiudere l'assemblea.

Mentre cantavamo l'inno dei pionieri ed i due porta bandiere, portavano le bandiere della classe al loro posto, mi sentivo molto fiero di me stesso per come erano andate le cose.

Mi piaceva di nuovo essere pioniere ed il comandante della mia classe, poi, la ciliegina sulla torta l'ha messa la mia maestra.

Prima di andare via, mentre stava quasi prendendo la mia guancia nella sua mano destra, con la sua dolcezza mi stava dicendo che ero stato molto bravo a guidare ed a tenere tutti uniti i miei amici, i miei compagni, nella mia prima assemblea.

Anche se fuori pioveva e la giornata era molto grigia, fredda, con le nuvole molto basse e con poca luce, come tutte le giornate in pieno autunno sotto la montagna, dentro di me, c'erano delle immense esplosioni solari.

Una luce, fortissima e molto luminosa.

Impegnato come ero, con i miei compiti, con il lavoro di comandante della classe, con le grandi cose da fare insieme ai miei amici del condominio, mi è sembrato troppo presto quando un giorno mio papà mi ha detto che era arrivata l'ora di cominciare a preparare l'albero.

Tra non molto, doveva venire Babbo Natale e li serviva l'albero per poterci lasciare i regali.

Per la prima volta sono andato anch'io insieme ai miei genitori a comprare l'albero.

Erano tantissimi.

Tutti grandi e molto grandi ed intorno si sentiva un profumo di pino molto buono, molto forte.

Sulla neve bianca che copriva già tutto con uno strato molto spesso, le loro chiome verdi, erano come una macchia di vita nel gelo dell'inverno. Dopo aver guardato un po’, come tutta la gente che era lì per lo stesso motivo, mio papà ha scelto uno che piaceva a tutti noi. Lo ha legato bene, ma delicatamente, per non spezzare i rami, e ci siamo incamminati per tornare a casa.

Il mercato non era molto lontano e tornando, mio papà ha avuto il tempo di spiegarmi che prima di cominciare a preparalo, dovevamo tagliarlo alla base, perché forse era troppo alto e non ci stava dentro casa.

Finiti tutti i preparativi, finalmente lo abbiamo messo al suo posto e dopo averlo fissato bene nel suo piedistallo, abbiamo messo soltanto le luci.

A tutto il resto: cioccolatini, addobbi, regali, ci avrebbe pensato Babbo Natale.

Come sempre.

Preparare per la prima volta l'albero insieme al mio papà, dentro mi faceva sentire un po' più grande.

Ero molto felice.

Ancora di più di quello che ero già, perché quell'anno, Babbo Freddo, mi portava i patini da ghiaccio.

Ne ero sicuro.

I miei risultati nello studio erano molto buoni. Ho lavorato nel mio tempo libero anche per gli altri. Come comandante della classe, avevo aiutato alcuni dei miei amici che avevano bisogno. Ho aiutato nel fare i compiti, altri amici della mia classe, che andavano meno bene a scuola. Ero stato bravo a casa. Sono andato a comprare il pane per i nostri vicini anziani, ogni volta quando me lo hanno chiesto.

Ho fatto sapere in tempo il mio desiderio al Babbo Freddo, cioè, i patini e lui non aveva nessun motivo per non portarmeli.

Lavorando, mi sono ricordato molto bene, quello che pochi giorni prima avevo visto fare agli uomini che erano venuti a dare una mano ai miei genitori, per ammazzare e poi preparare il grosso maiale comperato per Natale ed anch'io, ho provato a fare nello stesso modo. Cioè, mentre stavamo facendo le ultime cose, mentre stavamo lavorando, ho cominciato a parlare con il mio papà e li ho fatto subito una domanda che volevo farli da un po' di tempo.

Per me, quello era il momento giusto.

Non riuscivo a capire perché in televisione, facevano vedere sempre e soltanto un “Babbo” che portava i regali, se in realtà, erano due “Babbi”.

A scuola, ci insegnavano quasi tutti i giorni e più di una volta al giorno, che i regali li portava il "Babbo Freddo".

A casa, i miei genitori e le altre persone grandi che conoscevo, le sentivo dire che da loro, come da noi, viene il "Babbo Natale".

Ho sempre pensato che ognuno ha il suo “Babbo”.

Babbo Freddo, soltanto per i piccoli che andavano ancora a scuola.

Babbo Natale, a casa, per tutti.

Per me andava bene.

Ero molto tranquillo e contento, ma volevo sapere di più, volevo capire meglio.

Subito nel momento dopo, quando per la prima volta di sempre, ho visto che il mio papà non ha risposto ad una mia domanda, le cose sono cambiate.

Non perché non mi ha risposto, ma perché l’ho visto diverso.

Era diventato meno sereno, meno sorridente, meno gioioso di come era l'attimo prima e dandomi una carezza sulla testa, mi ha detto di non avere fretta. Di non voler sapere troppo, in troppo poco tempo. Ogni cosa al suo tempo. Avrei capito tutto da solo ed al modo mio, quando ero pronto.

Era meglio così.

Il buon profumo di pino che si sentiva già forte nella camera e che mio papà mi ha fatto notare, in quel momento è diventato più interessante della confusione sui due Babbi.

Poi, quando una mattina mi sono svegliato e con il mio fratello abbiamo cominciato ad aprire i regali sotto l'albero, ho trovato i miei patini da ghiaccio.

In quel momento, non era molto importante se me li aveva portati Babbo Freddo, oppure Babbo Natale.

Neanche il colore degli scarponi che erano bianchi invece di essere neri, come li avevo chiesto, non contava più.

Finalmente avevo i miei patini.

In quella vacanza, con l'aiuto della tanta neve che era scesa, avrei imparato ad usarli bene.

Faceva abbastanza freddo e nei posti con tanta ombra, c'era ancora della neve, quando mio papà mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto vedere una partita di calcio dal vivo. Non ha finito di farmi la domanda, che la risposta era arrivata subito e chiara, mentre lo aspettavo già con le scarpe ai piedi, pronto per uscire di casa.

In pochi minuti, siamo arrivati al nuovo stadio, dove eravamo andati insieme per il lavoro volontario.

Non l'avevo ancora visto finito, anche se una piccola parte riuscivo a vedere dalle nostre finestre di casa.

Era diventato molto bello.

Sembrava immenso.

Appena entrati, sono rimasto un po' deluso, perché ho visto sul campo giocare già le due squadre, ma e subito tornata la tranquillità, quando mio papà mi ha detto che erano le squadre juniores. Le prime squadre dovevano, come sempre, cominciare appena finita quella partita. Non eravamo in ritardo come ho pensato, ma in anticipo e questo mi ha aiutato a vedere bene ogni cosa prima dell'inizio della vera partita.

Era tutto molto bello, molto interessante e non c'era niente che non mi piaceva.

Mi chiedevo soltanto, mentre vedevo quei ragazzi grandi a giocare, se le prime squadre erano molto più veloci di loro e se sarei riuscito a vedere e capire bene tutto. Non era più come a casa in televisione, dove le cose più importanti le facevano vedere più di una volta.

Non lo so quanto e come vivevo tutto ciò, ma so che mio papà ogni tanto mi guardava, ogni tanto mi sorrideva senza dirmi nulla e quasi ogni due minuti mi diceva di sedermi di nuovo, perché sarei riuscito a vedere anche da seduto le stesse cose.

Quando la partita delle giovanili è finita, sul campo sono entrate le prime squadre.

Era tutto così bello che in quel momento non potevo assolutamente restare seduto.

Vederli uscire dagli spogliatoi da squadra, tutti in fila, il modo di correre, di toccare il pallone, vedere dal vivo il modo come erano vestiti, il riscaldamento fatto in gruppo, molto organizzati.

Tutto bellissimo.

Anche se erano di terza serie e quelle che vedevo in televisione erano partite di prima, mi sembrava tutto molto più interessante dal vivo. Vedendo tutto ciò, il mio pensiero è subito volato e mi chiedevo come poteva essere, vedere dal vivo una partita di prima serie, della squadra che era nella città più grande della nostra vallata.

Mi gustavo tutto in pieno.

Preso come ero, ho soltanto sentito mio padre quando sorridendo, mi chiedeva se ero diventato sordo.

Ero sempre in piedi ed ero ancora vicino a mio padre seduto, soltanto perché c'erano le gradinate.

Mentre le squadre, laggiù sul campo continuavano a riscaldarsi, mio papà ha cominciato a raccontarmi di sapere che in quella primavera, perché saliti in terza serie, dovevano far' nascere anche la squadra dei pulcini. Non l’ho lasciato neanche finire, perché li ho subito chiesto cosa avrei dovuto fare per andarci anch'io.

La prima risposta e stata che dovevo continuare ad essere bravo come prima, in tutto quello che facevo già.

E quando sentivo tutto, era tutto.

Da tutto quello che facevo a scuola, a tutto quello che facevo a casa, ma non ho dato importanza e non ero preoccupato per questa condizione.

Era la stessa da sempre e non mi pesava.

Tutto quello che facevo, lo facevo in quel modo perché mi piaceva e non perché qualcuno me lo chiedeva, oppure perché dovevo farlo. Senza neanche lasciarlo finire, li ho detto che per me, quel accordo andava benissimo.

Ha fatto in tempo a dirmi che se le cose stavano cosi, chiedeva quando facevano le selezioni e mi portava.

Poi e cominciata la partita.

Con quello che mi aveva appena detto, i calciatori della nostra squadra, li sentivo già i miei compagni più grandi.

Quella notizia così bella e così importante che mio papà mi aveva dato, mi ha messo le ali sotto i piedi e pensando all'accordo fatto con lui, tutto quello che facevo, lo facevo con ancora più interesse, più determinazione, scoprendo anche tutti i giorni cose nuove e molto interessanti.

Studiavo con ancora più fame e sete di sapere.

Mi impegnavo sempre di più, anche con dei miei amici che a scuola capivano di meno ed avevano bisogno di aiuto.

Aiutavo anche qualche ragazza della mia classe a trovare nelle industrie della città, il ferro vecchio necessario da portare al centro di raccolta, per il piano economico.

A casa, appena arrivato dalla scuola, mi toglievo subito la divisa e la mettevo sempre apposto nell'armadio.

Dopo che studiavo, mettevo sempre tutto in ordine e mi preparavo già la borsa da scuola per il giorno dopo, prima ancora di andare fuori casa a giocare con i miei amici. Andavo senza problemi, quando mia mamma mi mandava, a comperare il pane, a buttare l'immondizia, oppure quando dovevo fare altre cose per la casa che da bambino riuscivo a fare.

Andavo a fare le stesse cose, anche per qualche vicino più anziano e che chiedeva a mia mamma il permesso di poterlo aiutare.

In quel periodo, anche la maestra compagna comandante, che purtroppo dovevo vedere negli incontri periodici dei comandanti di classe, mi sembrava meno aggressiva, meno cattiva e forse anche meno brutta.

Ogni partita di calcio che facevamo sul nostro “Maracana” in terra rossa, d'avanti al condominio, per me era già un allenamento per le future prove e quando è arrivato il grande giorno, ero più che preparato.

Ero pronto.

Scendere sul prato verde dove giocava la prima squadra e che avevo visto soltanto dalla tribuna fino in quel momento, era già un grande traguardo.

Sentire il profumo del' erba ed il fruscio dei passi sul campo di gioco, una cosa unica.

Vedere che sul prato eravamo entrati soltanto noi bambini ed i genitori stavano tutti a bordo campo senza poter entrare, mi faceva già sentire un po' importante e mi aiutava a non pensare al numero immenso dei bambini che eravamo ed al numero limitato dei pulcini da selezionare.

Ancora meno al fatto che ero tra i più piccoli.

Poi, quando è arrivato il futuro allenatore con il magazziniere che aveva una grande sacca di rete con tanti palloni di cuoio dentro, subito qualcosa è cambiato.

Si sentiva che dovevamo cominciare a fare sul serio.

Non avevo mai visto da vicino un pallone di cuoio, non l'avevo mai toccato, non vedevo l'ora di farlo.

L'allenatore ci ha messi su due fila, dai più grandi ai più piccoli e ha cominciato a farci fare degli esercizi fisici per il riscaldamento.

Dopo un bel po' di esercizi, ci ha fatto fare dei passaggi tra di noi con il pallone.

Purtroppo, prima ancora di capire come andava quel pallone, ci ha fermati.

Cominciava la selezione.

Ha cominciato dai più grandi, ed uno a uno, chi veniva chiamato, andava nella zona di campo più lontana ai genitori.

Vedevo, l'allenatore che prima parlava con ognuno dei ragazzi, poi faceva fare loro delle cose con il pallone. A qualcuno di più ed a qualcun' altro di meno e poi scriveva qualcosa sul quaderno che aveva in mano.

Subito dopo, l'allenatore diceva qualcosa ad ognuno di loro.

Non eravamo abbastanza vicini per capire cosa succedeva, ma vedevo alcuni ragazzi alla fine, saltare di gioia, altri, andare via con la testa bassa, altri ancora, andare via piangendo.

Le gambe mi stavano quasi facendo male aspettando il mio turno.

Quando è arrivato, eravamo rimasti soltanto due ragazzini e due papà.

Eravamo i più piccoli.

Mentre mi avvicinavo all'allenatore, lui, il campo, il pallone, mi sembravano diventati molto grandi, quasi giganteschi e mi chiedevo se ero ancora capace e giocare a pallone.

Se potevo ancora farlo in quel momento, perché mi sembrava di respirare a fatica.

Era come nel giorno della prima premiazione a scuola, e mentre ero "quasi pronto" per essere schiacciato da tutte quelle cose, ho sentito da lontano, dietro le spalle, la voce del mio papà che mi diceva di non avere paura.

Di fare con tranquillità quello che dovevo fare.

Quello che sapevo fare.

Dopo i primi passaggi che ho fatto con l'allenatore, è diventato tutto normale.

Più andavamo avanti, più mi sentivo meglio.

Mi chiedevo soltanto, perché mi faceva fare tutte quelle prove, tirare con tutti e due i piedi, colpire di testa, provare a dribblarlo, fare i cross, girarmi di spalle e dopo che lui mi tirava il pallone, di trovarlo subito e passarlo di nuovo a lui.

Avevo visto che ai ragazzi prima di me, ha fatto fare molto meno.

Ero molto concentrato.

Quando mi ha detto che abbiamo finito ero molto tranquillo, molto contento.

L'ho visto che si è avvicinato a mio papà e non lo aveva fatto con nessuno prima. Li ha parlato e dopo avermi chiamato, mi sono avvicinato. Mi ha detto che era un po' preoccupato perché ero il più piccolo tra tutti. Di età e di fisico, ma perché, secondo lui, ero bravo, mi prendeva.

Sorridendo, mi ha chiesto se ero contento.

Lo avrei baciato, anche se non lo avevo mai visto prima e poteva essere quasi mio nonno.

Quando mi ha chiesto quale era la cosa che mi e piaciuta di più in quel pomeriggio, li ho subito detto che ero felice di aver potuto tirare finalmente forte come volevo e come potevo, senza avere paura che il pallone andava nel corso e qualche macchina lo faceva scoppiare.

Mi ha fatto una carezza, dicendomi che sarò il suo preferito, la sua mascotte, anche se di sicuro avremo avuto tanti problemi per riuscire a trovare scarpe da calcio, magliette e pantaloncini della mia misura.

Andando verso casa, ero sulle nuvole.

Camminavo senza toccare terra.

Motivi di gioia per i miei sacrifici, per il mio lavoro, per i miei risultati, avevo già avuti molti e molto belli, ma quello era il motivo di gioia.

Era unico.

il più importante per me in quel momento.

Non vedevo l'ora di dirlo alla mia mamma ed a tutti quelli che incontravo.

Amici o anche soltanto conoscenti.

In poco tempo, ho fatto così bene quel lavoro, che lo sapevano tutti e quando i ragazzi grandi del condominio, mi hanno detto che da quel giorno ero nella loro squadra se volevo, per me era tutto.

Un' altro sogno quasi impossibile, che diventava realtà.

Ero tranquillo, sereno e felice.

Vivevo da beato.

Tutto quello che facevo, volevo farlo molto bene, perché mi piaceva tanto e lo facevo volentieri.

Con tutte le belle cose da vivere, la maestra compagnia comandante che mi piaceva sempre meno, ed il fatto che non potevo più giocare con i miei amici a pallone sul nostro “Maracana”, perché il mio allenatore non voleva, le vedevo come sacrifici che dovevo fare.

Il prezzo che dovevo pagare, per le cose meravigliose che vivevo.

Poi, un giorno, mentre mi gustavo, in pieno come sempre, tutto quello che vivevo, è arrivata una doccia fredda, ghiacciata.

Come l'acqua dei rubinetti di casa nei giorni di inverno e dalla testa, sulla schiena e fino ai piedi, mi ha congelato in un attimo.

Era arrivata all'improvviso e sembrava che avrebbe messo fine a tutto.

La nostra maestra ci ha detto che eravamo cresciuti e che d'avanti a noi, avevamo ancora soltanto un trimestre da passare insieme, poi noi andavamo alle medie e lei prendeva altri pulcini di prima.

Saremo rimasti per sempre nel suo cuore, perché eravamo stati i suoi primi allievi.

Quello che sentivo dentro, non mi piaceva e se qualche mio amico era felice perché andare alle medie voleva dire essere più grandi, per me, andava tutto benissimo così com'era.

Era tutto bellissimo.

Non volevo cambiare niente.

Non mi interessava cambiare nulla.

Non volevo crescere.

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