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PREFAZIONE STORICO-CRITICA INTORNO A LODOVICO ARIOSTO E IL SUO TEMPO

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La famiglia degli Ariosti è di antica nobiltà di Bologna, e il cognome ebbe forse origine da una terra del bolognese detta Riosto. Nel 1156 un Ugo figlio di Alberto fu console di Bologna quando questa città si reggeva a repubblica. La bella Lippa discendeva dalla stessa famiglia, e il nostro poeta non manca di ricordarla nel suo Orlando furioso[1]. Veduta dal marchese Obizzo III d'Este quando pe' suoi contrasti col papa dimorava in Bologna, se ne invaghì somma mente, e la fece sua amica. Conciliatosi poi con Giovanni XXII che nel 1329 scelse per minor male investirlo del vicariato di Ferrara, Obizzo persuase agevolmente la Lippa a seguirlo in quella città, ov'essa andò in compagnia de' suoi fratelli Bonifazio[2] e Francesco. Seguìta poi anche dal cugino paterno Nicolò, la famiglia Ariosti fu trapiantata in Ferrara, col formarne tre rami che vi ebbero lunga discendenza. La bella Lippa rimase sempre concubina di Obizzo, e in 20 anni lo fece padre di 12 figli. Non avendone avuto alcuno dalla moglie Giacoma Pepoli, morta nel 1341, e desiderando legittimare nel più valido modo i figliuoli bastardi, aspettò egli che la madre loro fosse in estremo pericolo della vita, e la sposò (come narrasi) la sera del 27 novembre 1347. Poche ore dopo la povera Lippa era morta; nè potè godere un sol giorno di quegli onori principeschi, forse tanto ambiti e promessi da prima; onori che il marchese serbava alla salma di lei con un pomposo mortorio!

D'allora in poi gli Ariosti ebbero di frequente impieghi autorevoli e vantaggiosi presso gli Estensi, sapendoli meritare pei loro zelanti servigi e non per titoli di una parentela salita in tanto orgoglio e potenza. Alcuni vennero anche fatti cavalieri; e nel 1469 trovandosi l'imperatore Federico III in Ferrara, diede titolo di conte ai tre fratelli Francesco, Lodovico e Nicolò Ariosti e loro discendenti[3]. Francesco fu scalco di Borso d'Este, poi ambasciatore ed anche capitano di Modena; e venendo a morte nel 1505, il nipote e poeta Lodovico compose a di lui memoria un epitaffio che leggesi fra le sue poesie latine[4]. L'altro fratello Lodovico fu prima dottore e canonico, indi arciprete della cattedrale di Ferrara. Il duca Ercole I voleva farlo anche vescovo di Reggio, ma il papa vi si rifiutò, nominando invece Bonfrancesco Arlotti ch'era stato spedito a Roma per raccomandare l'Ariosto[5]. Nicolò, il più giovane dei fratelli suddetti, fu padre del nostro poeta, e perciò di questo parleremo più a lungo.

Essendo stato molto famigliare di Borso d'Este, Nicolò Ariosto divenne ancora maggiordomo del novello duca Ercole I, il quale essendosi impadronito dello Stato contrastatogli a ragione da Nicolò figliuolo di Leonello, diede incarico all'Ariosto di recarsi a Mantova ove il nipote erasi riparato presso il marchese Federico suo zio, e veder modo di avvelenarlo. L'Ariosto non rifuggi di addossarsi l'iniquo mandato, e provveduto di quanto facevagli di bisogno partì sui primi del dicembre 1471 col pretesto di presentare al Marchese di Mantova uno zibetto (animale muschiato). Colà giunto ebbe campo di accordarsi con Cesare Pirondoli siniscalco di Nicolò d'Este, e con larghe promesse lo indusse ad accettare il veleno da porre nelle vivande: ma nella sera destinata all'esecuzione, lo scalco maneggiando il tossico fu colpito da vertigine, e temendo essersi da sè stesso avvelenato, confessò tutta la trama. L'Ariosto intanto mettevasi in salvo a Ferrara, e il 18 detto mese Cesare Pirondoli insieme al fratello Galasso, che serviva a tavola ed era consapevole della cosa, vennero decapitati e squartati in Mantova[6].

Poco dopo i fatti narrati, e cioè col primo gennaio 1472, il duca mandava Nicolò Ariosto capitano della cittadella di Reggio, e siccome eravi altresì il capitano della città, nè facendosi sempre dai cronisti la dovuta distinzione fra i due capitani o confondendoli insieme, così alcuni dubitarono che l'Ariosto avesse avuto ancora l'officio di governatore o podestà (come narra il Baruffaldi)[7], quando queste cariche erano date ordinariamente a diversi soggetti.

E infatti quantunque l'Azzari[8] scriva che nel 1473 l'Ariosto «era stato fatto governatore di Reggio,» mostra troppo chiaramente l'errore involontario in cui cadde, avendoci detto che il giorno 8 agosto dell'anno stesso fu mandato per governatore della città Antonio Sandeo, in sostituzione di Uguccione Rangone morto poco prima nell'officio, essendovi podestà Girolamo Guidone.

Una lettera del capitano Nicolò (Docum. II) ci conferma che le attribuzioni ch'egli allora sostenne furono soltanto militari: avendo poi essa la data Civitatellae Regii, 28 jan. 1473, possiamo ancora arguire che il capitano abitava fin d'allora nella cittadella, sebbene vi continuassero i lavori di riparazioni.

Nel settembre 1473 si unì in matrimonio colla Daria figlia di Gabriele Malaguzzi Valeri d'illustre famiglia reggiana, che lo fece padre di dieci figli; il primo de' quali fu il nostro Lodovico, il favorito delle Muse (come lo chiama l'Azzari), nato l'8 settembre 1474 nella cittadella di Reggio: avvenimento che torna a splendido vanto ed onore di quella città che il poeta stesso ricorda con assai compiacenza pel suo nido natìo. «E perchè il sopraddetto Gabriele (continua l'Azzari) fu nella poesia molto raro e stimato, perciò l'Ariosto solea dire d'aver ricevuto l'arte del poetare dall'utero materno» e non dal vero maestro, come legge malamente il Tacoli[9] e come viene riportato dal Baruffaldi[10].

Un'iscrizione che non ha carattere di sufficiente antichità posta sotto un ritratto di Lodovico dipinto in tela, e posseduto dalla famiglia Malaguzzi, in cui leggesi natus Regii.... in camera media primi ordinis erga plateas, ha fatto ritenere a qualcuno ch'egli fosse nato nella casa materna anzichè in cittadella, la quale per essere in risarcimento eziandio nella rôcca o palazzo del capitano, non poteva prestargli conveniente abitazione. La data della lettera che abbiam riferita sembra convincerci del contrario di ciò che narra soltanto un'iscrizione, che rendesi meno autorevole coll'aggiugnere essere stato il poeta manu propria Caroli V imper. laureatus; incoronazione che lo stesso Virginio figlio naturale di Lodovico dichiara una baia.

Il palazzo di cittadella era un vasto fabbricato, che nel 1505 accolse Lucrezia Borgia che fuggiva la peste di Ferrara, ed ove partorì un figliuolo[11]: non è dunque difficile che mentre i lavori progredivano da una parte, potesse prestare sufficiente abitazione dall'altra. Questi lavori non erano ancora terminati nel 1496 e pur vi abitava assai prima la famiglia del capitano, come ne dà prova il rogito col quale la Daria Malaguzzi assolve i fratelli della dote pagatale in mille ducati d'oro, pubblicato il 7 maggio 1479, Regii in palatio residentiae comitis Nicolai de Ariostis, in Civitatella[12].

Stette Nicolò nell'ufficio di Reggio fino alla metà del 1481 in cui fu traslocato capitano a Rovigo. Ciò avvenne in momenti assai critici, poichè le armi Venete minacciavano impadronirsi di tutto il Polesine. Il capitano nel 7 luglio 1482 faceva conoscere al duca di Ferrara che in città non rimanevano che pochi fanti (circa 150), la maggior parte ammalati, che più non potevano far le guardie alle porte, e che «si troverebbe a mali termini quando venisse furia alcuna». Di fatto nel 14 agosto seguente i Veneti entrarono in Rovigo, occupandola in nome della Repubblica. Nicolò Ariosto non ritornò a Ferrara, come dice il Baruffaldi, ma si ridusse a Masi villa del Polesine di san Giorgio, aspettando gli ordini del duca, che forse tardarono, essendo Ercole I gravemente infermo. In una lettera che Nicolò rivolgendosi alla duchessa scrive da detto luogo il 30 ottobre 1482 dice essere da necessità costretto a restare in villa per non avere che mettersi in dosso; chè forse nella furia dell'invasione temuta non ebbe tempo di prendere le sue robe. Di là si ridusse colla famiglia a Reggio, come rileviamo dalla lettera ch'egli vi scrisse il 22 novembre di detto anno (Docum. III), ed eravi pure nel 1483, trovandosi più volte nominato dal conte Paolo Antonio Trotti allora commissario generale in Reggio, mandatovi dal duca ne' momenti più fortunosi del dominio Estense durante la guerra colla Signoria di Venezia; ed anzi il Trotti in una lettera del 17 maggio 1483 ricordando ad Ercole I le antiche promesse fatte all'Ariosto, «avuto etiam rispetto a quello che V. S. ed io sappiamo, che nelli tempi che si operavano gli amici ciò che ha fatto per quella, non avendo rispetto, non che all'onore e alla vita, alla propria anima» (alludendo al tentato avvelenamento di Nicolò d'Este), lo pregava che al prossimo S. Pietro fosse provveduto d'un officio utile ed onorevole, a motivo altresì «delli danni incalcolabili che ha patito a Rovigo, quali in verità lo hanno frusto fino alle ossa; ed è quì a Reggio con bocche XII e compra sino il sole»[13]. Le condizioni d'allora non permisero forse al duca di sovvenire tostamente a Nicolò; ma sappiamo che nel 1486 le terre da lui acquistate nel contado di Reggio (55 biolche circa), «soggette alle gravezze e servitù rusticali, le dichiarò immuni e privilegiate in perpetuo in grazia dell'essersi trasferite in questo suo nobile e domestico gentiluomo»[14]; come altresì in detto anno fu nominato giudice dei dodici savi, officio che tenne per tre anni[15], a capo de' quali, e cioè dal febbraio 1489 al marzo 1492, ebbe il capitanato della città di Modena.

Finalmente nel 1496 passò commissario ducale in Lugo di Romagna, e vide quelle popolazioni stremate dalla fame, dal contagio, dalle inondazioni. Ma non fu in sì difficili circostanze che incontrò il biasimo di tutti; fu un atto d'ingiusto e crudele rigore a cui lasciò trasportarsi dal suo carattere severo e irascibile.

— Col favor della notte un uomo era solito entrare in una delle più civili abitazioni di Lugo, accolto dalla donna che amava. Il capo della famiglia ignorava la cosa; ma venutone col tempo in sospetto, riescì una volta a sorprendere colui, che dandosi a sùbita fuga lasciò disgraziatamente il mantello. Colla prova sotto gli occhi del fallo, il dabben uomo, forse padre o marito, diè luogo ad un giusto risentimento con parole clamorose, che udite di leggieri in quell'ora tacita da qualche indiscreto vicino o da chi per caso passava allora per via, furono riportate al commissario. Il mattino dopo venne questi chiamato dinanzi all'Ariosto. L'uomo prudente aveva già preso il partito che più stimava convenire all'onor di sè stesso e de' suoi, e, interrogato, negò francamente l'accaduto. Il commissario chiese allora gli fosse consegnato quel mantello che avea rinvenuto, sperando con quello di poter riconoscere il colpevole; ma essendo stato ciò pure negato, l'Ariosto giunse al brutale eccesso di far uso della tortura, e così strappare fra i tormenti una confessione che avviliva e gettava nella maggior vergogna l'uomo innocente, degno soltanto di elogio. — Il Baruffaldi[16] dice che il commissario, persuaso di aver bene operato, ne scrisse al duca; ma che questi lo privò immantinente dell'impiego (24 novembre 1496), lo condannò a una multa di 500 ducati d'oro, nè più lo ammise ad altre cariche. Fra le molte lettere che di Nicolò Ariosto si conservano in Archivio, non abbiamo quella accennata dal Baruffaldi, nè crediamo probabile ch'ei potesse quasi vantarsi dell'eccesso commesso. Troviamo invece che il duca lo aveva altre volte ripreso di usar modi e parole troppo aspre co' suoi dipendenti: ed egli con lettera del 7 marzo 1482, ringraziando dell'amorevole correzione «non da principe a servo, ma che sarìa da equiparare a Cristo quando correggeva gli Apostoli suoi», soggiungeva: «Io non ho sì poco intelletto, nè son di natura tanto iracondo, Ill.o Signor mio, ch'io non mi sappia molto ben temperare dove bisogna.... e mi porto con quella reverenza e carità che si conviene, e che so essere la mente di V.a Ill.a Signoria.» — Così l'antico adagio, che noi raramente conosciamo i nostri difetti, trova sempre conferma.

Nicolò nel 1486 ritornato con la famiglia a Ferrara, pose il figlio Lodovico, in età di undici anni, a scuola di latino, con obbligarlo più tardi a darsi contro sua volontà allo studio delle leggi, volgendo testi e chiose, ch'egli chiama ciance, pel corso di cinque anni. A capo de' quali, e cioè nel 1494, accorgendosi il padre che Lodovico erasi distolto dai gravi studi raccomandatigli per attendere unicamente a quelli per lui sì graditi della poesia ove il genio fin dall'alba della vita traevalo a forza e ne' quali avea cominciato a dar saggi lodevoli; dopo molto contrasto, persuaso ancora da parenti ed amici, lo pose in libertà.

Lodovico allora si ritenne felice, e attese con maggior fervore agli studi poetici, in compagnia di Alberto Pio principe di Carpi, di Pandolfo Ariosto suo diletto cugino e di Ercole Strozzi, giovani anch'essi di raro ingegno, che servivangli a nobile emulazione. Sotto il celebre Gregorio da Spoleti diedesi tutto agli studi classici, e riuscì a spiegare i passi più oscuri degli antichi poeti latini, principalmente di Orazio, di che riscosse molti elogi in Roma al tempo di Leone X. Già sullo scorcio del secolo aveva composti vari carmi latini ed era tutto occupato ad accrescerli, quando nel 1500 avvenne la morte di Nicolò, che Lodovico pianse con un'ode affettuosissima[17]. Dovette allora «coi piccoli fratelli ai quali era successo in luogo di padre» rivolgere il pensiero e le cure alla numerosa famiglia, «cambiare Omero in vacchette». Anche il suo carissimo maestro Gregorio da Spoleti fu costretto abbandonarlo per passare a Milano, indi in Francia precettore di Francesco Sforza, ed essendo morto altresì Pandolfo «il suo parente, amico, fratello, anzi l'anima sua,» parve per un momento temere non potesse offuscarsi quel punto luminoso cui egli mirava per salire in gran fama: ma continuando a vederlo risplendere, fattosi animo, superò questo ed ogn'altro impedimento (Satira VII).

Quantunque le sostanze ereditate dal padre fossero di qualche entità, pure dovendosi ripartire sopra dieci figliuoli, non potevano lasciare abbastanza tranquillo il primogenito Lodovico che aveva assunto la cura degli interessi della famiglia; e narrando egli stesso che di que' giorni la mente sua era carca d'affanni (Satira VII, v. 214), si rivolse al duca, e potè ottenere nel 1502 di essere nominato capitano della Rocca di Canossa[18].

Le terre possedute nel reggiano e l'ufficio conferitogli in quella provincia mossero l'Ariosto a portarsi al nido natio, ospitato dai propri cugini Malaguzzi: e que' luoghi ameni, e specialmente il Mauriziano ch'ei vagheggia e dipinge coi colori più belli, gli furono dolci inviti a empir le carte de' suoi versi (Satira V); e perciò i carmi latini della sua giovinezza salirono a 65 che si hanno a stampa divisi in tre libri, illustrati di recente dal ch. Carducci[19]. E il poeta dirigendoli agli Estensi, ai congiunti, agli amici, non lascia di narrarci ancora i suoi amori, celebrando in particolar modo una reggiana sotto nome di Lidia, la quale lo costringe a star lungamente lontano dalla madre carissima, gli fa grato il soggiorno di Reggio colla sua presenza, glielo rende triste partendo.

Dopo quasi due anni trascorsi per la maggior parte nel reggiano, Lodovico tornò a Ferrara nel 1503, ove sembrò dimenticarsi di Lidia, ed ove da una certa Maria che da tempo serviva in sua casa ebbe un figlio naturale chiamato Giovanni Battista, il quale essendo stato secretamente mantenuto dal padre presso i parenti materni, partì giovane da Ferrara per darsi al mestiere delle armi; e tornato poi in patria, ove ebbe nel 1546 una missione dal duca alla corte imperiale, vi morì capitano nel 1569. Avendolo Lodovico dichiarato nel testamento del 1532 suo figlio naturale e contemplato nell'eredità, venne ancora legittimato nel 1538 ad istanza di Galasso e Alessandro fratelli del poeta.

Sullo scorcio del 1503 Lodovico rinunziò al capitanato di Canossa e passò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, ch'egli scelse con poca fortuna a suo mecenate, ma che tanto influì su lo scopo delle sue poesie.

Ippolito d'Este, figlio d'Ercole I e di Eleonora d'Aragona, nacque il 20 marzo 1479, e per essere il terzo genito fu destinato alla Chiesa: volendosi di regola ne' principi che il primo succeda al padre nel governo dello stato, il secondo cerchi salire in dignità cingendo la spada, il terzo faccia altrettanto vestendo la stola: ma bene spesso la traccia è fuor di strada, e fa mala prova[20], non essendosi prima indagata l'indole e tendenza d'ognuno. — Di sei anni Ippolito vestì l'abito clericale, ricevendo la prima tonsura nel duomo di Ferrara. Passava appena i sette anni, ed ecco che il re Mattia Corvino marito di una zia materna d'Ippolito lo nominava arcivescovo di Strigonia. Il papa non voleva approvare la nomina per l'età ancora infantile, ma dopo pochi mesi vi si adattò. Il piccolo arcivescovo partiva alla volta d'Ungheria, facendosi portare in una lettica con grande accompagnamento affine di prender possesso della sua sede, e serviva purtroppo ovunque passava a ridicolo spettacolo di profanata autorità. Padrone troppo presto di sè stesso, insignito di una dignità di cui solo misurava l'importanza dagli atti continui di un simulato profondo rispetto, vivendo in una corte straniera, presso parenti che cecamente lo amavano, nè mai contraddetto in qualunque capriccio, sortì un carattere altiero, inflessibile, vendicativo, crudele. Cambiato poi l'arcivescovato di Strigonia nel vescovato d'Agria, che non l'obbligava a residenza, ebbe nel 1497 l'arcivescovato di Milano, cui s'aggiunse nel 1499 quello di Narbona e nel 1502 quello di Capua. Fu anche Vescovo di Ferrara nel 1503, di Modena nel 1507. Alessandro VI lo nominò cardinale diacono di santa Lucia in Silice il 21 agosto 1493 di soli quattordici anni, e fu anche arciprete della Basilica Vaticana, come pure prevosto della ricchissima Abbazia della Pomposa di Ferrara: deplorabile abuso d'allora, e neppur tolto a' giorni nostri, di cumulare tante dignità e tante rendite ecclesiastiche sopra un solo uomo, che inoltre mostrava di seguire intieramente il genio dell'età corrottissima, senza curarsi delle cose sacre. Erano in fatti sue cure gradite le cacce[21], le mostre militari, i convegni gioviali, l'amor delle donne, i ricchi e pontificali conviti ne' quali durava la maggior parte della notte. Nel 1504 fece bastonare un messo del papa che gli portò un monitorio che non gli garbava: prepotenza arditissima sotto Giulio II. — Lo spirito delle cose mondane era allora molto esteso in corte di Roma. Nelle lettere di cardinali amici d'Ippolito s'incontrano spesso descrizioni di cacce fatte in Romagna, inviti a partecipare ad altre che si preparavano, e domande di falconi e di levrieri, di cui si lamenta la scarsità in Roma. Una lettera del cardinale Marco Cornaro ha tutto il garbo di que' gentili e profumati viglietti soliti scambiarsi fra due persone galanti: «Ho avuto piacer grande a intendere quanto mi scrive V. S. Rev. di quelle due nobilissime madonne, l'una madonna Clara Pusterla, l'altra madonna contessa Borromea sua sorella; e tanto più quanto che essa V. S. Rev. mi scrive detta contessa esser fatta molto bella, e l'una e l'altra, insieme con li suoi magnifici consorti, essere state a piacere con quella. Se dette madonne non fossero partite, pregherìa V. S. Rev. si degnasse raccomandarmele; a una delle quali essendo servitore V. S. Rev., io desidererìa essere servitore all'altra, per fare compagnia ad essa V. S.». — La passione delle armi, unita ad un certo valore, portò il cardinale Ippolito ad una non comune intelligenza delle cose di guerra; nel che rese importanti vantaggi al duca Alfonso I di lui fratello nella guerra coi Veneziani e con papa Giulio II. Ci narra il da Porto[22] che il cardinale Ippolito era «il più disposto corpo con il più fiero animo che mai alcuno della sua casa avesse, e sopra questa guerra (coi Veneti) d'ogni cosa ministro. Piacciono a costui gli uomini valorosi, e quantunque sia prete, ne ha sempre molti d'attorno». Trovandosi nel 1509 colle genti di suo fratello sotto Padova, facevasi condurre «alla guisa di Dario sopra una carretta per lo campo, benchè armato ed in abito di soldato»; e queste foggie, sì poco convenienti a un personaggio del suo carattere, ripetevansi sovente, ed erano da tutti con dispregio osservate. — Delle donne ebbe amicizia troppo intima con parecchie. Secondo il Gordon[23] fu rivale col duca Valentino negli amori con Sancia vedova di Goffredo Borgia. Amò una certa Veronica che da Brescia gli scriveva il 23 giugno 1508, raccomandandosi a lui «tante volte quanti sono i pensieri che nascono il giorno a quanti sono gli amanti riamati»; e prorompendo in dire: «oh quanti sono!» finisce umilmente baciandogli «le belle manine, lo prega di nuovo voglia ricordarsi di sua bassezza, e si dichiara quella fedel serva che tanto ama e adora Sua Signoria». — Dalla Dalila Putti di Ferrara ebbe un figlio naturale per nome Ippolito: da un'altra donna ebbe Isabella, maritata nel 1529 con Giberto Pio di Sassuolo. Ma l'amore, anzi una cieca brutale passione spinse il cardinale ad un iniquo delitto, e macchiò d'infamia eterna il suo nome. — Erasi egli perdutamente invaghito di una damigella della corte di Ferrara, la quale, com'è solito delle donne lusinghiere, non contenta di accogliere le istanze del cardinale, mostrò gradire moltissimo anche quelle di don Giulio fratello bastardo di lui. Il cardinale se ne accorse, e sollecitando la donna a dichiarargli la cagione di sì nuovo capriccio, confessò ella di non aver potuto resistere agli occhi bellissimi di don Giulio, che giudicava bastevoli a vincere il cuore di tutte le donne. La vanità puerile del cardinale restò umiliata e nel vivo trafitta; onde lasciandosi trasportare dall'impeto della gelosia e dell'invidia macchinò un'atroce vendetta. Il 3 novembre 1505 don Giulio era andato di buon mattino alla caccia; e il cardinale, forse travestito, in mezzo a quattro de' suoi staffieri, si portò alla campagna di Belriguardo, attendendo coll'insidia dell'assassino che il fratello fosse di ritorno. L'infelice don Giulio restituivasi tranquillamente a Ferrara ignaro della sorte che lo attendeva, quando ad un tratto videsi assalito e stramazzato di cavallo. Il cardinale lo circondò de' suoi uomini che lo ammortirono di percosse, e, cosa incredibile ma pure certissima, stando egli proprio a vedere[24], fecegli con acuti stecchi cavare ambidue gli occhi. Compiuto appena il delitto, il cardinale, sperando allontanare da sè il primo sospetto nell'animo del duca, corse a dargliene avviso come di cosa che allora vociferavasi per la città; e poco dopo don Giulio veniva portato in palazzo, deforme nel viso, tutto coperto di sangue. A quest'orribile vista che nella famiglia degli Estensi ritraeva in parte quanto di più crudele rappresentaronci i greci «di Tiesti, di Tantali e di Atrei»[25], fu detto che il duca Alfonso salì in ira tale, che rovesciò la tavola ove trovavasi a mensa; e conoscendo a più indizî onde il fatto procedesse, cacciò da sè il cardinale, ingiungendogli di sortire dai confini. Allo sgraziato don Giulio si apprestavano intanto le cure maggiori: l'occhio sinistro, non essendo stato intieramente staccato dall'orbita, rimesso al posto, riacquistò col tempo un poco di luce; il destro era affatto perduto.

Sparsa la fama di tanto abominio e dei risentimenti del duca, il cardinale fu sollecito di prevenire le gravi conseguenze che doveva aspettarsi dal papa: e perciò, avendo fatto fuggire que' suoi famigliari, scrisse l'8 novembre a Beltrando Costabili protonotario apostolico e oratore ducale a Roma, che si presentasse a Giulio II e che, baciatigli i piedi a nome di lui, gli esponesse il caso occorso per opera de' quattro famigliari a motivo di certe inimicizie passate con alcuni domestici del fratello don Giulio, e che intendendo i primi che vi era pure qualche differenza tra esso cardinale e il fratello medesimo, non avevano creduto fare ingiuria al loro padrone. Che però egli ne provava il più grande dolore ed affanno, e che, sebbene fosse persona ecclesiastica, non restava di fare ogni opera per avere i malfattori nelle mani, i quali sino allora non si erano potuti trovare. Terminava poi con raccomandarsi alla solita desterità del reverendo oratore; cui fu agevole in questa parte accomodare la cosa. Ed è a rimarcare che la minuta della lettera stessa preparata da un segretario, e che rinvenimmo nel nostro Archivio, ha correzioni di mano del cardinale che ne moderano artificiosamente l'importanza: chè dove diceva cercarono estinguergli la luce degli occhi mutò in batterono negli occhi, vi soppresse le parole delitto e cosa facinorosa, ed a scelleranza sostituì scandalo (Doc. IV).

Si scoperse in breve che uno de' famigliari colpevoli chiamato Francesco Verdezino si era riparato a Venezia. Il duca chiese in favore di averlo in sue forze; e se da principio gliene fu data speranza, il governo veneto dichiarò poco dopo che per le raccomandazioni avute in contrario dal cardinale, il quale era riguardato come buon figliuolo della serenissima Repubblica, non sarebbe consegnato. Venne quindi scritto dal duca al suo ambasciatore Sigismondo Salimbeni in data 2 dicembre 1505, di far intendere alla Signoria di Venezia, che non avesse rispetto all'interposizione del cardinale, ch'egli era pure figliuolo ed anzi primogenito di quella, e perciò meritevole di essere preferito e in amore e in compiacenza, ad impulso altresì della causa giusta che lo moveva in confronto dell'altra del proprio fratello: ma ogni preghiera rimase inutile, benchè dèsse fede che non piglierebbe sulla persona del malfattore alcuna risoluzione che non fosse a grado della Repubblica (Doc. V).

La collera del duca durò poco per altro; ond'egli, abbandonate le esigenze, tornò ad avere il cardinale in somma grazia e favore. L'ingiustizia colla quale perdonavasi al medesimo, lasciando impunita e dimenticata l'offesa commessa sopra don Giulio, trasse questi a concertarsi coll'altro fratello don Ferrante di far uccidere il cardinale e il duca; l'uno per vendicarsi, l'altro per impadronirsi dello Stato di cui aveva ambizione. Ma il cardinale temeva, e vegliava gli andamenti di don Giulio: videlo in grande intimità con il detto fratello, con Albertino Boschetti conte di san Cesario e con Franceschino Boccaccio da Rubiera camerlingo di don Ferrante; onde avvertito il duca del sospetto che in lui erasi destato, furono tosto imprigionati il Boschetti, il Boccaccio e due staffieri dello stesso don Ferrante, che fra i tormenti confessarono la congiura. Alla notizia dell'arresto don Giulio fuggì in Mantova presso il marchese Francesco Gonzaga cognato di lui. Gherardo Roberti capitano de' balestrieri e genero del Boschetti, con certo Gianni prete di Guascogna, cantore ed intrinseco del duca, entrambi complici della trama, fuggirono l'uno a Carpi, l'altro a Roma. Don Ferrante non curò di mettersi in salvo, e chiamato al cospetto del duca se gli gettò ginocchioni, domandando perdono di un attentato che non fu condotto ad effetto. Il duca non ebbe pietà pel suo fratello. Avendo inteso ch'ei diede ascolto alle insinuazioni di don Giulio per vendicarlo del cardinale Ippolito, l'assalì al viso con una bacchetta che allora trovavasi in mano, e percuotendolo e gridando di volerlo eguagliare a don Giulio, giunse con inaudita barbarie a cacciare ancora a don Ferrante un occhio dalla testa[26]! Il marchese di Mantova consegnò poi vilmente don Giulio, e si ebbero pure gli altri due fuggitivi. Vennero decapitati il Boschetti, il Roberti, il Boccaccio nel giorno 12 settembre 1506: messi in quarti, si attaccarono alle porte della città, e le teste confitte in tre lancie stettero gran tempo a terrore dei riguardanti sopra la torre della Ragione. Il prete Gianni fu collocato in una gabbia di ferro fuor della torre del castello, esposto alla vista del pubblico, di mezzo verno, con un par di calze di tela e un grigio su la camicia, oltre ad avergli tagliate sul vivo le unghie[27]; poichè, essendo prete, forse Roma nel consegnarlo diede il veto di ucciderlo. Dopo sette giorni fu però strozzato dentro la gabbia, «significandosi che l'avesse fatto di sua posta»[28]. Del cadavere fu fatto abominevole strazio, attaccandolo per i piedi ad una carretta, trascinandolo per la città, poi sospendendolo per l'un de' piedi a un alto stilo sopra del ponte di Castel Tedaldo in Po, fin che disfacendosi cadde da sè stesso nell'acqua. A don Giulio e don Ferrante il duca fece erigere un palco nella corte del castello, ed invitata a spettacolo la nobiltà del paese, i due sfortunati fratelli coll'impronta nel viso delle sevizie sofferte salirono su di quello in compagnia del carnefice: le loro teste già stavano per essere recise con orrore e raccapriccio di tutti; quando il duca, a farsi proclamare principe clemente, fratello amorevole, fece loro grazia della vita, condannandoli a perpetua prigione: «don Giulio in un fondo di torre, e don Ferrante di sotto da lui, con finestre di tre doppie di ferro»[29].

Non era ancor bene accertato chi fosse la donna che destò la forsennata gelosia del cardinale Ippolito. Il Frizzi[30] la dice una damigella per nome Angela, la prima tra le molte che Eleonora d'Aragona all'epoca del suo matrimonio col duca Ercole I condusse seco da Roma e che era ancora sua parente. Il Litta[31] afferma invece che questa damigella era Isabella d'Arduino gentildonna napoletana. Ma i due scrittori non osservarono che tanto l'Angela che l'Isabella, se vennero a Ferrara coll'Aragonese nel 1473, dovevano trovarsi all'epoca dei fatti che narriamo presso i cinquant'anni; età non atta a destar siffatte passioni. Oltre di ciò l'Isabella fu anche l'amica del duca Ercole I, la madre di don Giulio, poi da tempo la moglie di Giacomo Mainetto. Niuno certo crederà che le lodi date da una madre agli occhi di suo figlio e che non potevano suscitar gelosia, fossero riguardate dal cardinale non solo «come poco cortesi, ma altresì come una sentenza che chiudeva a lui l'adito alle grazie dell'avvenente napoletana», come il Litta continua a chiamarla. Non può dunque esser questa la donna che cerchiamo scoprire; ma conoscendo che dopo le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este celebrate in Roma nel gennaio 1502, fra le damigelle che accompagnarono la sposa vi fu pure un'Angiola Borgia sua parente (chiamata anche sorella del cardinale Borgia), che si fermò a Ferrara, ed era dotata di straordinaria bellezza[32], non esitiamo di riconoscervi la donna da cui ebbe origine l'empio fatto del cardinale.

Quanto a Lodovico Ariosto, al quale è tempo di far ritorno colla nostra narrazione, venuto al servigio del cardinale, ed essendo questi stato eletto vescovo di Ferrara nell'ottobre 1503, gli offerse tributo di alcuni versi latini pieni di adulazione, e che terminano con lodarlo di castità[33]! Due anni dopo accadde il tristo caso narrato; ed il poeta conoscendo che sarebbe stato impossibile levarne la colpa dal cardinale, cercò renderla men odiosa al medesimo componendo un'Egloga[34] nella quale parla dell'ordita congiura, col tacere i motivi che vi diedero origine: e accrescendo i falli di don Giulio, e designandolo di mente invida, ingordo di adulterii (che pur sono due de' principali difetti del cardinale), nega persino ch'ei fosse figlio di Ercole I, ma bensì di chi ebbe l'Isabella Arduino in custodia, per ridurre almeno il delitto del suo signore sopra chi non eragli fratello. Fa di Lucrezia Borgia la donna casta, dicendo che quanti la conobbero prima di essere venuta a far parte della famiglia d'Este, lodavano più della bellezza leggiadra, l'ingegno altissimo, l'opere sante e l'inclita onestà di lei; cose tutte che sono in onta del vero, e, ci duole il dirlo, indicano nell'Ariosto, almeno in quel primo periodo, il cortigiano bramoso di raggiungere un favore che, volendosi ad ogni costo comperare, era dall'accorto ed avaro venditore tenuto sempre a più alto prezzo.

Il poeta mostrò poi ricredersi in alcuni casi, dirigendo nel 1514 al cardinale un capitolo che, lungi dall'esaltarlo per casto, lo dice anzi trafitto più di una volta dalla fiera punta d'amore e non anche allora sanato[35]. Così nel Furioso loda la pietà del duca Alfonso per aver risparmiata la vita ai fratelli don Ferrante e don Giulio: e qui nettamente ricorda che i miseri pur sono suo sangue, della sua più cara famiglia[36].

Era nel 1486 venuto alla luce in Venezia l'Orlando innamorato del conte Matteo Maria Boiardo, ristampato nove anni dopo coll'aggiunta del terzo libro nel suo stesso castello di Scandiano; e l'Ariosto rapito dalla lettura di quel poema, ove con vena inesauribile d'immaginazione s'intrecciano meravigliose avventure d'amore alle più splendide prove di valorosi paladini, rivolse ogni studio ai romanzi e poemi cavallereschi, traducendone alcuni de' spagnuoli e francesi nella lingua italiana per proprio esercizio. E perchè l'Orlando innamorato rimase imperfetto per la morte dell'autore, s'accinse egli a continuarlo, trattovi fors'anche da un sentimento d'affetto verso il luogo natìo, che facea riguardargli il Boiardo come suo conterraneo. Nel 1507 Lodovico aveva condotto molto avanti il suo Orlando furioso, ed essendo stato spedito a Mantova per consolarsi del felice parto della marchesana Isabella a nome del cardinale di lei fratello, gliene lesse una parte che le «fece passare due giorni non solo senza fastidio, ma con piacere grandissimo»[37].

Al duca Ercole, morto il 25 gennaio 1505, è dovuto il merito di aver promosso in Ferrara il teatro italiano con aver ordinato al Boiardo, a Niccolò da Correggio, al Collenuccio, al Pistoia, al Guarino ecc., componimenti drammatici originali e tradotti specialmente da Plauto e da Terenzio, che faceva recitare talora da' suoi gentiluomini in una sala di corte sopra impalcato mobile adorno di bel scenario[38]; il che venne pure meritamente seguitato dal nuovo duca Alfonso I in tempo di carnevale e in altre feste straordinarie. E perchè l'Ariosto era stato sempre inclinato all'arte comica ed aveva già scritto la Cassaria e più tardi i Suppositi, due commedie in prosa (che poi ridusse in versi), vennero esse recitate, la prima nel 1508 e l'altra nel 1509, intramezzate di danze moresche, canti e suoni, con ottenere entrambe le commedie il più gradito successo, avendo altresì il medesimo autore declamato il prologo dei Suppositi; sicchè il duca diedegli incarico di soprintendere agli spettacoli teatrali di corte.

Al cominciare del 1509 venne stabilita la lega di Cambrai tra Giulio II che ne fu il promotore, l'imperatore d'Austria, il re di Francia Luigi XII e il re Ferdinando d'Aragona contro la Repubblica veneta. Fu chiamato a farne parte anche il duca di Ferrara Alfonso I, che nel 19 aprile di detto anno nominavasi dal papa confaloniere della Chiesa. Il duca per mostrarsi ossequiente al re di Francia andò a trovarlo a Milano, ove allora era giunto col proprio esercito, e gli disse della carica conferitagli, e che l'avrebbe accettata o rifiutata come meglio fosse piaciuto al medesimo. Il re rispose di contentarsene: ma una tale deferenza essendo stata riportata al papa, «n'ebbe tanto sdegno, che l'amor che prima portava al duca Alfonso cominciò a convertirlo in odio»[39]. L'Ariosto fu allora spedito per la prima volta a Roma affinchè di concerto cogli amici prelati trovasse modo di pacificare il papa; rilevandosi altrettanto da due Rapporti di mess. Lud. Ariosto da Roma molto corrosi dal tempo e mancanti di data, ma che certamente si riferiscono a questa cagione. Leggesi in essi che il duca doveva necessariamente portarsi a Roma e dichiarare in persona al pontefice ch'egli «non era per corteggiare alcuno il quale volesse alzar la cresta contro Nostro Signore.... che le cose passeriano pessimamente quando non vi andasse e presto.... facendo intendere in secreto al Cristianissimo il bisogno di andare a Roma per le cose sue con i Veneziani, per esser liberato in perpetuo di quella obbligazione (del sale); perchè la protezione di S. M. non può liberare se non de facto, ma il papa può obbligare e liberare di ragione.... che la natura del papa è che quando comincia a voler male ad uno, sèguita in infinito.... che cadauna volta che andrà al re di Francia, dovrà anche andare a S. Santità per espurgare ogni sospicione che avesse conceputa di tale sua andata ecc.». Non abbiamo notizia che il duca si portasse per allora a Roma; e forse le ostilità incominciate di sùbito colla sconfitta dell'esercito veneziano a Ghiaradadda per opera dei Francesi il 14 maggio 1509 fecero rivolgere il pensiero degli alleati a cose di maggior importanza.

Nell'agosto dell'anno stesso il cardinale Ippolito era andato al campo sotto Padova, e l'Ariosto scrivevagli da Ferrara le notizie che allora correvano per la città, facendogli ancora conoscere i lamenti che non a torto facevansi dal popolo per le colte di denaro che il duca ordinava, mostrando però sempre buona dose di adulazione quando soggiunge: «se V. S. fosse in questa terra, non seriano queste cose» (pag. 8).

Da un'Orsolina di villa san Vitale ebbe l'Ariosto in questo tempo l'altro figlio naturale per nome Virginio che fu legittimato nel 1520 e in più valido modo nel 1530. Fu molto amato dal padre che lungamente lo tenne presso di sè, l'istruì con sollecitudine nel latino, poi lo mandò allo studio di Padova ad apprendere il greco, raccomandandolo al Bembo colla lettera del 23 febbraio 1521 (pag. 282) e colla Satira VII.

Il 16 dicembre l'Ariosto fu inviato di bel nuovo a Roma con molta fretta, mutando ognora vetture e con pericolo di affogarsi per le acque cresciute fin su le ripe de' fiumi, affinchè chiedesse soccorso al papa contro la flotta che i Veneziani avevano spinta sul Po a danno del duca: «Poi nè cavalli bisognàr nè fanti»[40], giungendogli la notizia della vittoria che ne ebbero sei giorni dopo le armi del duca dirette dal cardinale, come dalla lettera che pubblichiamo in data 25 dicembre 1509 (pag. 9-11). La qual lettera ha la speciale importanza (di cui non s'accorse il Tiraboschi, che pur la vide e la cita) di farci conoscere che il Furioso poteva dirsi allora condotto al suo termine, quantunque non completato, poichè in essa si dice che il poeta averà istoria da dipingere a nuova laude del cardinale nel padiglione ove succedono le nozze di Ruggero e Bradamante, che formano il soggetto finale del poema; padiglione che porta figurate e dipinte la nascita e le imprese d'Ippolito d'Este. Ora se questo semplice cenno fu tenuto sufficiente per farsi comprendere dal cardinale, è da inferire che questi avesse già piena conoscenza del poema; come altresì è da inferire che provasse compiacenza delle lodi a lui profuse, se l'Ariosto si diede premura di annunciargli la nuova occasione di accrescerle, come infatti troviamo aver fatto colla stanza 97 introdotta nell'ultimo canto in cui dipinge la vittoria sulla flotta veneta, «la quale tanto più fu onorata e memoranda quanto manco si è inteso che alcuno imperatore o capitano, stando in terra, abbia mai presa armata in acqua»[41]. — Ma noi vedremo più avanti qual fosse la ricompensa serbata alle gentili sollecitudini del poeta.

Avvenuta nel febbraio 1510 la morte del cardinale Cesarini abate commendatario di Nonantola (il quale pochi mesi prima erasi portato a quell'abbazia per accomodare alcune differenze d'investiture scadute e che fu colà dall'Ariosto visitato, pag. 5), il cardinale Ippolito, insaziabile di benefizi ecclesiastici, corse a Nonantola e nel 5 marzo sforzò que' monaci, che in numero solamente di sei ne formavano l'intiero capitolo, ad eleggerlo commendatario. Del quale arbitrio arditissimo sdegnossi altamente Giulio II, dicendo che il cardinale d'Este «voleva suscitare una prammatica al modo di Francia», e minacciò di fargli contro un grande processo. Ad allontanar la procella e trovar modo che restasse al cardinale l'agognata abbazìa, fu spedito per la terza volta l'Ariosto a Roma, raccomandato colla lettera che produciamo a pag. 305, da doversi intendere diretta al vescovo d'Adria Beltrando Costabili, il quale nel 25 maggio scriveva al cardinale Ippolito: «Ieri giunse mess. Ludovico Ariosto, e dipoi desinare lo introdussi a Nostro Signore, al quale espose quanto egli avea commissione molto accomodatamente, e parse che Sua Santità accettasse la giustificazione di V. Rev. Sig., ma circa a darli l'abbazìa non si risolse altramente, come più appieno quella intenderà per lettere di esso mess. Lodovico». Consisteva la giustificazione nel dar tutta la colpa ai poveri monaci, mostrando che avessero eletto il cardinale di loro libera volontà, e tentando ricuperare il diritto che un tempo avevano di farlo, e che poi si volle serbato al pontefice. Il Tiraboschi nella sua Storia della Badìa di Nonantola tace che il cardinale esercitasse in ciò alcuna pressione, e aggiunge solo che i monaci sperarono forse che il cardinale sostenuto dal duca suo fratello potesse render valida ed efficace l'elezione. Ma il papa ebbe nuove informazioni che confermarono in colpa il cardinale, come si dimostra dalla lettera del Costabili 10 giugno 1510 (Docum. VI), e nominò abate Gio. Matteo Sertorio modenese suo cameriere segreto.

I felici successi de' Francesi in Italia fecero temere al papa che potessero valere ad estendere di troppo il loro dominio fra noi, e perciò ritiratosi dalla lega di Cambrai, dopo aver ricuperato alcune terre della Chiesa, si unì alla Repubblica di Venezia dichiarando che voleva liberare l'Italia dal giogo straniero, chiamando però altri stranieri in aiuto. L'8 giugno 1510 fece intimare al duca di Ferrara, come suo feudatario, di non molestare i Veneziani, di separarsi dai Francesi e di non fabbricare più sale in Comacchio a pregiudizio delle saline di Cervia ritornate al papa. E perchè il duca stimò di maggior interesse rimanere nell'alleanza di Francia, il papa lo fulminò il 9 agosto di una scomunica estendibile a qualunque gli porgesse aiuto e che lo dichiarava decaduto; «con tutta l'altra serie (dice il Muratori) di maledizioni e pene spirituali e temporali e parole pregnanti, che inventate contro i più perversi eretici passarono poi in uso per sostenere i fini politici contro de' cattolici»[42]. Al cardinale Ippolito fu pure intimato di portarsi immediatamente a Roma, sotto pena della perdita de' suoi beni ecclesiastici.

Fu giuoco forza che il cardinale abbandonasse il fratello e s'incamminasse a Roma, o almeno alla volta di quella, in segno di obbedienza. Giunto a Modena, munì l'Ariosto di sua credenziale al papa, nella quale, esponendo risentirsi di un vecchio malore in una gamba, chiedea dilazione che gli permettesse di fare il viaggio a piccole riprese: e raccomandando specialmente all'Ariosto di procurargli un salvocondotto per tranquillizzarsi del timore di vedersi posto in prigione a motivo dell'odio di cui insieme col duca si vedea fatto segno, lo mosse a portarsi in gran fretta e per la quarta volta nella metropoli del mondo. — Fu detto che messer Lodovico non rinvenne il papa a Roma, ma in una sua villa di delizie presso il mare; che forse non ottenne udienza o l'ebbe brevissima e tutta spirante sdegno e minaccia, e che Giulio II volle far gittare in mare l'Ariosto, il quale a stento potè salvarsi fuggendo e temendo sempre di essere inseguito[43]. Una lettera di Benedetto Fantini segretario del cardinale narra invece che il poeta trovò il pontefice in Castello a Roma, che ottenne tosto udienza, e, quel che più muove interesse, riporta il dialogo passato fra i due illustri personaggi (Doc. VII). Messer Lodovico parlò arditamente in favore del suo principale più che non parrebbe convenirsi di fronte all'altiera e collerica natura di Giulio II; e sebbene quest'ultimo rifiutasse di prorogare per iscritto il termine assegnato nel monitorio e di rilasciare il salvocondotto richiesto, diede però a voce assicurazioni tali in proposito da poter credere che l'Ariosto giunse «A calmar la grand'ira di Secondo», per servirmi delle sue stesse parole (Sat. II). Ma la lettera del Fantini, la quale manca della seconda metà del foglio, non esclude che seguitasse a narrare essersi l'udienza risoluta da parte del papa in uno scoppio d'ira per ulteriori insistenze dell'Ariosto: come infatti rileviamo da una lettera del cardinale Ippolito in data di Massa, ultimo d'agosto 1510, diretta ad altro cardinale non indicato nella minuta che si conserva in quest'Archivio di Stato, ove leggesi che il gentiluomo (l'Ariosto) mandato come terzo messaggio al papa per una proroga a presentarsi in Roma, «non solamente potette avere grazia o conclusione alcuna da Sua Santità, ma fu minacciato d'essere buttato in fiume se non se le toleva denante, et di fare il simile a ciaschedun altro delli miei che se li appresentasse, soggiungendo, se non andassi a Roma, me privaria de li beneficj et del cappello»; e concludeva col raccomandare la sua causa a quel cardinale[44]. — Da Modena per altro, avanti di partire per Massa (chè voleva sempre mostrarsi in viaggio) scrisse al vescovo Costabili ch'era allora in Firenze di trovargli casa in quella città ove intendeva fermarsi per quindici giorni, e il vescovo rispondendo di averlo fatto, aggiungeva: «però con questi uomini, quali guardano al suo avvantaggio, non si è potuto venire a conclusione se non con il condurla per due mesi. Ma se la S. V. Ill. anderà di lungo a Roma, non gli sarà altro incomodo che la spesa, la quale non credo gli gravi; e avendo mandato quella mess. Lodovico Ariosto innanti, non si potrà giudicare altro che la sia per andare: quando ancora la non andasse, non sarà che avere la casa a suo piacere e comodo». Il cardinale si portò infatti a Firenze; ed essendo sui primi di settembre caduto di cavallo, soffrendone qualche lesione, n'ebbe scusa sufficiente a non proseguire il viaggio per Roma. Il Muratori dice che la caduta fu una finzione[45]; e tale a noi pure sembrerebbe, se, a lode del vero, non avessimo trovata una lettera del duca, 9 settem. 1510 (Doc. VIII), che ricorda questa lieve caduta. Ottenne quindi di rimanere a Firenze ove di continuo scriveva al duca delle lettere in cifra. Avendo poi avuto il buon senno di non aderire agli inviti di alcuni cardinali scismatici che allora trovavansi in Toscana, prese motivo di allontanarsene, e si trasferì a Parma. Ne diè avviso al cardinale di Pavia legato pontificio in Bologna che lodò la prudente risoluzione del cardinale Ippolito, giudicandola meritevole di tornarlo in grazia del papa; ed egli trovandosi più vicino agli Stati di suo fratello, andò più volte a visitarlo celato sotto un'armatura[46] per concertare una forte difesa.

Il papa aveva intanto cominciata la guerra contro il duca, togliendogli le sue terre di Romagna, occupandogli Modena ed altre città, mentre i Veneti minacciavano di ripigliare il Polesine. Molti cittadini di Ferrara erano corsi nella stretta del grave bisogno ad accrescere le fila dei soldati del duca Alfonso: lo stesso poeta, sempre bramoso di quanto promettevagli onore, volle imitar l'esempio di tre altri della famiglia Ariosto[47], e militò nella compagnia comandata dal principe Enea Pio di Carpi, come vedesi dalle due lettere scritte da Reggio nell'ottobre del 1510 al cardinale in Parma (pag. 12 e 14), che anche in questa guerra poteva dirsi di ogni cosa ministro. Ed essendo riescito al duca nel 24 settembre un vantaggioso fatto d'arme alla Polesella, con ricacciare i Veneziani che pur tornavano a molestarlo (Docum. IX), fu in tale occasione che probabilmente si distinse il nostro Lodovico, impadronendosi, come si narra, di una ricca nave nemica sul Po[48].

L'esercito della Chiesa guidato dal duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere, nipote del papa, minacciava di un prossimo assedio Ferrara. Cresceva il pericolo aspettandosi da un momento all'altro la resa della Mirandola che Giulio II braveggiando e imprecando stava in persona ad espugnare: perciò invitati i Ferraresi d'ogni ceto e condizione, uomini e donne, preti e frati (non occupati causa l'interdetto ai luoghi sacri) di afforzare con terrapieni le mura della città, postisi tutti al lavoro, questi ripari furono con nobile gara nel dicembre del 1510 condotti a termine[49].

Fecesi una notte dagli uomini d'arme del papa il tentativo di avere una porta della città; ma il duca fu prima avvertito della cosa, e vennero respinti. Anche Gio. Giacomo Trivulzio erasi portato coll'esercito francese in Mantova pronto ad accorrere in aiuto di Alfonso I, che a tale oggetto aveva pagato al re di Francia trentamila scudi d'oro. Perciò il papa abbandonò per allora l'impresa di Ferrara, e avuta in gennaio del 1511 la Mirandola, si ritirò col suo esercito a Bologna, indi a Ravenna, causa le mosse vittoriose del Trivulzio.

Verso la fine del 1511 troviamo l'Ariosto in Ferrara che con lettera accompagna a Giovanni de' Medici legato di Bologna, che poi fu papa, un suo vecchio congiunto arciprete di sant'Agata che voleva rinunciargli la sopravvivenza al proprio beneficio (pag. 20), quantunque Lodovico con azione veramente generosa e amorevole, a quanto ci narra nella Satira I (e tutte sette le Satire fanno conoscere la bontà dell'animo suo), avesse desiderato preferirsi il fratello Galasso o l'altro per nome Alessandro, che «dalla chierca non abborre»; mentr'egli schivo di lasciarsi legare da stole od anella, doveva chiedere al Medici una bolla che lo dispensasse colle più ampie clausole dagli ordini sacri. — Ma Lodovico non andò poi affatto esente da questi legami, potendosi dire piuttosto che li ebbe entrambi ad un tempo.

Si avvicendavano intanto i successi della guerra, ora in vantaggio ora in danno del duca Alfonso, che presso gli Strozzi di Firenze per accattar denaro avea dovuto impegnare le gioie ed ogni oggetto prezioso di casa, riducendosi a mangiare in piatti di maiolica fabbricati da lui, allorchè l'11 aprile 1512 avvenne la sanguinosa battaglia di Ravenna in cui Alfonso I governava l'antiguardia. Fu grande l'impeto de' valorosi Francesi comandati dal prode Gastone di Foix, grande la fermezza nel ributtarli de' gagliardi Spagnuoli capitanati dal vicerè di Napoli Raimondo di Cardona, incerta per ambe le parti la vittoria, che infine si decise a favor dei Francesi. Il duca Alfonso influì non poco a tal esito, avendo saputo cogliere una favorevole posizione dalla quale fulminava di fianco a colpi sicuri i nemici costretti a passar vicino alle bocche delle sue micidiali artiglierie per accorrere al soccorso delle squadre perdenti. Azzuffatisi i due eserciti corpo a corpo, le milizie del duca chiesero se dovevano cessare da un fuoco che poteva ad un tempo far strage di Spagnuoli e Francesi, ed egli rispose: Tirate senza timor di fallare, chè sono tutti nemici nostri; e perciò i morti si fanno ascendere in quella tremenda giornata a diciottomila, metà circa per parte, tra gente di Spagna, di Francia, d'Italia e della Svizzera, a causa specialmente della numerosa artiglieria del duca di Ferrara, il quale fu detto usasse di due cavalli da guerra avvezzati a scagliarsi di salto sopra i nemici e ucciderli a calci! L'animoso petto di Gastone di Foix, non potendo tollerare che li Spagnuoli si ritirassero in ordinanza, gli inseguì con furore; ma rintuzzato di forza, cadde trafitto, e con lui rimase spento anche il fiore de' capitani Francesi. — Se Lodovico Ariosto non fu presente a questa battaglia, v'accorse subito dopo, dicendoci di aver vedute le campagne rosse del sangue barbaro e latino, e per molte miglia il suolo così coperto di morti, che senza premerli non concedeva il cammino. Fu però presente al sacco che il giorno dopo si diede alla miseranda città di Ravenna, ove dai vincitori uscirono crudeltà tali da empiere il mondo d'orrore[50].

Quest'amarissima vittoria indebolì siffattamente l'esercito francese per la perdita dei capi, che il duca cominciò presto ad accorgersi che su di esso non potrebbe più a lungo fondar speranze d'aiuto. Ascoltò quindi i consigli di Fabrizio Colonna (ch'egli avea fatto prigioniero di guerra, ma che teneva a Ferrara come amico), e volle tentare di riconciliarsi col papa[51]. Per gli offici del marchese di Mantova di lui cognato e per quelli del Colonna ottenne un salvocondotto per trasferirsi a Roma. Il duca partì da Ferrara il 23 di giugno 1512, dopo aver rimessi in libertà i Veneziani che teneva prigioni, e dopo aver mandato avanti Fabrizio Colonna a disporgli accoglienze favorevoli. Giunse in Roma il 4 luglio, in compagnia dell'Ariosto (se pure non lo raggiunse dopo), e il papa gioì di vedere il suo nemico prostrarsegli dinanzi e baciargli i piedi. L'esame delle differenze fu rimesso a sei cardinali che furono favorevoli al duca: ma il papa voleva ad ogni modo Ferrara, e gli propose in cambio la città d'Asti tolta allora ai Francesi, chiedendo ancora gli fossero rilasciati i due prigionieri don Ferrante e don Giulio. Il duca rifiutò di cedere Ferrara e i fratelli!... Giulio II amava don Ferrante che aveva tenuto a battesimo, e bramava poterlo togliere di pena. A quest'ultimo impreveduto rifiuto inorridì dubitando che il duca l'avesse fatto uccidere di nascosto; e qui l'ira, a lui sempre sì facile, scoppiò fieramente. Il duca assicurò che don Ferrante era vivo, ma ripetè perfidiando che non l'avrebbe ceduto, lagnandosi pure che contro la fede del salvocondotto gli fossero state nel frattempo occupate alcune città; e, com'era prevedibile, si lasciarono più nemici di prima. Sul capo del duca rumoreggiava la tempesta, e giunto al suo alloggio scrisse il 17 luglio al cardinale Ippolito col falso indirizzo Ad Alessandro di Cremona la lettera in cifra di cui si pubblica la traduzione, nella quale con animo di inesorabile crudeltà sembra compiacersi di non aver voluto gratificarsi il papa nemmeno col cedere i due fratelli prigioni, e specialmente don Ferrante (Docum. X). Il papa dal canto suo voleva vincerla sul duca a qualunque costo, e non ebbe riguardo a dar ordine che fosse arrestato, facendo prima raddoppiare le guardie alle porte di Roma e così impedirgli una fuga. Seppelo il cardinale d'Aragona che in segreto lo riferì ai Colonna; ed essi a ricompensare il duca «d'aver serbato il suo Fabrizio a Roma»[52] lo travestirono in mezzo a buona mano di armati, sforzarono la porta di San Giovanni e lo trassero a salvamento fuori della città, nascondendolo nel loro castello di Marino. Come il papa lo seppe arse di sdegno, fecelo inseguire d'ogni parte, ma inutilmente: volle almeno vendicarsi su quelli del suo corteggio; e non trovando che il conte Lorenzo Strozzi, lo fece imprigionare: gli altri erano stati avvertiti e fuggirono in tempo. Dodici muli furono presi nel bosco di Baccano carichi de' bauli del duca: ma i bauli, a derisione, eran vuoti, essendosi le robe occultate in diversi monasteri. Tre mesi circa restò il duca nascosto finchè Prospero Colonna venendo in Lombardia con duecento uomini d'arme per unirsi a Raimondo di Cardona il prese con sè or sotto l'abito di cacciatore, or di famiglio, or di frate, e così potè deludere la vigilanza di Antonio della Sassetta che il papa aveva messo fra que' soldati per iscoprirlo. Dovendo poi il duca dividersi dal Colonna, per trovarsi soltanto in compagnia dell'Ariosto, narra questi in una lettera del primo ottobre scritta appena giunto in Firenze, che sembravagli d'essere uscito allora delle latebre e de' lustri delle fiere, ormato in caccia dai levrieri (del papa), e di aver passata la notte antecedente in una casetta di soccorso col nobile mascherato, l'orecchio intento e il cuore in soprassalto (pag. 23). Così finirono le paure sofferte, e il 7 ottobre il duca passò per Castelnovo[53], quindi muovendo dalla strada di san Pellegrino arrivò il 14 dello stesso mese felicemente a Ferrara.

Il gran concetto di Giulio II di cacciare i barbari d'Italia pareva tradursi ad effetto, giacchè i Francesi incalzati dagli Svizzeri dovettero ripassare i confini: e il papa gloriandosi d'essersi tolto dal collo il più forte nemico, sebbene con armi esterne, lo schernì un giorno il cardinale Grimani, osservando che il regno di Napoli, così ricca e importante parte della penisola, rimaneva pur sempre in potere degli Spagnuoli. Per le quali parole l'animoso pontefice, alzato il bastone su cui sosteneva il cadente fianco e percuotendo con forza lo spazzo, gridò che, Dio concedente, anche quei popoli avrebbero presto imitato il glorioso esempio degli altri[54].

Il cardinale Ippolito, rimasto nell'assenza del duca suo fratello al governo dello Stato, aveva dovuto perdere Reggio, Brescello, Carpi (ov'era tornato Alberto Pio), Cento, la Pieve e le terre di Romagna, e così depositare in mano del Vit-Furst, che fu mandato governatore Cesareo in Modena, anche S. Felice e Rubiera. Già i Lucchesi approfittando del momento favorevole si erano impadroniti della Garfagnana: già il duca prevedeva l'ultima ruina della tanto agognata Ferrara che sola rimanevagli in potere, e dove teneva concentrate tutte le sue forze per farne gagliardo contrasto, quando nel 21 febbraio 1515 Giulio II morì.

L'11 marzo Giovanni de' Medici veniva eletto papa col nome di Leone X. L'Ariosto eragli stato amico, e più volte avendo udito ripetergli in Firenze e in Bologna che non farebbe differenza tra lui e il suo stesso fratello, corse a Roma in abito di staffetta anche a nome del duca di Ferrara. Leone X mostrò di udire assai volentieri le parole di omaggio e congratulazione che gli venivano profferte; prese per mano l'Ariosto, gli baciò ambe le gote (Satira IV); ma essendo di cortissima vista, e sdegnando allora di portare l'occhiale, mal potè ravvisarlo: così gli altri amici del poeta, divenuti grandi nuovamente, desiderosi d'imitare il santo padre, mostrarono quasi di non vederlo! (pag. 24). Si fermò Lodovico a Roma all'incoronazione del papa: ma non essendogli stato offerto alcun posto vantaggioso, com'egli se ne lusingava, lasciò Roma non avendo ottenuto che l'esenzione della metà della tassa alla bolla occorrente per succedere allo zio nel benefizio di sant'Agata!

Nel ritorno passò per Firenze e accadendovi le feste di San Giovanni sentì vaghezza di fermarvisi a conforto dello spirito amareggiato dal disinganno di Roma. In Firenze incontrò Alessandra Benucci rimasta vedova da poco tempo di Tito Strozzi di Ferrara, e quella beltà che non eragli nè peregrina nè nova lo innamorò sommamente. Di que' spettacoli tenne poco ricordo, e poco gliene calse:

Lettere di Lodovico Ariosto

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