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Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non

Sordida, parta meo sed tamen aere Domus;

ed ivi ritiratosi attese a dar l'ultima mano al suo Furioso, occupandosi ancora di rivedere le sue commedie in versi, le Satire e le poesie liriche. Erano suo passatempo le cure del giardino, ove (séguita a dire Virginio) «teneva il modo medesimo che nel far de' versi, perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse più di tre mesi in un loco: e se piantava anime di pesche o semente di alcuna sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano che finalmente rompeva il germoglio».

Pel duca Alfonso rinnovavansi intanto le triste condizioni dei tempi di Leone X, poichè il nuovo papa Clemente VII, «nome tanto contrario agli effetti che poi si videro di lui»[115], non tardò a mostrarsegli ostile. Avendo il duca spedito oratori a Roma affine di essere rintegrato di tutti i suoi Stati, ma con ottenere soltanto che dal 15 marzo 1524 ad un anno avvenire rimanesse ogni cosa in sospeso; papa Clemente cominciò nell'agosto di detto anno a chiedere la restituzione di Reggio e Rubiera, unitamente all'altre terre ricuperate ne' due mesi della sede vacante. Si fece conoscere il torto del papa, ed egli irritatosi «mandò un nunzio con una breve capitolazione circa la restituzione trattata, che la portò del mese di ottobre, avendo posto in punto genti da piedi e da cavallo delle sue e de' Fiorentini per usarle all'improvviso contro esso duca quando lui non avesse voluto sottoscrivere la detta capitolazione in termine di due ore: e il duca Alfonso, temendo peggio e trovandosi disarmato sotto la fede che si vedeva mancargli, sottoscrisse li capitoli nelli quali si conteneva, che avesse a dare al detto papa Clemente Reggio e Rubiera con lor territorii ed anco il Finale e san Felice fra venti giorni, e che esso papa avesse a dare la investitura a lui di Ferrara... con pena di cento mila ducati a chi non osservasse. Ma poi vedendosi esso duca tanto iniquamente essere stato necessitato a sottoscrivere li detti capitoli, deliberato di non li eseguire, lasciò passare il termine prescritto, confidandosi nella venuta del re di Francia; che venne tanto presto, che appena gli Spagnuoli ebbero tempo fuggendo di ridursi a Pavia, alla quale esso re pose il campo, avendo già preso Milano. Ed è da sapere che pendente il termine di detti venti dì, il conte Guido Rangone, che stava col papa Clemente, con inganno rubò Montecchio al duca Alfonso; il che, per quanto s'intese, fece di scienza ed ordine di detto papa». Ciò rileviamo dal segretario del duca Bon. Pistofilo[116], il quale sebben cerchi d'ogni lato trovar scuse al suo principale, mostrerà sempre, anche ammettendo il fatto com'egli lo narra, che due uomini di mala fede si stavano a fronte. — Venuto in Italia il re di Francia, il papa cercò tosto di allearsi al medesimo, stimandolo più potente degli Imperiali: ma questi nella memorabile giornata del 24 febbraio 1525 sconfissero sotto Pavia l'esercito francese, e lo stesso re Francesco I cadde prigioniero nelle loro mani. Clemente VII fece poi nuova pratica con Carlo V per ottenere l'adempimento della capitolazione firmata dal duca, il quale riescì ancora ad allontanare la tempesta, conciliandosi gli Imperiali mediante il prestito fatto nel 25 marzo al vicerè di Napoli generale dell'imperatore di sessantacinque mila scudi. — Volle pur mettersi in amichevole relazione coi Veneziani, restituendogli le galere guadagnate in Po nel 1509; e il 20 settembre s'avviò «per terra alla corte dell'imperatore Carlo V in Spagna per far riverenza alla Cesarea Maestà, e per vedere se con tal mezzo potea rassettare le cose sue con Clemente VII.... Ma perchè il re di Francia era allora prigione in Spagna.... riputando i Francesi che lo andare del duca fosse di troppa importanza al servigio di esso imperatore e a detrimento della corona di Francia della quale detto duca era sempre stato ed era affezionatissimo e devoto, non gli volsero concedere il passo per la Francia: di maniera che, poi ch'ei fu stato un mese a S. Giovanni di Moriana in mezzo la Savoia, che sin là era pervenuto, se ne tornò a Ferrara»[117]. — Vennero poi in campo, a quanto ci narrano gli storici di casa d'Este, le solite trame contro la vita del duca «a satisfazione di papa Clemente e con consiglio comunicato col conte Guido Rangone»[118], indi le rivelazioni dei traditori pentiti che le sventarono, e le morti di alcuni complici principali, fra quali Girolamo Pio di Sassuolo decapitato il 25 ottobre 1528, i cui beni confiscati formarono la dote d'Isabella figlia naturale del cardinale Ippolito d'Este.

Col trattato di Madrid 14 gennaio 1526, Carlo V, il più grande dominatore del mondo a' suoi giorni, fece pace colla Francia, e il 18 marzo il re Francesco I venne posto in libertà. Il papa sperando poter abbattere la soverchia potenza dell'imperatore in Italia, stabilì una così detta lega santa colla Repubblica di Venezia, lo Sforza, e il re di Francia il quale ruppe fede al trattato di Madrid. Il duca Alfonso era stato escluso dal papa: ma gli altri alleati lo invitarono a farvi parte, ed egli accettò. Anche Giovanni de' Medici, aderendo ai consigli di Clemente VII, avea fin dal 1525 abbandonato gl'Imperiali per collocarsi colle sue bande nere al servizio di Francia. Da tutti gli Stati italiani raccoglievansi forze per cominciare contro Carlo V una grossa guerra che tornò ben presto fatale al papa, poichè mentre la maggior parte delle milizie della lega trovavasi all'assedio di Milano, il 21 settembre 1526 «don Ugo di Moncada insieme col cardinale Colonna per nome Pompeo, accompagnati da altri signori e seguaci Colonnesi, con buon numero di gente da piede e da cavallo, d'improvviso entrarono in Roma e saccheggiarono il palazzo del papa e molte altre case; e appena il papa ebbe tempo di salvarsi in Castel Sant'Angelo»[119], poi scendere a patti per liberarsene. Il duca Alfonso vagheggiava in questo mentre di abbandonare la lega per unirsi a Carlo V che lo invitava con promessa di molti vantaggi e che inviavagli il 5 ottobre diplomi per dichiararlo suo capitano generale in Italia: ma sembra ch'egli non si risolvesse così di sùbito a ratificare la cosa: un po' vergognando di mettersi contro la Francia, sua antica e fedele alleata, un po' mirando a guadagnar tempo in attesa di nuovi fatti.

Sui primi di novembre calava in Italia Giorgio di Frundsberg con quindici mila tedeschi per soccorrere l'esercito imperiale a Milano. Portava egli seco e mostrava a tutti legati sull'arcione del cavallo un laccio d'oro e molti altri di seta coi quali iniquamente vantavasi che avrebbe appesi di sua mano il papa e i cardinali; «e volendo passare il Po a Mantova, il duca d'Urbino capitano generale de' Veneziani ch'era con l'esercito in Lombardia contro i Cesarei, venne con tutta la gente che avea, ed insieme con esso il signor Giovannino de' Medici, per impedire che non passassero: che certo gli aveva impediti e ridotti anco a qualche gran necessitade, perchè non avevano nè cavalli, nè artiglieria. Ma il duca Alfonso, il quale se bene non avea ancor fatto l'appuntamento, nè firmato intieramente con l'imperatore, avea però l'animo inclinato alla parte imperiale, mandò suso in nave sino a Governolo dodici falconi e mezze colubrine fornite di munizioni agli detti Germani.... che giunto un sì opportunissimo soccorso, presero maggior coraggio, ed animosamente mostrarono la faccia ad essi nemici, li quali vista e sentita la detta artiglieria, si ritirarono.... con perdita di alcuni di loro troppo animosi, e fra gli altri del predetto Giovannino, al quale una ballotta da falcone portò via la gamba destra, e fu portato a morire in Mantova; e così poi essi Germani, senza essere più seguitati, vennero a passare il Po a lor piacere ad Ostia, e andarono verso Piacenza per unirsi col duca di Borbone[120]» comandante supremo degli Imperiali.

Cotal fine ebbe il valoroso capitano delle bande nere Giovanni de' Medici. Aveva egli chiesto in quest'anno al duca di Ferrara, all'amico della Francia per cui combatteva, alcune artiglierie che gli abbisognavano; e il duca con sua lettera del 2 marzo[121] gliele aveva negate, mandandole invece in aiuto ai Tedeschi, sebbene non ancora dichiarato alleato dei medesimi: ed era destino che queste artiglierie dovessero recargli la sconfitta e la morte avvenuta il 30 novembre 1526 fra le braccia dell'amico suo Pietro Aretino, il quale nelle sue Lettere ci lasciò interessanti dettagli su gli ultimi momenti del Medici.

Operatasi, come abbiam veduto, la congiunzione dei due corpi d'armata, già resi vittoriosi in Lombardia, vennero a Reggio ove fermatisi sei giorni si diedero ad ogni licenza di corrotta soldatesca. Incerto il Borbone da qual parte dirigere il suo grande esercito composto di Tedeschi e Spagnuoli allo scopo di poterlo occupare e pagare, credesi dal Guicciardini che il duca Alfonso suggerisse al Borbone che la via unica era di correre a Roma, anche per togliersi al più presto d'addosso questi nuovi amici, e vendicarsi del papa. Il 6 maggio 1527 piombarono in fatti su Roma che per forza fu presa, rimanendo nell'entrare ucciso il duca di Borbone «con uno archibusetto da un suo soldato»[122]. E in tutta la città venne dato quell'orribile sacco e si commisero tanti eccidî e delitti che mai s'udirono i peggiori; «ove il cardinale d'Araceli fu venduto all'incanto in Campo di Fiore come si vende un bue, e furono fatte tante altre cose crudeli ed orrende, che per timore d'essere tenuto bugiardo non ardisco scriverne.... ma ben dirò che quel flagello venisse dalla giusta mano di Dio per li molti peccati e scelleritadi ch'erano in quella cittade, e più in prelati che in laici»[123].

Il papa erasi reso prigione con tredici cardinali; poi fuggì: ma solo saziando in più volte l'avarizia e ingordigia di quelle orde arrabbiate col mandare grandi somme di danaro, e con assolverle d'ogni eccesso commesso, le ridusse a sortire da Roma quasi un anno dopo.

Senza perder tempo il duca Alfonso approfittò della cattività del papa, e portatosi sotto Modena vide finalmente adempiuto il suo lungo desiderio, ottenendone la resa il 6 giugno 1527.

Pochi mesi dopo tornava a far parte della lega santa, attiratovi dall'offerta di condizioni assai favorevoli stipulate a Ferrara col cardinal Cibo che agiva in nome del papa. Ma Clemente VII, poi che venne l'8 dicembre in libertà, e gli fu proposta la ratifica dei patti voluti dal duca, «mostrandosi persuaso che Alfonso fosse stato l'istigatore del Borbone per condursi al sacco di Roma, negò risolutamente di approvare il concordato»[124], e fece le sue proteste per l'occupazione di Modena. Il duca chiese allora di bel nuovo la grazia di Carlo V; indi a rannodare validamente l'amicizia con Francia, mandò ad effetto il matrimonio progettato tra don Ercole figlio primogenito di lui e la principessa Renea di Valois cognata del re Francesco I; matrimonio che fu celebrato in Parigi il 28 giugno 1528.

Trattenutisi gli sposi in Parigi a motivo della peste che ancor durava in Ferrara, solamente nel settembre si posero in viaggio con accompagnamento di alcuni principi reali, e fermatisi molti giorni a Modena fecero il loro pomposo ingresso in Ferrara il 1º dicembre. A festeggiare queste nozze furono rappresentate alcune commedie in un teatro che il duca avea fatto costruire nel suo palazzo secondo l'architettura ideata e diretta dall'Ariosto, il quale vi ordinò una scena stabile che figurava la piazza di Ferrara colle contrade che vi fanno sbocco, i suoi banchi, fondachi e spezierie; e l'Ariosto sovente mostravasi

...... sul proscenio a recitar principii,

E qualche volta a sostenere il carico

Della commedia, e farle servar l'ordine[125].

In questo teatro venne data per la prima volta La Lena dell'Ariosto, e il principe don Francesco, altro figliuolo del duca, recitò in persona il prologo della medesima, come pure diversi gentiluomini non mancarono di sostenervi la parte di attori: chè Alfonso, e quindi tutti di sua corte, si dicevano amanti di questi spettacoli; e il teatro era riescito assai vago e bello: vanto gradito di messer Lodovico.

La commedia suddetta fu pure susseguita dalla rappresentazione della Cassaria ridotta in versi dallo stesso autore, e dicendo egli nel prologo che fu data altra volta vent'anni addietro, viene a confermarsi che la prima recita accadde, come già si disse, nel 1508. — La Lena ebbe altresì una seconda rappresentazione nel 1531 con un nuovo prologo ed una coda di due scene aggiunte in fine.

Il 20 giugno 1529 fu stabilito in Barcellona un trattato di pace e di confederazione tra Carlo V e Clemente VII, obbligandosi fra l'altre cose l'imperatore di far rientrare in potere del papa Modena, Reggio e Rubiera, e di aiutarlo a togliere Ferrara al duca Alfonso, dichiarato ribelle della Chiesa. Nel 5 agosto fu altresì firmata in Cambrai la pace col re di Francia, rimanendo l'Italia abbandonata per intiero all'Austria. A queste notizie il duca doveva stimarsi irreparabilmente perduto: ma come fu preservato altre volte in momenti non meno gravi e supremi, un raggio di speranza non tardò anche allora di arridergli.

Sceso Carlo V per la prima volta in Italia, fu il 5 novembre in Bologna a stabilire d'accordo col papa una pace generale. Nel viaggio passò per Reggio e Modena, e il duca tenne a sua grande fortuna di poter incontrarlo, accoglierlo e servirlo con ogni maniera di magnificenza, esporgli le proprie ragioni, e lusingarsi prima di lasciarlo al confine di averne guadagnato il favore.

Da Bologna il papa fece intimare le volute restituzioni ad Alfonso; ed egli rispose che si sarebbe sottoposto alle decisioni dell'imperatore; gettando con azzardo l'ultima àncora di sua incerta salvezza. In febbraio del 1530 avvenne in quella città per mano di Clemente VII l'incoronazione di Carlo V a imperatore e re d'Italia. Avrebbe il duca desiderato trovarvisi in mezzo a tanti altri principi concorsi allo splendido corteggio; ma il papa nol volle. Ottenne poi di potervi andare nel marzo, e dopo molte dispute fu stipulato un compromesso delle vicendevoli pretese nel giudizio di Carlo V da essere pronunciato fra sei mesi. Nel frattempo Modena fu consegnata all'imperatore che vi si recò in compagnia del duca, indi passarono entrambi a Mantova ove Alfonso I conseguì colla spesa di cento mila ducati d'oro l'intiera investitura di Carpi. — Nell'accompagnamento di molti gentiluomini che il duca ebbe in questi viaggi è molto probabile vi fosse compreso l'Ariosto; essendo poi certo che nel mese di novembre passò col medesimo a Venezia, come si rileva da una lettera che Lodovico scrisse dopo il suo ritorno a Ferrara il 22 gennaio 1531 a nome d'Alessandra Benucci vedova Strozzi (pag. 323). Non comprendiamo poi come il Baruffaldi[126] possa credere che il poeta si portasse a Venezia «per attendere ad una nuova ristampa del suo Furioso», quando il poema non fu ivi riprodotto nel 1530 una sola volta ma quattro, essendo ancora per uscirne una quinta pubblicata in gennaio dell'anno seguente, e quando tutte cinque, compresa quella dei Sessa citata dal Baruffaldi, seguono il testo vecchio e non portano correzioni dell'autore: unicamente il tipografo Zoppino ferrarese introdusse per la prima volta nella sua edizione veneta del 1530 in-4º le figure in legno ad ogni canto.

A questo tempo era certamente seguito il matrimonio dell'Ariosto colla Benucci, poichè vediamo ch'egli di suo pugno scriveva lettere in di lei nome ai parenti della medesima colla più grande intimità. — Dovendo poi tali nozze rimanere avvolte nel segreto, essendo periglioso il dirlo altrui per non perdere le rendite ecclesiastiche de' suoi beneficî, il nostro autore non palesò in quelle lettere il proprio nome (chè una gli fu aperta con frode, — pag. 289), accennandosi soltanto pel cancelliero di madonna Alessandra. Costretto a vivere da lei separato di casa (pag. 296), era non ostante sì al colmo della letizia, che la sovrabbondanza del cuore diffondendosi nella fronte e negli occhi, traevalo a darvi sfogo con un'elegia, nella quale tace la cagione ond'è mosso ma deve assegnarsi al pieno conseguimento della donna che, sebbene inoltrato degli anni, amava con trasporto giovanile; facendoci pur conoscere in altra ancor più espressiva elegia di aver fruito in antecedenza di qualche furto d'amore, non si sa poi con qual dea[127], e come altresì lascia dedurre da parecchi de' suoi sonetti.

Stando al Litta, da questo matrimonio sarebbe nata una figlia l'8 novembre 1531, cui fu posto il nome di Lodovica. Se ciò è vero, convien dire che morisse assai presto, non facendone l'Ariosto parola nel suo ultimo testamento.

Carlo V pronunciava intanto sentenza nella lite tra il papa e il duca di Ferrara, nella quale si confermava a quest'ultimo il possesso di Modena, Reggio e Rubiera, purchè chiedesse perdono a Clemente VII d'ogni mancato riguardo, portasse a settemila ducati d'oro l'annuo censo di Ferrara, e pagasse all'imperatore per la nuova investitura che gli avrebbe fatto di Modena altri cento mila ducati per una volta tanto. Il duca ne fu molto lieto; nè gravandogli la spesa, poichè facendo allora mercanzia si trovava assai danaroso[128], fu sollecito all'adempimento delle condizioni; mentre il papa strepitava e dichiarava che lui vivente non avrebbe mai approvato quel lodo.

Nell'estate di detto anno 1531 essendosi Alfonso portato ai bagni d'Abano, vi andò seco l'Ariosto ove ammalò di febbre. Voleva subito restituirsi a Ferrara, ma il cavalier Obici, che pur trovavasi ai bagni, lo persuase a seguirlo nella vicina città di Padova e fermarsi in sua casa finchè fosse ristabilito. Quivi ebbe un'altra febbre che fu dichiarata terzana; e mentre attendeva a riaversi sopraggiunse il duca che il volle a Venezia con lui, come lo stesso Ariosto c'informa in una lettera scritta a nome di Alessandra (pag. 325).

Ritornato nel settembre a Ferrara, il duca ebbe avviso che il papa radunava degli uomini d'arme che si dicevano destinati a ricuperar Carpi ad Alberto Pio. Disponendosi perciò a farne buona difesa, chiese all'uopo soccorso a don Alfonso Davalo marchese del Vasto comandante le truppe imperiali in Mantova, e spedì tosto l'Ariosto a concertarsi col medesimo. Il nostro poeta lo trovò in Correggio in casa della celebre Veronica Gambara, ov'era passato a porre il suo quartier generale; ed è facile il comprendere quanto il poeta vi fosse accolto con ogni festa e favore, avendolo il marchese, grande estimatore degli uomini d'ingegno, regalato al partir suo di un bellissimo lapislazzoli, di una catena d'oro e di una pensione di cento ducati l'anno per sè e suoi eredi, stipulata per atto notarile fatto in Correggio il 18 ottobre 1531, e come apparisce dalla lettera dell'Alessandra Benucci vedova Strozzi che pubblichiamo (pag. 327).

Questi apparecchi fecero dimettere al papa il pensiero d'invadere gli stati d'Alfonso. Sembra per altro che si tramasse una nuova congiura per ucciderlo con tutta l'Estense famiglia: ma venendo, come sempre, scoperto il funesto disegno, Bartolomeo Costabili, vecchio di ottantaquattro anni, fu sui primi del 1532 decapitato, e la testa ebbe infissa in un'asta su la parte più alta del castello.

In quest'anno l'Ariosto si accinse alla terza sua ristampa dell'Orlando furioso corretto ed accresciuto, non isdegnando di averlo prima sottoposto al Bembo e ad altri uomini dotti «per imparare quello che per lui non era atto a conoscere» (pag. 282); così umilmente scrivea di sè stesso, così era difficile a contentarsi del proprio giudizio. L'edizione fu cominciata nel maggio e terminata in Ferrara, per maestro Francesco Rosso da Valenza, addì primo d'ottobre MDXXXII. Rivide ei medesimo con somma pazienza e fatica le bozze di stampa; e trovandosi esemplari che hanno fra loro alcune varietà, è manifesto che a quando a quando faceva interrompere la tiratura dei fogli per introdurvi nuovi miglioramenti. Al canto nono cominciano le più notabili mutazioni e le aggiunte qui e là nel poema, che con nuovo ordine portò a canti 46. Confrontando questa colle antecedenti impressioni «apparirà incomprensibile (dice il Foscolo) come uno scrittore che incominciò dal peccare sì grossamente contra le regole del buon gusto e della dizione poetica, potesse in seguito espungere tali colpe, e mettere in loro luogo così gran numero di trascendenti bellezze»; ma lo studio che l'Ariosto confessa di aver fatto delle grazie native dell'idioma toscano[129], e il continuo mutare e rimutare de' suoi versi in cui seppe per più anni persistere, lo condussero a vincere ogni difficoltà, a raggiungere una forma vigorosa e corretta, armoniosa ed espressiva, onde viene a formarsi quel mirabile accordo di pregio poetico che tanto risponde alla vaghezza dei fatti che trattano

Di donne e cavalier, d'armi e d'amori.

«L'Ariosto avea pensato sull'arte e sul gusto de' suoi coetanei, e una lunga esperienza gli aveva giovato. Ei tenevasi certo del buon effetto del suo poetare.... di quel suo metodo di complicare l'azione principale frapponendovi gran varietà di favole secondarie, le quali, sebbene possano sviare chi legge, pure hanno virtù di colpirgli la fantasia, e di strascinarlo alla catastrofe del poema, dove si vede lo scioglimento delle varie avventure. — Egli inebria la fantasia, vuole che quanto a sè piace piaccia anco a noi, che solo vediamo ciò ch'egli vede. — Nell'istante medesimo che la narrazione di un'avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorìo di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si mischiano, poi tornano a dividersi, poi si precipitano in direzioni diverse; talchè il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del pescatore, che attonito all'armonia de' mille strumenti che suonano nell'isola di Circe, pende le reti.... e ode»[130].

Con lettera del 9 ottobre 1532 mandò «innanzi a tutti gli altri» un esemplare del Furioso alla marchesana Isabella di Mantova cui sapeva essere gratissime le composizioni di lui (pag. 302): ma quando aveva il maggior bisogno di riposarsi dell'affoltata fatica dell'opera, e godere in tutta quiete le felicitazioni degli amici e degli uomini celebri di quel tempo ch'egli andò sempre più lodando o rammentando nel suo poema, fu costretto portarsi in compagnia d'Alfonso I il 7 novembre in Mantova all'arrivo dell'imperatore; chè il duca voleva spesso l'Ariosto a sè vicino, e molto più adesso per l'ambizione di mostrar nel suo séguito il poeta che ognor saliva in maggior fama e che formava l'invidia delle altre corti.

In Mantova l'Ariosto presentò a Carlo V il suo poema che in questa edizione lo colmava di lodi, e fu detto che l'imperatore dichiarasse di voler rimeritare il poeta con imporgli sul capo la corona d'alloro. Il pensiero potè essere suggerito dal marchese del Vasto, che anch'esso si trovò per riconoscenza encomiato[131]: ma l'incoronazione solenne, come l'uso e la dignità Cesarea richiedeva, non lasciò forse campo di essere preparata nel breve soggiorno che il monarca fece in quella città, e venne impedita per sempre dalla prossima morte dell'Ariosto[132].

Dopo l'assenza di oltre un mese, il nostro autore si restituì a Ferrara in istato di assai debole salute; e avendogli il principe Guidobaldo della Rovere richieste alcune commedie che non fossero sino allora rappresentate, gli rispose il 17 dicembre dolersi di non poterlo soddisfare, e gli narrò di aver composte solamente quattro commedie, i Suppositi e la Cassaria rubategli dai recitatori e stampate con suo dispiacere, la Lena e il Negromante recitate soltanto a Ferrara. Gli aggiunse pure che molti anni addietro ne cominciò un'altra intitolata I Studenti che mai ebbe tempo di ripigliare, e che quando la conducesse a fine non potrebbe esimersi che il duca suo signore ed il principe don Ercole non la facessero eseguire nel loro teatro di corte prima che altrove ne fosse mandata copia (pag. 303).

Il 25 detto mese scrisse anche a nome della moglie una lettera, che è l'ultima che abbiamo di lui (pag. 335): ma costretto poco dopo a mettersi in letto, prevedendo vicino il suo termine, fece l'abbozzo di un secondo testamento in cui lascia un legato alla magnifica Alessandra Strozzi, erede il figlio Virginio, ed un assegno vitalizio all'altro figlio naturale Gio. Battista, chiamato pure a sostituire Virginio nell'eredità.

La notte del 31 dicembre 1532 «s'accese il fuoco in una bottega di Francesco Zangarino sotto la loggia del palazzo ducale, e irreparabilmente arse tutta la parte dinanzi del detto palazzo dal canto della piazzetta fin sopra la porta del cortile alle due statue di bronzo, e fu cosa orrenda e giudicata prodigiosa. Nella gran sala era la bella e ricca scena dell'Ariosto, che tutta rimase estinta; e quella notte istessa s'infermò il detto poeta, che morì poi il 6 di giugno del seguente anno»[133]. Travagliato, secondo il Pigna, da «un'ostruzione alla vescica, alla quale volendo i medici Bonaccioli, Manardo e Canani, i primi di Ferrara, con acque aperitive porger rimedio, gli guastarono lo stomaco; e soccorrendosi con altre medicine a quest'altra indisposizione, cadde nell'etica», e finì di vivere con dolore di tutti nell'ancor verde età di 58 anni, mesi 8 e giorni 28.

«Dalla sua casa posta nella via di Mirasole, dove morì, fu portato da quattro uomini notte tempo con due lumi soli alla chiesa vecchia di san Benedetto, accompagnato però da quei monaci spontaneamente e fuori del loro costume; tratti, come scrive il Garofolo, dall'amore che portavano alle sue rare virtù. Ivi fu sotterrato assai semplicemente, com'egli aveva voluto e prescritto nell'ultimo suo testamento»[134]. Il fratello Gabriele desiderava innalzargli un monumento, e il figlio Virginio fece anzi fabbricare una cappella in capo all'orto della sua casa, intendendo trasportarvi le ossa del padre; ma la traslazione non seguì che nel 1573 in un decoroso sepolcro di marmo eretto nella nuova chiesa dei detti monaci a spese di Agostino Mosti che gli fu discepolo, indi nel 1612 in un altro più ricco a spese di Lodovico Ariosti pronipote del poeta, e finalmente nel 1801 con molta pompa e solennità nella pubblica Biblioteca di Ferrara, essendone stato promotore il francese generale Miollis.

Il figlio Virginio si studiò sempre di onorare la memoria del padre. Raccolse le poesie latine di lui e diedele al Pigna che le stampò colle sue e con quelle del Calcagnini nel 1553: somministrò ad Antonio Manuzio cinque canti in ottava rima che uscirono nel 1545 in aggiunta al Furioso, senza però seguirne regolarmente la materia[135]: dettò alcune Memorie da servire di buona traccia ad una vita che doveva farsi del grande poeta, e condusse a termine la commedia I Studenti che fu dall'autore lasciata imperfetta. Di questa fatica di Virginio non giunse a noi che il solo prologo: fu però completata anche dal fratello Gabriele, ed è la commedia che abbiamo col titolo La Scolastica. — Ignoriamo a chi debbasi la prima e cattiva stampa fattasi nel 1534 delle Satire, che, dopo il poema, sono il lavoro più importante e lodato dell'Ariosto; e senza estenderci a parlare delle altre opere minori di quest'ingegno privilegiato, rimettendoci al giudizio autorevole di Filippo-Luigi Polidori che le illustrò (Firenze, 1857), rigettandone alcune di non sincera derivazione, e movendo dubbii sopra la schietta legittimità di altre; aggiungeremo alla volta nostra che dove l'Erbolato, venuto in luce nel 1545 a cura di un Jacopo Modanese, ci sembra una prosa troppo fiorita ed elegante, così il frammento del poema il Rinaldo ardito si mostra al contrario di locuzione troppo rozza ed impropria per essere l'uno e l'altro attribuiti con certezza all'Ariosto. E tornerebbe un po' strano che mentre adoperava in confidenza e correntemente le parole raccomando, berretta, camera, gagliardo, figlio, reliquia, ecc., come rilevammo dagli autografi indubitabili delle lettere di lui esistenti nell'Archivio di Stato in Modena, venisse poi nel comporre studiosamente in versi ad alterare siffatte parole con arricomando, bretta, ciambra, fio, galgiardo, relliqua che si veggono nel Rinaldo ardito: il quale avendo allusioni storiche relative al 1525, è per lo meno posteriore di cinque anni alla dichiarazione che l'Ariosto fece nel Prologo della commedia il Negromante, di attendere il più che poteva a nascondere nelle sue scritture la pronunzia lombarda. Aggiungasi inoltre che il ms. originale del frammento di poema, chiamato dal Baruffaldi un primo abbozzo, è sparso di corretture e varianti che mostrano esservisi tornato sopra più volte. Ciò non ostante occorrono spesso, fra gli altri difetti, certi troncamenti di voci che l'Ariosto non usò mai, compresa la prima edizione del Furioso uscita nel 1516, con sì riprovevole licenza; tali essendo: car per carro, col per collo, don per donna, fer per ferro ecc.; troncamenti che potendo anche volgersi a diverso significato, è un'ingiuria il ritenere che siano caduti dalla penna del nostro poeta[136]. A malgrado dunque dell'asserzione, però unica e non abbastanza apprezzabile, del Doni che assegna il Rinaldo ardito a Lodovico Ariosto, e a malgrado di qualche somiglianza col carattere e talora pure coi concetti del nostro autore, amiamo credere che il frammento medesimo sia opera del figlio Virginio, il quale vivendo col padre e avendo tutto per la mente il Furioso, potrebbe essersi ancora approfittato di alcune abbandonate lezioni di stanze o versi del poeta, trovate fra le carte di lui, con introdurle qui e là e alla fine dei canti. Del resto se i frammenti del Rinaldo ardito fossero stati composti da Lodovico, non avrebbe dovuto mancare Virginio di accennarlo nelle Memorie lasciateci intorno a suo padre.

Ritornando ora al duca Alfonso di Ferrara, sempre avversato dal governo di Roma, l'imperatore per favorirlo persuase il papa della necessità di chiamarlo a far parte di una nuova lega per la pace d'Italia, accordandogli una tregua di diciotto mesi. Clemente VII per tal concessione ebbe il vantaggio di veder cacciare dagli stati del duca i rifugiati della breve sì, ma nobile e nazionale repubblica di Firenze, che avevano abbandonata la patria per non soffrire il giogo dei Medici. — Avvicinavasi il tempo che la tregua doveva scadere e tornavano a ridestarsi nel duca le antiche sospettose inquietudini, quando il 25 settembre 1534 la morte del papa gli mostrò anche una volta il favore della fortuna. La successione seguìta poco dopo (28 ottobre) di Alessandro Farnese, padre di Pier Luigi, creatura di casa Borgia, che prese il nome di Paolo III, mise il colmo alla contentezza del duca. Ma doveva per pochi giorni goderne. L'uomo forte che tanti papi non aveano potuto non che abbattere piegare, che aveva saputo sciogliersi da tante insidie, affrontare e vincere tanti pericoli, era costretto morire il 31 ottobre per la più frivola causa, come il fratello cardinale; per aver mangiati troppi poponi[137].

Dice il Pistofilo che il duca Alfonso «più tosto maninconico e severo, che lieto e giocondo.... fu poco amico della frequenza.... ed ebbe e volse che si avesse rispetto grandissimo all'onor delle donne, di qual grado fossero, da tutti i suoi sudditi; dalle quali continentissimamente si astenne»[138]. Non troviamo che ciò sia confermato da altre memorie, sapendosi inoltre che fu spesso travagliato dal mal francese. Ne' diari veneti scritti dal Sanuto leggesi sotto il 1497: «Pochi zorni fa don Alfonso fece in Ferrara cosa assai lizera, che andoe nudo per Ferrara, con alcuni zoveni in compagnia, di mezo zorno»[139]. Anche nelle cronache di Francesco de' Mantovani troviamo che al prete Gianni suo cantore «il duca voleva molto bene, che lui in persona l'andava a torre di casa tre e quattro volte il giorno, e lo toglieva in groppa e andavano per la terra a bordello»; e così nel processo che fu poi fatto a Gianni prima di metterlo nella gabbia di ferro e strozzarlo, «il traditore confessò avergli una volta legato in casa di una sua femina le mani, mostrando di scherzare con lui, e poi disse a uno famiglio: va, ammazza colui ch'è suso in letto. Il famiglio vi andò, e il signore disse: sligami col malanno!»[140].

Quando il duca rimase vedovo la seconda volta, tenne presso di sè una giovane di rara bellezza chiamata Laura Dianti figlia di un berrettaio di Ferrara, e le diede il cognome di Eustochia per indicare i suoi pregi. N'ebbe due figli, Alfonso ed Alfonsino che cercò legittimare. Il Muratori nelle sue Antichità Estensi ritenne aver provato che Laura fu sposata dal duca Alfonso negli ultimi periodi della sua vita: però un documento pubblicato in Firenze nel 1845[141], contenente una donazione e codicillo d'esso duca alla donna, mostra ch'egli cinque giorni prima di morire non pensava ancora di farla sua moglie. — Clemente VIII non volle mai riconoscere i discendenti di Laura per legittimi successori del ducato di Ferrara, il quale nel 1598 tornò finalmente ad essere aggregato al governo della Chiesa.

Succeduto al duca Alfonso il figlio primogenito Ercole II, ed essendo anche morto il fattore generale Alfonso Trotti, non tardarono i fratelli Gabriele, Galasso e Alessandro Ariosti ed il loro nipote Virginio di sottoporre una prece al novello duca per ottenere che fosse terminata con giustizia la causa delle terre livellarie ereditate da Rinaldo Ariosto, essendo da «quindici anni straziati e menati in lungo dalle cavillazioni e calunnie sì del fattore passato, come d'altri procuratori, notari ed agenti della sua ducal Camera» (Documento XVII). Il 23 dicembre 1534 Ercole II decretò che i fattori generali spedissero la causa con giustizia e rigettassero tutte le calunnie e cavillazioni: ma non pare che il rescritto sortisse l'esito bramato, conoscendo in vece che le terre in contesa, che formavano la bella tenuta in Bagnolo, detta delle Arioste dal nome degli antichi possessori, furono assegnate in dote ad una Estense maritata in Bevilacqua, per indi passare in proprietà dei Gesuiti.

Il Municipio di Ferrara deliberò nell'anno 1872 di promovere e ordinare feste nazionali ad onore di Lodovico Ariosto in occasione che nell'8 settembre 1874 veniva a compiersi il quarto centenario dalla sua nascita, nominando a tale effetto un Comitato. Ma i disastri apportati poco dopo dal Po al territorio ferrarese, cui fu d'uopo riparare, le deliberate onoranze vennero rimandate al 1875.

La città di Reggio, ove nacque l'Ariosto, amò anch'essa celebrare quel centenario e l'8 settembre 1874 una lunga schiera di persone autorevoli seguita da molto popolo si recò alla vicina villa di S. Maurizio a visitarvi il casino ove l'immortale poeta passò i più bei giorni della sua giovinezza. Dopo lettura di applauditi componimenti in versi ed in prosa allusivi alla circostanza, il signor Giuseppe Turri principal promotore della festa offerse in dono al Municipio come preziosa reliquia sotto cristallo una falange d'un dito dell'Ariosto che fu sottratta nel trasporto delle sue ossa seguito nel 1801, regalando pure i tre atti autentici che si riferiscono al detto trasporto e che erano rimasti ignoti, facendoli poi anche stampare in appendice alla Relazione di questo centenario (Reggio, Calderini, 1875-76).

Le feste splendidissime di Ferrara ebbero luogo dal 24 al 30 maggio 1875 in mezzo ad una popolazione esultante, ed essendovi accorsi molti illustri personaggi e rappresentanti d'ogni parte d'Italia, le accoglienze oneste e liete furo iterate in tutti que' sette giorni.

Dal centenario Ariosteo derivarono pubblicazioni, tanto per invito speciale del Comitato quanto per impulso spontaneo, le quali tornarono a vantaggio delle lettere e ad onore dell'insigne poeta, come sono in particolar modo: 1º l'Orlando furioso secondo la prima stampa del 1516 (Ferrara, Taddei, 1875, in 2 volumi), con prefazione del prof. Crescentino Giannini, uno de' componenti il Comitato Ariosteo. — 2º Le satire autografe di Lodovico Ariosto pubblicate a cura del Comitato (Bologna, per Giulio Wenk litografo, 1875), con prefazione del prof. Prospero Viani. — 3º Delle poesie edite e inedite di Lodovico Ariosto, studi e ricerche di Giosuè Carducci (Bologna, Zanichelli, 1875, in-8º), che l'autore e l'editore dedicarono all'inclita città di Ferrara festeggiante il IV centenario. Del presente libro ci siamo qui addietro giovato, e il merito del medesimo apparisce per sè chiaro abbastanza, avendo ottenuto una seconda edizione con emendazioni ed aggiunte nel successivo anno 1876, in-16º. — 4º Le fonti dell'Orlando furioso, ricerche e studi di Pio Rajna (Firenze, Sansoni, 1876) per invito del Comitato suddetto; ed è lavoro di gran polso e di rara erudizione che spazia su tutta l'epopea romanzesca e che più nulla lascia a desiderare in proposito, con aver prestato altresì occasione allo stesso autore di addentrarsi maggiormente in siffatti studi e offerirci le Origini dell'epopea francese (Firenze, Sansoni, 1884); opera che presentata in concorso d'altri all'Accademia dei Lincei ottenne il premio.

Il Comitato Ariosteo stampò la Relazione delle feste celebrate in Ferrara nel maggio 1875 coi Discorsi accademici ecc. (Ferrara, Taddei, 1875), e avendo pure commesso a Pietro Cossa di scrivere una commedia in versi che riescì di cinque atti con un prologo, intitolata l'Ariosto e gli Estensi, si recitò la sera del 26 maggio dalla Compagnia drammatica Ciotti-Marini; e quantunque riscuotesse applausi dal numerosissimo uditorio, fu dagli intelligenti giudicata inferiore alla fama dell'autore del Nerone. Venne però anch'essa pubblicata (con appellativo di dramma) in Torino, Casanova, 1878.

Ove a taluno per avventura sembrasse che noi siamo stati troppo proclivi a cercar biasimo alla memoria del duca di Ferrara, ch'ebbe pur esso il suo lato buono, e comecchessia raggiunse sempre il suo intento, lo rimandiamo al documento XIV, in cui la Curia di Roma lo accusa ad esuberanza di aver fatto scrivere un testamento falso dopo la morte repentina del card. Ippolito suo fratello per usurparne l'eredità ch'era di soli beni della Chiesa: lo accusa di altre falsificazioni di processi, e «sannolo li infelici fratelli (don Ferrante e don Giulio) crudelmente incarcerati, sallo il sangue e le viscere di quelli gentiluomini dilacerati»: lo accusa di aver fatto «publice predicare la dottrina dell'eretico Martino Lutero dal suo barbato frate Andrea da Ferrara, che ancor maggiori errori publicò delli luterani, ed esser causa d'eresia»: lo qualifica un crudele tiranno che rubò ad altri quanto questa casa ha mai posseduto, per violentare li poveri sudditi e mungerli sino al sangue: lo dice ingiusto, iniquo ed empio; voragine d'avarizia, insidiatore di tutti i buoni, per esser lui perversissimo; pietra di scandalo d'Italia, atroce inimico della santa Sede ecc. — Ma nella dispiacenza di esserci troppo sovente incontrati nel male, tanto in riguardo alle azioni del duca Alfonso I che a quelle del cardinale Ippolito, ci conforta il sapere, che abbiam desunto ogni fatto da documenti irrefragabili, e che d'altronde «nella verità intieramente conosciuta e riguardata rettamente non può non essere moralità», com'ebbe a scriverci il ch. Niccolò Tommaseo.

Lettere di Lodovico Ariosto

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