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ОглавлениеSol gli restò immortale
Memoria ch'ei non vide in tutta quella
Bella città di lei cosa più bella[55].
E la Benucci accolse e gradì l'amore del poeta, riempì degnamente il vuoto ch'egli aveva nel cuore, gli fu dolce stimolo a completare il suo poema che aveva bisogno di grande opera, nè era limato nè fornito ancora (pag. 22); ed anzi fu detto ch'ella esigesse ogni mese un canto ricorretto del Furioso. L'Ariosto si trattenne in Firenze quasi due mesi nella diletta compagnia della donna amata, ne' cui begli occhi e nel sereno viso andava errando il suo ingegno, ch'egli, vestendo immagini colle grazie d'Anacreonte, chiedeva di poterlo raccogliere colle labbra[56].
Verso la fine del 1513 essendosi il cardinale Ippolito ridotto a Ferrara, anche l'Ariosto fu obbligato a seguirlo, e così fece poco dopo la Benucci. Ivi terminò di rivedere il suo poema, che nel 1515 cominciò a stamparsi da Giovanni Mazzocco del Bondeno, con essere colà pubblicato il 22 aprile del 1516 in 40 canti; avendo prima chiesto e ottenuto privilegi che lo guarentissero da ristampe arbitrarie. Ne mandò subito un esemplare al cardinale cui era dedicato e che allora trovavasi a Roma: e quando al ritorno del medesimo a Ferrara, che fu il 7 giugno[57], aspettavasi ringraziamenti e favori per averlo sì altamente celebrato con tutti quelli di casa d'Este, udì invece chiedersi dal cardinale: Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante corbellerie? Le quali parole, se pur furono veramente pronunziate, come passarono in tradizione, non possono ritenersi dirette che in via di scherzo, e per ostentare noncuranza delle lodi a lui prodigate: poichè sappiamo che il cardinale aveva cognizione del poema avanti che andasse alla stampa[58], la cui spesa sarebbe stata da lui assunta, come sembra apparire dalla lettera scritta al cognato marchese di Mantova in data 17 settembre 1515 nella quale chiede di poter estrarre da Salò nientemeno che mille risme di carta esenti da dazio per farne l'edizione[59]. È però indubitabile che il poco grato mecenate, se intendevasi di matematica e filosofia, non aveva certo alcun gusto poetico, avendo detto all'Ariosto che non faceva degni di mercede gli elogi datigli a piacere e in ozio, e che avrebbe preferito fossegli stato appresso per adempiere alle commissioni che a lui piacesse affidargli. Di che il poeta risentitosi, séguita nella Satira II a lamentarsi del cardinale, che dopo averlo mandato tante volte a correre in fretta per monti e balze a scherzar colla morte, mostra poco apprezzarlo, non sapendo smembrar starne in aria sulla forchetta, mettere il guinzaglio a' cani e sparvieri, nè potendo adattarsi a porre o cavar speroni, ch'erano i servigi riconosciuti dal suo signore. Lamenti forse alquanto esagerati, se pur fu vero che il cardinale facesse a tutte sue spese l'edizione prima del Furioso, o non avesse soltanto procurata l'esenzione del dazio della carta di cui occorsero sole duecento risme; conoscendosi ancora che tanto il cardinale quanto il duca Alfonso acquistarono parecchi esemplari del poema.
L'anno dopo il cardinale chiese a messer Lodovico di seguirlo in Ungheria. Addusse egli motivi giusti di salute (catarro e debolezza abituale di stomaco) che non permettevangli d'intraprendere un lungo viaggio, nè affrontare un cambiamento di clima che poteva riescirgli funesto; come fu anche dichiarato dal Valentini modenese medico dello stesso cardinale. Queste ragioni non furono ammesse: ma persistendo l'Ariosto nel suo rifiuto a partire, anche per fare un'ammenda della soverchia servilità del passato, il cardinale se ne adontò, commettendo l'imperdonabile risoluzione di congedarlo da sè, togliendogli ogni assegno, sino a due beneficî ecclesiastici che gli avea procurato, e dei quali volle fatta rinunzia a favore di altri suoi famigliari designati da lui. Dovette solo conservargli quello su la cancelleria di Milano perchè in società col Costabili di Ferrara, e perchè pochi mesi prima aveva scritto a Ruffino Berlinghieri suo vicario in Milano[60] le lettere in favore dell'Ariosto da noi riportate a pag. 306, 307. — D'allora in poi Lodovico non comparve più innanzi al cardinale, che mostrò averlo in dispetto, mentre il nostro poeta sempre buono e cortese, ad onta dell'ingratitudine sofferta, continuava ad offrirsi al suo primo signore per servirlo «di càlamo e d'inchiostro in Ferrara, ove con chiara tromba farebbe sonar alto il suo nome» (Satira II); dubitando quasi di non aver detto abbastanza per appagarne l'orgoglio! Al novembre del 1517 l'Ariosto pensò di trasferirsi a Roma per assicurarsi con una bolla papale, or che mancavagli il favore del cardinale d'Este, i beneficî di Milano e sant'Agata (Satira I), tentando ancora di procacciarsi altrove un impiego, poichè vedevasi negletto a Ferrara. Di ciò fu avvertito il duca Alfonso, il quale riflettendo all'enorme vergogna che sarebbe derivata alla casa d'Este col permettere che il poeta che l'aveva sì altamente celebrata si trovasse costretto a chieder servigio presso altra corte, lo nominò il 23 aprile 1518 fra' suoi famigliari coll'assegno di otto scudi al mese, oltre il vitto per tre domestici e due cavalli.
Alfonso I, che in parte abbiamo imparato a conoscere, nacque il 21 luglio 1476 da Ercole I ed Eleonora d'Aragona. «Fu piuttosto maninconico e severo che lieto e giocondo.... si dilettò d'aver cognizione di tutte quelle cose che non solamente a S. Signoria, ma anco a private persone son convenienti.... e della maggior parte di quelle arti, che sono ad uso e necessità degli uomini, sapea più che mezzanamente parlare, e di molte eziandio di propria mano lavorare, non mediocre nè volgarmente; delle quali, sendo poi anco duca, si prese spasso ed esercizio.... Ebbe profondissimo giudicio di artiglieria, e fu inventore di nuove forme di essa a farle più comode e più perfette che fin al tempo suo state non erano; e fecene fare gran quantitade»[61]. l'imperatore Napoleone III conferma questo merito di Alfonso «nell'aver dato opera ad un'artiglieria stupendamente mobile ed efficace»[62], con riportare un brano delle Memorie di Fleurange, che in due armerie vide circa trecento grossi cannoni appartenenti al duca, ove dice «non trovarsi tra suoi maestri di getto chi operasse meglio di lui». E mostrossi pure appassionato ed esperto in adoperarli, come abbiam veduto alla battaglia di Ravenna, e come troviamo che fece all'espugnazione di Legnago, scrivendo il primo di giugno 1510 al fratello cardinale, ch'egli era diventato cannoniero vero, che i suoi cannoni tiravano benissimo con il diavolo da 35 a 40 colpi il giorno (risultato assai raro in que' tempi), e che se non avesse sentito affanno per la notizia allora giuntagli della pace conclusa dal papa coi Veneziani, rompendo la lega di Francia, mai sarebbe stato più contento (Doc. XI)[63].
Nel 1491 Alfonso si unì in matrimonio con Anna Sforza sorella del duca di Milano, e a festeggiare per tre giorni queste nozze in Ferrara fu ripetuta nella sera del 13 febbraio la commedia de' Menecmi di Plauto, «con tanto modo et gratia, che da tutti fu commendata.... e il fine della commedia fu, che essendosi riconosciuti Menechino et il fratello, e volendo ritornare con lui a casa, esso Menechino fece mettere alla crida tutti li soi beni, dicendo volerli dare per 1700 onze d'oro, con la moglie sopra il prezzo», come rileviamo da una lettera al duca di Milano scritta il giorno successivo da Ermes Maria Sforza e da Gio. Francesco Sanseverino i quali accompagnarono con altri 200 fra gentiluomini e cortigiani la sposa a Ferrara[64], e la sera dopo fu recitato anche l'Anfitrione tradotto da Plauto, con intermezzi in ambe le commedie di danze, canti ecc.
Anna Sforza morì di parto nel 1497 senza lasciar prole; e poichè Alfonso nell'agosto 1500, in cui Lucrezia Borgia restò vedova, non erasi ancora determinato a riprender moglie, Alessandro VI, che sempre pensava a più illustri nozze per la figliuola, incaricò il cardinale Ferrari modenese di scrivere al duca Ercole (18 febbraio 1501) e proporgli la mano di Lucrezia pel principe ereditario di Ferrara. Il duca se ne adontò e diede un assoluto rifiuto, essendosi altresì manifestata la maggior ripugnanza da parte di Alfonso e di tutta la famiglia d'Este. Ma il papa, ottenuto pure l'appoggio del re di Francia, insistette tanto col far conoscere i grandi vantaggi di tale unione e i danni che verrebbero dal ricusarla, che riescì a vincere la contrarietà del duca: il quale riguardando queste nozze come un ottimo affare di Stato, pose innanzi delle alte pretese, che vennero quasi tutte accettate.
Un corteo guidato dal cardinale Ippolito d'Este composto di un'eletta cavalcata di 500 persone per andare a pigliare la sposa uscì da Ferrara il 9 dicembre 1501 e giunse a Roma il 23 detto mese, accolto colle maggiori dimostrazioni d'onore. Roma era tutta in festa, avendo il papa ordinato che da quel dì incominciasse il carnevale, e ne' seguenti furono dati spettacoli intesi ad esaltare le due congiunte famiglie Borgia ed Este. Il penultimo giorno dell'anno fu ripetuta in Vaticano d'ordine del papa la cerimonia dell'anello che don Ferrante a nome del fratello pose in dito alla sposa, stando il papa sul trono e avendo intorno 13 cardinali e il figlio Cesare.
Lucrezia nel colmo della contentezza, dopo aver ottenuto dal papa quelle grazie che il duca Ercole fece chiedere col di lei mezzo[65], impaziente di abbandonar Roma, partì il 6 gennaio 1502 con un corteo da regina, accompagnata sino a porta del Popolo da tutti i cardinali, ambasciatori e magistrati, e giunse la sera del 31 detto mese al castello Bentivoglio sul bolognese a 20 miglia da Ferrara. Colà ebbe la grata sorpresa d'incontrarsi col marito Alfonso che le si presentò travestito, e trattenutosi alquanto con lei, ripartì nella stessa sera. La Borgia fece la sua solenne entrata il 2 febbraio in Ferrara ove le feste nuziali si protrassero con banchetti, balli e rappresentazioni teatrali per sei giorni[66], e fra i poeti che fecero omaggio de' loro versi alla sposa, anche l'Ariosto le offerse un epitalamio[67].
Quantunque Alfonso negasse fede alle turpitudini attribuite a Lucrezia, non poteva certo mostrarsi lieto, almeno in que' primi momenti, della bella moglie che tutti ammiravano, conoscendola pur sempre di fama assai compromessa per aver avuto due altri mariti: il primo (Giovanni Sforza signore di Pesaro) disgiunto da lei per imaginaria ed estorta dichiarazione d'impotenza, ch'ella offerivasi convalidare con giuramento; il secondo (Alfonso d'Aragona duca di Bisceglie che l'avea fatta madre d'un figlio) fatto strangolare sul proprio letto dal duca Cesare, scacciando dalla stanza Lucrezia la quale non ebbe ardire di opporsi; e perciò le accoglienze della nuova famiglia di cui veniva a far parte, riescirono «a dire il vero fredde», come si espresse la marchesana Isabella d'Este, che inoltre scriveva a Francesco Gonzaga suo marito: «La Ecc. V. non mi abbia già invidia di non esser venuta a queste nozze, perchè sono di tanta freddura, ch'io ho invidia a chi sono rimasti a Mantova»[68]. Però i vantaggi grandi che accompagnarono cotesto matrimonio[69] fecero presto dimenticare la vita passata da Lucrezia in Roma ove fu ceco strumento della ferrea volontà del fratello e del padre.
Morto Ercole I il 25 gennaio 1505, Alfonso come figlio primogenito gli successe nel dominio. Abbiam veduto i supplizi coi quali inaugurò la sua salita al potere e l'odio implacabile che mantenne contro i fratelli, che sono indizio di violente natura e di pessimo cuore: i fatti che veniamo narrando mostreranno altre colpe.
— Il poeta Ercole Strozzi, amico dell'Ariosto[70], era venuto in grande famigliarità e servitù con Lucrezia Borgia, che spesso lodò ne' suoi versi, per mezzo della quale sperava di poter conseguire il cappello cardinalizio: ma la notte del 6 giugno 1508 fu crudelmente assassinato e deposto morto, involto nel proprio mantello, davanti la casa che abitava[71]. Alla gelosia del duca per Lucrezia fu attribuita questa morte: però il Giovio, dicendola procurata da un personaggio di alto affare per motivo di Barbara Torello sposata di recente dallo Strozzi, e sapendosi altresì che la donna era amata e sollecitata dal duca[72], tutto induce a credere che l'assassinio venisse da lui ordinato, come ebbe a rimproverargli anche il papa, non essendosi pur fatta alcuna inquisizione per scoprire e castigare i colpevoli[73].
— Un notaro bolognese per certa causa che aveva in Argenta tra un famiglio di Ercole d'Este ed un balestriere per nome Gaione, li citò a Roma, sebbene Argenta alla morte di Giulio II fosse stata ricuperata dal duca. Trovandosi Alfonso I a Migliaro, i suoi quattro consiglieri di giustizia in Ferrara credettero necessario di non lasciare impunito l'ardimento di una tale citazione che scalzava di fatto l'autorità ducale, e tradotti nelle prigioni di Ferrara il notaro e i contendenti, chiesero con lettera del 3 ottobre 1520 il parere sovrano. Rispose egli a tre ore della notte seguente al suo segretario Obizzo Remo, irritandosi e lagnandosi che non avessero data un'immediata condanna di loro arbitrio, dicendo: «l'assenza nostra serviva benissimo in proposito, perchè sempre averessimo avuto la scusa accettabile quando altri si fosse querelato di cosa che fosse stata fatta in Ferrara essendo noi lontano; e massime che, come sarìa stato vero, sarìa anco stato ben credibile che non fosse passato di nostra scienza nè commissione, essendo la cosa sì presta che non aressimo potuto avere avviso di quella citazione e mandar commissione a quel tempo: sì che ci pare che tutti abbiate errato. E perchè ci domandate mo il parer nostro di quel che abbiate a fare, vi rispondemo che non sapemo che altro commettervi, se non che subito lasciate andare quello notario, così come l'avete fatto imprigionare, nol dovendo fare: e quando sarà lasciato, fatelo venire a voi e ditegli che subito che noi avemo inteso della sua cattura, avemo scritto che ci dispiace, e ch'ei sia liberato: benchè questo impiastro possa mal sanare lo error commesso. A quelli altri due (il famiglio e il balestriero), se ci è scusa alcuna legittima o colorata, fate che sian dati tre gran squassi di corda in piazza, e poi siano rimessi in un fondo di torre finchè loro sarà deliberato altro. Ma fate la nostra ambasciata alli compagni vostri, come è sopraddetto, con aggiunta d'un càncaro che vi venga a tutti quattro nel più brutto del corpo». Terminata appena la lettera gli dispiacque dover perdonare al notaro, e aggiunse l'iniquo poscritto che segue: «Prima che quel notario sia lasciato, mettete ordine col nostro collaterale, che trovi due o tre matti, fidati però, che lo vedano quando uscirà di prigione, per poterlo riconoscere, e poi l'abbino per spia quando se ne andrà; e in qualche loco ben comodo lo tirino da cavallo e lo strascinino per li capelli e lo schiaffeggino gagliardamente, pestandogli il volto e li occhi in modo ch'ei ne resti segnato e ne senta per un mese.... E potendo eseguir questo in loco da ciò, straccinogli tutti i panni d'addosso e lascinlo nudo: ma abbiasi avvertenza di far che quando lo vedranno uscir di castello, non siano visti da lui, acciochè poi egli non conoscesse alcun di loro in fatto». La lettera è di pugno del segretario Bonaventura Pistofilo, che in un brandello di carta staccata vi introdusse di nascosto queste parole dirette al Remo: «Prego la Mag. V. ed essa sarà contenta pregare per me li magnifici compagni, che mi perdonino se scrivo cosa che vi dispiaccia; chè certo l'ho scritto mal volontieri, ed anco ho scritto meno che non mi è stato commesso». — Non sappiamo come andasse a finire la scena traditrice preparata al notaro: troviam soltanto memoria che i magnifici consiglieri di giustizia restarono molto spaventati dell'ira che avevano involontariamente suscitata, e cercarono discolparsi. Il duca rispondeva: «Volemo che vi sia licito dir sempre la ragion vostra, ma noi anco volemo poter dire e scrivere a voi e alli altri quel che ci pare».
Or questo Pistofilo ci narra nella Vita di Alfonso I, ch'ei «fu amantissimo della giustizia, la quale molto costantemente e con grandissima integritade volle che fosse ministrata in tutto il suo dominio[74]», quando a nome del suo encomiato facevasi strumento per calpestare la medesima con turpitudine d'inganni e colorati pretesti che ne salvassero qualche grossolana apparenza!
— Nel 1508 Isabella vedova di Federico d'Aragona, spogliata del trono di Napoli, licenziata dalla Francia ov'erasi riparata, venne raminga a Ferrara con molti figli, e ottenne dal duca nato da un'Aragonese assegnamento e ricovero. Due figlie d'Isabella, già cresciute degli anni nelle strettezze della vita privata, neglette dai grandi com'è la sventura, non potendo aspirare nella posizione in cui erano cadute ad illustri nozze, si posero ad amoreggiare l'una con un mercante, l'altra con un Pugliese nominato Ferrante. Il duca venne presto a saperlo, e si lagnò di questo grande disordine col loro maggior fratello don Ferrante che era in Ispagna, scrivendogli il 9 maggio 1525 e proponendo gravissimi castighi, unicamente per evitare il pericolo di qualche scandalo vergognoso. Ritardando la risposta, spediva il 18 luglio altra lettera in duplicato esemplare, confessando che aveva più d'una volta pensato di far strangolare i due giovani innamorati e far chiuder le donne in separati conventi, ma che aveva con forzata pazienza voluto aspettare gli ordini del fratello da eseguirsi contro tutti, de' quali sarebbe stato fedele e severo esecutore. — Speriamo che don Ferrante si sarà contentato che i due giovani fossero allontanati da Ferrara, e che avrà riconosciute le sorelle degne di compatimento. — Più tardi il duca si mostrò molto sollecito in procurare che una di queste Aragonesi per nome Giulia facesse un matrimonio che secondava le sue viste col marchese di Monferrato. Ma l'infelice principessa pochi giorni dopo le nozze celebrate in Ferrara videsi spento il marito di veleno; poichè essendo egli l'ultimo dell'illustre famiglia Paleologa e mancando senza figli, il Monferrato doveva passare sotto il dominio del marchese di Mantova cognato di Alfonso I. L'ex regina Isabella, che costretta a vivere di una sprezzante elemosina era divenuta pia sollevando il cuore all'altezza del sacrificio, provò tanto orrore di questo delitto di avvelenamento che la condusse fra non molto alla tomba. Prima di morire aveva raccomandato con lettere al figlio suo primogenito le disgraziate sorelle, ed egli che allora trovavasi governatore in Granata le chiamò presso di sè, liberando il duca dal pensiero di cercare alle medesime altre ragguardevoli nozze.
Non aggiungeremo nuovi fatti, ritenendo gli esposti anche di troppo valevoli a farci conoscere il carattere del duca, che certamente non fu il migliore di tutti i suoi fratelli, senza parlare di don Sigismondo morto nel 1524, «perchè essendo stroppiato dal mal francese, poco potè adoperarsi in mostrar suo valore»[75].
Alla morte di Giulio II il duca erasi affrettato al tempo della sede vacante di ricuperare le sue terre di Romagna e la Garfagnana, ma dovette presto desistere udendo l'elezione di Leone X, per non compromettersi col novello papa, «che essendo cardinale avea così ben dissimulato che era creduto mezzo santo; ma riuscì poi tutto il contrario. Il detto duca andò a Roma alla sua coronazione e tornossene a Ferrara assoluto dal monitorio di papa Giulio, con un'amplissima bolla di papa Leone che gli promise molto ed osservò poco»[76]. — Trattava il duca coll'offerta di qualche somma di riaver Modena dall'imperatore Massimiliano, cui era stata consegnata, «il quale per essere nello spendere troppo profluso avrìa venduto poco manco ch'io non dico i denti per aver denari». Il papa sotto colore di agevolare il negozio accettò Modena in suo nome, sborsò quarantamila ducati all'imperatore, e fece formale promessa di restituirla al duca entro certo tempo a fronte del rimborso della somma pagata: «Non scrivo il termine prefisso a redimerla perchè il predetto duca mio Signore mai non lo potè sapere: chè se ben fu detto che era X anni, la copia dello strumento celebrato sopra ciò avea vacuo il luogo nel quale doveva essere dichiarato esso tempo!»[77]. Anche «il card. Ippolito stando in Roma, ottenne dal papa un breve per la restituzione di Reggio fra cinque mesi, con che il duca cessasse di fare il sale in Comacchio. Il duca mantenne la promessa; ma il papa in mille modi sempre l'ingannò»[78], fino a fargli depositare nelle mani dell'imperatore i quarantamila ducati del prezzo di Modena; senza poter però avere nè l'una, nè l'altra città. Nel 1518 il duca andò a Parigi a prestar omaggio al re Francesco nell'alleanza che questi fece col re d'Inghilterra e così implorare più validi uffici all'adempimento delle promesse del papa, ritornando a Ferrara il 20 febbr. 1519. Era in Parigi quando Raffaello Sanzio vi spedì il ritratto di Giovanna d'Aragona uscito dallo studio di lui; e il duca ne provò tale soddisfazione, che in data 29 dicembre 1518 ordinava al suo segretario Obizzo Remo: «Scrivete a Roma a Monsig. d'Adria che faccia sollecitare la mia pittura che fa Raffael da Urbino[79], e che o per il Paulucci o per altri faccia parlare ad esso Raffael, e dirgli che noi desideriamo d'aver il cartone di quella pittura che esso ha mandato qua al Rev. Legato, su la quale è ritratta la signora viceregina di Napoli, e che avendolo ci farà piacere gratissimo a donarcelo: circa che usi il prefato Mons. quella maniera e mezzo che pare a S. S.ria alla quale reputiamo che basti far noto il nostro appetito, conoscendo la prudenza e desterità di Sua Sig.».
Il 24 giugno 1519 in età d'anni 41 morì per conseguenza di un aborto Lucrezia Borgia[80]. Narrano gli storici di casa d'Este, ch'ella «lasciate le mondane pompe.... impiegava la mattina in orazioni» e che venendo a marito e trovando in Ferrara che «le gentildonne e cittadine usavano abiti ne' quali mostravano le carni nude del petto e delle spalle, così essa signora introdusse il portare e l'uso di gorgiere che velavano tutta quella parte, dalle spalle sino sotto li capelli»[81]. — E dobbiamo credere che Lucrezia, lasciate fra qualche tempo le mondane pompe, conducesse in Ferrara gli ultimi anni di sua vita ossequiente al suo sposo, «e non solo nel vestire, ma anco ne' costumi e religione fosse al popolo di ottimo esempio, esercitando opere pietose «verso i poveri e i letterati, che sono spesso una medesima cosa»[82], specialmente dopo essere rimasta priva del suo più valido sostegno per la morte del papa avvenuta il 18 agosto 1503, cui seguì la rovina degli Stati acquistati a furia di rapine e tradimenti dal duca Cesare, che terminò col cadere anch'esso morto in una imboscata il 12 marzo 1507, combattendo da valoroso in Pamplona al soldo del cognato di Navarra.
E fu pure Lucrezia celebrata da tutti i poeti e uomini dotti che l'avvicinarono in Ferrara, compreso l'Ariosto il quale nell'Orlando furioso (XLII, 83) giunse persino a collocarla per bellezza e onestà al disopra dell'antica Lucrezia. Ma il Bembo, oltre di averla cantata in versi e dedicatole nel 1504 il suo dialogo d'amore, Gli Asolani, concepì per lei una decisa passione, ed essa accolse nel cuore più che amicizia per lui, come può vedersi dalle lettere che scrisse al Bembo e che si conservano autografe con una ciocca de' suoi biondi capelli nell'Ambrosiana di Milano ove furono pubblicate nel 1859 da Bernardo Gatti.
L'animo della duchessa di Ferrara in mezzo al suo quieto e riposato vivere fu turbato nel 1510 dalla notizia della morte del suo primo marito Giovanni Sforza, il quale essendosi nel 1504 ammogliato con Ginevra Tiepolo, n'ebbe l'anno dopo un figlio per nome Costanzo che confermò l'ingiustizia colla quale lo Sforza era stato da lei separato con un processo da cui ebbe origine ogni maggior biasimo di Lucrezia in quell'orrido passato di Roma.
Anche l'abbandono in cui lasciò nella cara età di due anni il figlio Rodrigo avuto dal suo secondo marito Alfonso d'Aragona, senza mai più curarsi di vederlo, e che morì di 13 anni in Bari presso una sua zia; «quali si fossero le circostanze che costrinsero Lucrezia a tenerlo lontano da sè, è certo ad ogni modo che questo infelice fanciullo lasciò sulla figura di lei un'ombra sinistra»[83].
Nel 1519 il duca, al quale erano riesciti poco utili i bagni d'Abano «per curarsi dai malori contratti in giovinezza,» ammalò gravemente. Leone X spedì il vescovo di Ventimiglia con 600 uomini nel Mirandolese con ordine di occupare Ferrara se avveniva la morte che si credeva inevitabile di Alfonso. Essendo questi risanato, si volle che il papa macchinasse con un Giberto (od Uberto) da Gambara suo protonotario di corrompere con denari Rodolfo Hello capitano della guardia de' Tedeschi di esso duca per farlo uccidere, e che il capitano fingendo di accondiscendere per cavare due mila ducati di mano al protonotario, scoprisse la cosa al duca, il quale ordinò se ne formasse un processo che si conserva in Archivio. «Ed è da notare che il detto papa Leone avea di bocca sua parlato con uno altro Tedesco (Gianni di Malines), che era internunzio in questa materia, ed esortatolo a fare diligente officio; assolvendolo, anzi persuadendolo che non peccava, ma meritava ad aiutare la Santa Sede apostolica ad avere Ferrara, la quale gli dava ad intendere che era occupata dal detto duca Alfonso immeritamente»[84]. Il Muratori dà piena fede al tentativo di assassinio contro il duca ed al processo che questi ne fece fare «in forma autentica, coll'esame di varie altre persone consapevoli del fatto, e con inserirvi le lettere originali del Gambara»[85]: ma noi che pel fatto del notaro bolognese conosciamo come Alfonso I calpestasse la giustizia e volesse giudici che ne salvassero soltanto l'apparenza, moveremo qualche dubbio sulla verità della cosa, e tanto più giacchè ora non troviamo in Archivio che un semplice abbozzo di processo, o meglio narrativa, scritta dal segretario del duca Obizzo Remo, mancante di ogni firma, delle lettere del Gambara e di qualunque altro documento originale, ed ove in mezzo a molte stranezze non si parla però mai di uccidere il duca, ma solo di farlo prigioniero e occupargli a tradimento Ferrara (Doc. XII).
Il 2 settembre del 1520 morì il cardinale Ippolito fratello del duca per aver mangiati troppi gamberi arrostiti e bevuta troppa vernaccia, di cui aveva sempre «i fiaschi Nel pozzo per la sera in fresco a nona»[86]. Così a papa Martino IV furono fatali «L'anguille di Bolsena e la vernaccia»[87].
Leone X ormai palese nemico di Alfonso I fece lega nel 1521 con Carlo V per discacciare i Francesi che nel 1515 erano tornati in Italia; e perchè il duca si portò colle sue genti a soccorrerli e liberarli dall'assedio di Parma, spingendosi ancora alla ricupera del Finale e san Felice, il papa prese motivo di scomunicarlo così come aveva fatto Giulio II, essendo stata eguale nell'un papa e nell'altro la brama di estendere il poter temporale anche a vantaggio dei loro nipoti, e di rivendicare Ferrara, tanto più che l'annuo censo, che si pagava alla Chiesa fu ridotto a minima cosa pel matrimonio della Borgia.
Continuavasi con ardore la guerra contro i Francesi, «e perchè esso papa Leone era entrato in un'impresa nella quale era necessario molta spesa, non potendo con l'entrate ordinarie supplire al bisogno, fece in una volta sola trentuno cardinali, dalli quali tirò grossa somma di denari, senza rispetto alcuno di simonia»[88]. Ottomila Svizzeri guidati dal cardinale Sedunense vennero in aiuto del papa e degli imperiali; sicchè alla fine i Francesi furono costretti a perdere di nuovo Milano e ritirarsi d'Italia. Il duca fu pure spogliato delle terre che aveva riacquistate, e tornò a vedersi ridotto al solo possesso di Ferrara, col sopraccarico dell'esercito del papa che veniva a stringerlo d'assedio e lo minacciava d'imminente eccidio.... Ma la sorte lo salvò un'altra volta mediante la morte di Leone X avvenuta il primo dicembre 1521, non senza sospetto di veleno.
Nell'estremo pericolo ond'era trascinata la sua famiglia, Alfonso I non poteva contentarsi di cadere onorevolmente colle armi alla mano, chè il suo carattere maligno e vendicativo traevalo a dirigere una Lettera latina all'imperatore Carlo V e agli altri principi cristiani piena di lagnanze ed accuse gravissime contro Leone X; lettera che tradotta in italiano faceva stampare in Ferrara e in Venezia nel mese di novembre 1521. La corte di Roma non tardava dal suo canto a formare una Risposta alla invettiva di don Alfonso inviandola alla stessa Maestà Cesarea, nella quale non solo difendeva la fama vilipesa del pontefice, morto nel frattempo, ma aggiungeva querele infinite contro il duca e gli Estensi, facendola pure stampare in Roma il 6 gennaio 1522 unitamente alla Lettera del duca[89]. Per la somma rarità ai nostri tempi di queste pubblicazioni, che sfuggirono al Roscoe nella sua Vita di Leone X[90], e per l'interesse storico che possono avere, ne daremo in appendice alcuni estratti (Docum. XIII e XIV).
Lodovico Ariosto frattanto non sarebbe stato del tutto scontento del servizio del duca, che poco molestava i suoi studi e che toglievalo di rado da Ferrara ove sempre a motivo della donna amata rimaneva il suo cuore (Satira IV), se per la morte del cugino Rinaldo Ariosto accaduta il 7 luglio 1519 non avesse subíta una manifesta ingiustizia. Non lasciando il cugino suddetto figli maschi legittimi[91], Lodovico e i suoi fratelli, rimasti eredi ab intestato del defunto, andarono in possesso della ricca tenuta nella villa di Bagnolo, detta delle Arioste, concessa a livello dal duca Ercole I a Francesco Ariosto padre di Rinaldo, allorchè dopo alcuni giorni ne furono dal Fattore generale del duca[92] Alfonso Trotti indebitamente spogliati, dichiarando quei beni feudali devoluti alla Camera ducale. I fratelli Ariosto supplicarono al duca, che, essendo stato «dal suo Fattore lor fatto così espresso e manifesto torto, si degnasse dar loro qual si volesse altro giudice dal Fattore in fuori, dinanzi a cui s'avesse a conoscere e decidere di ragione questa causa. Non poterono ottenerlo, anzi S. Ecc. li rimesse pure a detto Fattore. Onde non potendo essi farne altro, furono sforzati cominciare la lite in Camera, dove fu agitata, e instrutto il processo, pubblicati li testimoni e condotta la causa sino alla sentenza: alla quale instando essi, il Fattore per l'odio che portava gratis a mess. Lodovico, e per rispetto di lui a tutti gli altri fratelli, non comportò mai che se ne potesse vedere il fine»[93]. L'odio di Alfonso Trotti fu creduto derivare da due sonetti satirici contro il medesimo, «i soli (dice il Polidori) in cui trascorresse la musa italica di Lodovico»[94] e vennero in luce soltanto nel 1741 per averli trovati di suo pugno fra le carte possedute dal seniore Baruffaldi. Ma non siamo però certi che fossero composti dall'Ariosto, il quale dice che l'odio portatogli dal Trotti era gratis, e cioè senza avergliene dato motivo (se pur non fu simulato per coprire gli ordini del duca), mentre anzi il poeta lo ricorda nel suo Furioso, XLI, 4. — Crediamo invece che appartengano all'autore della serie de' sonetti maledici contro Cosmico, i quali trovansi stampati fra le Rime di Antonio Cammelli detto il Pistoia (Livorno, 1884, pag. 223 e segg.); e chi li confronterà coi due creduti dell'Ariosto, speriamo che assolverà il nostro autore dall'attribuitogli trascorso.
Di Rinaldo Ariosto pubblichiamo una Lettera assai confidenziale, in data del 7 giugno 1505, posseduta prima dal Mortara, che la disse bellissimo documento per conoscere la qualità del morbo ond'egli ebbe a morire[95]; permettendoci però noi di osservare che dall'epoca della lettera alla morte di Rinaldo passarono più di quattordici anni (Doc. XV).
Uno de' primi incarichi dati da Alfonso I a Lodovico fu quello di portarsi ad Urbino per condolersi della morte di quella duchessa moglie di Lorenzo de' Medici il giovine: ma giunto il 4 maggio 1519 a Firenze, intese che anche il duca d'Urbino era morto, onde non andò oltre; ed anzi dopo pochi giorni si restituì a Ferrara, ove il 6 giugno lo vediamo spedire al marchese di Mantova la sua Cassaria, ch'eragli stata richiesta (pag. 30). Il 7 luglio diedegli pure notizia della perdita del cugino Rinaldo: e avendo fatto sapere a Mario Equicola che trovavasi immerso in litigi (per la contrastata eredità), ringrazia il 15 ottobre questo suo amico che si offriva di assisterlo coll'opera propria, narrandogli che attendeva a fare «un poco di giunta al Furioso.... ma poi dall'un lato il duca, dall'altro il cardinale, avendomi l'un tolto una possessione che già più di trent'anni era di casa nostra, l'altro una possessione di valore appresso di dieci mila ducati[96], de facto e senza pur citarmi a mostrare le ragion mie, m'hanno messo altra voglia che di pensare a favole. Pur non resta per questo ch'io non segua, facendo spesso qualche cosetta» (pag. 33). — Il 16 gennaio 1520 terminò di comporre la commedia intitolata il Negromante per desiderio di Leone X, e gliela mandò perchè fosse recitata in quella corte in cui l'anno avanti si era data colla maggiore splendidezza possibile l'altra sua commedia I Suppositi, avendo la scena dipinta da Raffaello, e stando il pontefice alla porta per regolare l'entrata degli spettatori, impartendo loro la sua benedizione! Chè la corte di Leone X, partecipando alla generale corruzione, era troppo amante dei sollazzi profani; e abbiamo una lettera di Alfonso Paolucci al duca di Ferrara in data di Roma 8 marzo 1519 che non potrebbe più al vivo ritrarci «i costumi del secolo e dell'uomo che gli diè il nome» (Doc. XVI)[97]. L'Ariosto aggiunse al Negromante un nuovo Prologo ove dirige al papa elogi assai lusinghieri; ma vi mescola con acuta ironìa la liberalità nell'assolvere di omicidi e di voti,
«E se pur non in dono, per un prezio
Che più costan qui al maggio le carciofole![98]»
È poi importante questo Prologo venendosi per esso a conoscere che l'autore faceva tesoro dei vocaboli della lingua parlata che più gli piacevano, e che diede opera a Firenze, a Siena e per tutta Toscana ad apprenderne l'eleganza e nascondere le forme della pronunzia lombarda. Di cotale studio si prevalse con sagacia nel suo Negromante che aveva in gran parte composto dieci anni addietro, e nel quale introdusse tanti cambiamenti da non vederci più il consueto idioma, e cominciò pure a giovarsene nella ristampa che nel 13 febbraio 1521 pubblicò in Ferrara dell'Orlando furioso, ch'eragli da tutte parti richiesto, non trovandosi allora alcun esemplare in commercio della prima edizione. Però un libraio di Verona, che n'ebbe parecchi da vendere per conto dell'autore, scusavasi di non pagarli per intiero, allegando una rimanenza: ma l'Ariosto scriveva all'Equicola di verificare la cosa, «chè troverà che i libri sono venduti e che quel libraro vuole rivalersi di quelli denari» (pag. 36). Nel frontispizio di questa seconda edizione il poema dicesi con molta diligenza corretto e quasi tutto formato di nuovo e ampliato, rimanendo però circoscritto ne' quaranta canti di prima. A rifarsi in parte delle spese di ristampa, l'Ariosto ne cedè subito col 16 febbraio cento copie al libraio Giacomo Gigli di Ferrara per il prezzo di sessanta lire marchesane. Il libraio doveva venderle sedici soldi l'una, avendo così il venticinque per cento di sconto; e fino a tanto che quelle cento copie non erano esitate, l'autore non poteva disporre di alcuna delle rimanenti presso di lui, nemmeno in regalo[99]. Oggi un esemplare della suddetta ristampa si venderebbe ad altissimo prezzo.
Il duca di Ferrara liberato due volte dai più estremi pericoli colla morte di Giulio II e con quella di Leone X, si credè il favorito della fortuna, e fece battere cinque monete d'argento allusive alla circostanza, due delle quali rappresentavano da una parte la sua effigie, dall'altra un uomo che toglie un agnello di bocca a un leone col motto de manu leonis, mentre in gran fretta portavasi durante l'interregno a ripigliare i suoi Stati. Ebbe il Finale, San Felice, le terre di Romagna, e per interne rivoluzioni anche il Frignano e la Garfagnana. — Il 9 gennaio 1522 fu assunto al papato Adriano VI, l'ultimo cardinale fatto da Leone X e precettore di Carlo V, nato da bassi parenti, fiammingo d'origine. Era in Biscaglia al momento dell'elezione, e il duca vi mandò un suo ambasciatore a far atto di ossequio, informarlo dei torti sofferti, e chieder giustizia. Il nuovo pontefice liberò il duca dalla scomunica, lo lasciò al possesso di quanto aveva ultimamente ricuperato e lo confermò nell'investitura di Ferrara, comprendendovi anche il Finale e San Felice per far credere queste due terre della Camera apostolica, sebbene ritenute spettanti al feudo imperiale di Modena. Il duca mandò poi a Roma il suo primogenito Ercole, che in presenza del papa e del sacro Collegio perorò la restituzione di Modena e Reggio. Il discorso fatto francamente in lingua latina da un giovinetto di soli quattordici anni, che ritraea le bellezze della Borgia sua madre, sorprese e interessò i cardinali i quali gli corsero attorno abbracciandolo come fosse un loro congiunto. Ma papa Adriano rispose: «Se quelle città, che dici essere di diritto di tuo padre, le avessi racquistate nel tempo della Sedia vacante, più facilmente potrei confermargliele; ma poichè le possiede la Chiesa, acciocchè non sembri che ne sia spogliata, non sono per darle a nessuno. — Queste parole studiosamente raccolte da Alfonso l'ammonirono a tempo che cosa dovesse fare, morto il pontefice»[100]. — Anche l'imperatore Carlo V proponeva di restituire Modena e Reggio al duca purchè gli pagasse cento cinquanta mila ducati: ma il papa titubava sempre dichiarando di non poterlo permettere; finchè accadde la di lui morte il 14 settembre 1523. Alfonso I non tardò allora di mettere in pratica gli insegnamenti di Adriano, e mosse le sue genti riconquistando Nonantola, indi Reggio e Rubiera. Erasi pure portato sotto Modena, ma il celebre Guicciardini che n'era governatore e Guido Rangoni che ne comandava la guarnigione, accresciuta in previdenza di 1500 Spagnuoli, la mantennero sotto il governo della Chiesa. Il cardinale Armellino camerlengo in Roma formò un nuovo monitorio contro il duca come invasore degli Stati ecclesiastici: però il Collegio de' cardinali tornò a chiudersi in conclave prima che il monitorio fosse spedito, e il 19 novembre dell'anno stesso Giulio de' Medici divenne papa col nome di Clemente VII.
Lodovico Ariosto aggravato di spese per la lite colla Camera ducale e per la ristampa del suo poema avea troppo bisogno dello stipendio assegnatogli in corte; pur si adattò a vederlo uscir lento od anche affatto sospeso, finchè durarono le esigenze della guerra: ma gli dolse accorgendosi che anche in migliorate condizioni la mano del duca seguitava a tenerglisi chiusa. E tacendo in Milano in mezzo all'armi le leggi, nè potendo perciò ricavare alcun vantaggio dal beneficio della cancelleria di quell'arcivescovato, ricorse al duca affinchè lo levasse di bisogno, o gli concedesse di cercarsi altrove da vivere (Satira V).
Accadde allora che la Garfagnana, già prima in possesso degli Estensi, poi de' Lucchesi al tempo di Giulio II e de' Fiorentini a quello di Leone X, volle per alimentato sobbollimento ritornare sotto al suo antico signore: e facendosi reiterate istanze per avere un commissario, il duca vi elesse l'Ariosto, segnandone il decreto il 7 febbraio 1522, come può rilevarsi dalla Lettera del poeta per noi pubblicata a pag. 207. Il Micotti così racconta la rivoluzione della Garfagnana: «Bernardino Ruffi commissario de' Fiorentini in Castelnovo, stordito dall'avviso della morte di Leone, temendo di sollevazione per l'affetto che questi provinciali portavano alla casa d'Este, dubitando di sè e delle cose sue, si racchiuse nella rôcca di Castelnovo dove abitava, non permettendo ad alcuno l'ingresso: ma li principali del castello, che pur volevano liberarsi dai Fiorentini e restituirsi al loro legittimo signore, non trascurando l'occasione somministratagli dalla morte del papa, mandarono Gio. Pietro Attolini medico, del quale il commissario si soleva servire nell'indisposizione d'una sua figliuola, a procurare che, sotto pretesto di visita e d'aver a trattar seco interessi di rilievo, fosse aperta la porta della rôcca; il che da lui eseguito, benchè con difficoltà ottenuto, i cittadini principali armati entrarono nella rôcca dove era il commissario, e gl'intimarono che nel termine d'un'ora dovesse partire, altrimenti l'avrebbero precipitato dalla finestra. Il commissario impaurito per sì improvviso accidente, privo d'assistenza e temendo lasciarvi la vita, stimò buon consiglio partirsi subito, come fece l'8 dicembre 1521. Scacciato il commissario fiorentino, con ogni prestezza spedirono al duca Alfonso l'avviso di quanto era successo: il quale avendo sommamente gradita la fede e l'amore de' sudditi, scrisse anche un'amorevol lettera a Gio. Pietro Attolini.... Fu poi mandato a governar la provincia Lodovico Ariosto ferrarese, il famoso poeta e prudentissimo ne' maneggi di Stato[101]. In memoria d'essersi liberati dal dominio di papa Leone e de' Fiorentini, per pubblico decreto il Consiglio ordinò, che sempre ne' tempi avvenire il settimo giorno di dicembre si solennizzasse con luminarie e processioni di tutto il clero e popolo, e che il dì seguente, giorno della liberazione, dedicato all'immacolata concezione della Santissima Vergine, si celebrassero messe ed offici a spese del pubblico. Fece anche il Consiglio scolpire in grosso macigno un'aquila grande, intesa per la serenissima casa d'Este, che tiene un leone sotto gli artigli, preso per papa Leone, e porre sopra la porta di Castelnovo in mezzo a molt'arme che vi sono»[102].
L'offerta di andare al governo della Garfagnana fra un popolo rozzo, turbolento ed inquieto, diviso da fazioni, guasto da spessi mutamenti di padroni, pieno di banditi per l'opportunità di varî confini, non poteva piacere all'Ariosto; ma presentando d'altra parte molti vantaggi pecuniarii per tasse e diritti inerenti alla carica[103], vinto dal bisogno, l'accettò. Ignorando quanto tempo sarebbe stato lontano da Ferrara, incerto della sorte che lo attendeva, fece il 12 febbraio il suo testamento, si disgiunse con dolore dalla Benucci, e in compagnia del figlio Virginio partì alla volta di Castelnovo ove giunse il dì 20 dello stesso mese. Narra il Garofolo che Lodovico «nell'andare al commissariato.... convenendogli presso a Rodea passar per mezzo a una compagnia d'uomini con armi che sedevano sotto diverse ombre, non sapendo chi si fossero, andò oltre non senza qualche sospetto per esser quelle montagne allora molto infestate da ladronecci per le fazioni di certo Domenico Morotto e di Filippo Pacchione capitali nemici. Ora essendo passato avanti un tiro di mano, colui ch'era capo loro dimandò al servitore ch'era più addietro degli altri, chi fosse il gentiluomo; e udito ch'era Lodovico Ariosto, subito si mise così com'era armato di corazza e di ronca a corrergli dietro. Lodovico vedutolo venire si fermò, non ben sicuro come avesse a seguire il fatto. Colui giuntogli presso e riverentemente salutatolo, gli disse ch'era Filippo Pacchione, e gli domandò perdono se non gli avea fatto motto nel passar oltre, perocchè non sapeva chi egli fosse; ma che avendolo inteso dipoi, era venuto per conoscerlo di vista come molto prima l'aveva conosciuto per fama: e nel fine fattogli cortesi inviti umilmente si licenziò da lui»[104]. Questo fatto ammesso per vero dal Baruffaldi potè solo a nostro giudicio accattar origine da qualche segno di rispetto che taluno de' faziosi o fautori di essi ebbe poi ad usare verso l'Ariosto (com'è detto a pag. 80), convertendolo in un incontro occorsogli presso Rodea (Roteglia) nell'andare al commissariato (ossia nel suo primo viaggio); e ciò allo scopo di accrescere alla vita del poeta una nuova situazione d'interesse drammatico. Incontro che non potrebbe ammettersi fuorchè in un viaggio successivo e in una stagione diversa dalla invernale del febbraio, in cui que' luoghi sono quasi sempre coperti di neve e poco acconci in allora a sedere sotto l'ombre (non già degli alberi che avevano ancora da rinnovare le foglie); e giacchè inoltre l'Ariosto stesso, cui dobbiamo attenerci, non mancò in un'elegia[105] di esporci questo suo viaggio accompagnato da rabbiosa procella d'acqua e venti che prendeva ognora maggior possanza, ferivagli come acuto strale il volto, e col fango impediva al suo cavallo di affrettarsi per la via alpestre e lunga. Sembrava, egli dice, che il cielo meritamente lo punisse d'essersi dipartito dalla sua donna, di aver chiuse le orecchie alle preghiere di lei, di aver promesso di assumere un carico che tanto lo allontanava da Ferrara. Era pentito, ma non gli era lecito ritornare indietro: solo il cuore mille volte ogni giorno sarà costretto di farlo!
Giunto a Castelnovo, capoluogo della Garfagnana, l'Ariosto cominciò subito le fastidiose cure del suo governo, udendo ognora accuse e liti, furti e omicidi; pregando gli uni, minacciando gli altri, e scrivendo ogni giorno al duca per consiglio ed aiuto[106]. Obbligato a lasciare in abbandono i dolci suoi studi per aver sempre villani alle orecchie[107], sol dopo un anno fece il primo motto alle Muse, dirigendo al cugino Sigismondo Malaguzzi la Satira V ove descrive la vita ch'egli colà conduceva, e che riceve bel riscontro e accrescimento di fatti dalle Lettere di lui che qui si producono. Alcune di esse dànno prova della bontà del suo cuore, altre della sua giustizia e imparzialità, molte della sua sagacia e accortezza politica, la maggior parte della mala condizione di quella provincia. E perchè il duca immerso in cure più gravi non gli prestava il braccio forte ch'egli richiedeva, e lasciavalo con pochi balestrieri incapaci di affrontare i banditi e gli assassini ch'erano più di loro (pag. 200), così l'Ariosto si mostrò ridotto all'alternativa di dover proporre misure estreme di ferro e fuoco sopra le sostanze de' banditi, loro congiunti e aderenti (p. 163), e così contro i campanili, le canoniche e per fino le chiese, che in causa delle immunità ecclesiastiche servivano loro di sicuro ricovero[108]. Poco propenso verso i preti, che per negatagli autorità dai vescovi e dal duca non poteva castigare se mancavano (pag. 103), li fa colpevoli di favorire i malfattori; ma dice al tempo stesso che non ponno fare altrimenti (pag. 222), essendo invalsa presso tutti la tema della loro vendetta se non li nascondono (pag. 171), e dicendosi minacciati della vita se parlano (pag. 236). Per ovviare in parte a tanti disordini, l'Ariosto concluse il 20 giugno 1523 a nome del duca una lega colla Repubblica di Lucca, che mandò il suo bargello agli ordini del commissario (p. 164)[109]; fece pubblicare alcune gride (pag. 309-317); ebbe accrescimento di uomini d'armi: ma ciò fu di poco o momentaneo profitto, chè le ottantatre terre di cui componevasi la provincia alzavano le corna divise dalla sedizione (Satira V). L'Ariosto qualche volta parlava alto e risentito (pag. 213-216); minacciava fuggirsi di notte abbandonando l'officio, e concludeva: «Ognuno è di malavoglia, e dicono mal di me, ma più di V. S. (pag. 183), che pigli li loro denari e lasci abbandonate le rôcche (pag. 229); chè almeno, poi che quella non li vuol difendere, gli dèsse licenza e li ponesse in libertà, che si potessero dare a chi fosse atto a poterli difendere e tener in pace» (pag. 234). Parole arditissime, ma giuste e degne del maggior elogio, come l'altre: «fin che starò in questo ufficio non sono per avervi amico alcuno, se non la giustizia».
Alla notizia dell'elezione al papato di Clemente VII, conoscendosi le inimicizie passate tra gli Estensi ed i Medici, parve che a tutti fosse tagliata la testa (pag. 199), chè, non credendosi abbastanza rassodato il governo del duca, era da molti preveduto un prossimo tramestìo di padroni: di qui l'ardimento a nuovi disordini da una parte, di qui il pretesto a lasciarli correre od anche favorire dall'altra, non esclusi gli ecclesiastici. A ciò poi diedero fomento anche le bande nere del famoso Giovanni de' Medici, che venute a contesa coi marchesi Malaspina di Lunigiana fecero scorrerìe e occuparono nel 1524 alcuni luoghi della ducale provincia, accrescendo seguaci alla parte italiana che rappresentavano di fronte alla parte francese sostenuta dal duca.
Dopo essere stato due anni in quell'officio, l'Ariosto dichiarò che lo muterebbe volentieri in un altro dove fosse più vicino al duca, «come sarebbe il commissariato di Romagna» (pag. 209): desiderando forse di cancellare in Lugo con dolcezza e bontà la memoria sfavorevole che vi era rimasta del padre pel fatto che abbiam riferito a pag. XVII. — L'amico Bonaventura Pistofilo, erasi offerto di procurargli la carica di ambasciatore ducale presso Clemente VII; ma il poeta dirigendogli la Satira VI ringraziando del cortese pensiero, non si mostrò allettato dall'onore nè persuaso del maggior vantaggio che gli si prometteva; chiedendo piuttosto di essere chiamato a Ferrara, ove trovavasi la Benucci, ed ove ogni cinque o sei mesi era costretto di andare a passarne uno, per non morir dalla noia in Castelnovo[110].
Sui primi d'aprile del 1525 il duca si decise a richiamare l'Ariosto presso di sè, facendolo sostituire nel commissariato da Cesare Cattaneo ferrarese. Il 26 detto mese l'Ariosto chiese di poter rimanere anche un po' di tempo nell'ufficio per esigere gli assegnamenti suoi del quartirone passato, e il giorno dopo scrisse dolendosi ch'era stata fatta una grave ingiuria al figlio Virginio che teneva presso di sè, quando a motivo della sua partenza non avrebbe potuto ottenerne la dovuta riparazione. Sulla prima domanda il duca rispose il 3 maggio che essendo stato tanto a fargli intendere questo suo desiderio, non lo poteva compiacere perchè il Cattaneo designava di mettersi veramente in cammino per la Garfagnana «fra tre o quattro giorni alla più lunga», onde bisognava lasciare che altri gli procurasse la detta esazione. Quanto alla seconda lettera, aggiungeva: «Vi significamo che avemo inteso con grave nostra dispiacenza il caso accaduto, e ci dispiace che un nostro suddito sia stato tanto ardito e insolente che abbia avuto animo di far violenza ad un figliuolo d'un nostro commissario che in quel loco rappresenta la persona nostra, e commetteremo efficacissimamente a messer Cesare che ne faccia quella severa dimostrazione che merita la natura del caso in sè e la fede e diligenza che voi avete usato in servizio nostro. E state sicuro che noi avremo altrettanto caro che voi conosciate che desideramo e volemo che si faccia esecuzione di questa cosa, quanto voi stesso arete ch'ella si faccia. Infra tanto consolatevi, e state sano».
L'autorità dell'Ariosto continuò in Garfagnana a tutto il mese di maggio, e il 5 giugno 1525 non essendo ancora arrivato in Castelnovo il Cattaneo, il duca scriveva a messer Lodovico: «lodiamo che lo aspettiate e facciate ogni opra per abboccarvi seco e instruirlo in quel che occorre per l'ufficio, e sarà anche bene per esiger li vostri crediti e avanzi».
Il Cattaneo giungeva poco dopo alla sua residenza, così descrivendosi dal Carli le circostanze di una tale elezione: «Seguivano ancora (1524) in provincia le sedizioni e i ladronecci, non passando mese che non si contassero questioni, violenze, oppressioni e simili ingiustizie, senza che la diligenza e l'autorità del governatore Ariosti bastasse a porvi il conveniente riparo: ove dimorandovi egli di malissima voglia, faceva di continuo instanza all'A. S. d'esserne rimosso; ma ciò non ostante non ne venìa consolato. Discorrevasi ogni giorno nell'anticamera ducale questo fatto fra molti di que' cavalieri assistenti con varietà di pensieri, quando un Cesare Cattaneo gentiluomo ferrarese ritrovandosi a sorte in corte, nell'udire le rappresentate doglianze dell'Ariosti, rispose aver quello poco spirito, mentre con l'autorità non sapea liberar la provincia da quella sediziosa peste de' fuorusciti: darsi egli vanto, quando gli fosse sostituito, di estinguerne il veleno nel primo mese. Parole che riferite al duca, fu dall'A. S. tantosto determinato che fossero ridotte all'effetto, per far prova se il vanto fosse veritiero o bugiardo: che però fattolo a sè chiamare, dichiarollo governatore di questa provincia, e con la solita spedizione delle patenti qua inviollo a dar la sospirata muta all'Ariosti, che tutto assorto nelle dolcezze di Parnaso, non bastava ad applicare ai rigori di Marte e d'Astrea.
«Ricevuto il Cataneo dai provinciali con dimostrazioni d'allegrezza nella solita residenza della rôcca di Castelnovo, fece egli tantosto pubblicare un editto, che qualunque bandito per qual si sia delitto uccidesse in provincia il compagno, fosse certo d'ottenere subito la remissione del bando gratis e senza ben minimo dispendio; di che restarono di tal sorte spaventati i fuorusciti, che nel breve spazio d'un mese sgombrarono tutti la provincia e si dileguarono, lasciandola in una perfettissima quiete. Invenzione così ammirata da tutti, che celebrato per l'Italia restonne il Cataneo famoso, applaudito qual Cesare vincitor senza pugna, e trionfante senza contrasto; e ne sarebbe restato in Garfagnana il suo nome immortale, quando non l'avesse poscia egli oscurato con ingiustissime operazioni e con vergognose estorsioni.... onde citato a comparire (nel 1527) a Ferrara.... spaventato dalla reità della propria coscienza negò la comparsa.... e partitosi dallo stato contumace.... fu dopo la formazione del processo dichiarato bandito»[111].
Ma il Carli si dimostra assai male informato della verità dei fatti che imprese ampollosamente a narrare[112]. Le gride V, VI, e VII da noi stampate in questo volume (pag. 315, 316), provano all'evidenza che l'offerta del perdono ai banditi che uccidessero degli altri banditi in pena capitale non fu un'invenzione ammirata del Cattaneo, ma un'infelice risoluzione presa fin dal 1524 sotto il governo dell'Ariosto; poichè se per essa potevasi scemare la schiera dei tristi, dovevasi al tempo stesso portare lo scandalo e la corruzione in quella dei buoni, accrescendola di uomini malvagi, assolti dai delitti passati mediante un omicidio traditorio di più. È poi falso che i fuorusciti si lasciassero spaventare così facilmente da questi editti e sgombrassero la provincia; chè anche nel maggio 1525, e cioè un anno dopo, l'Ariosto proponeva al duca di far grosse taglie contro i medesimi per estirparli dalla Garfagnana ove continuarono a mantenersi non solo durante il breve commissariato del Cattaneo, ma ben anche per un tempo più lungo d'assai, come si rileva dalla grida che nel 20 novembre 1551 venne pubblicata in Castelnovo; leggendosi in essa: «.... perchè si conosce evidentemente che tutti i latrocinii e assassinamenti che son fatti non procedono da altro, se non tollerando li banditi che stieno nella provincia.... vuole S. S.... che ogni volta.... banditi in pena capitale passeranno per alcuna terra o villa di detta provincia, che subito quelli di detta terra uomini e donne che li vederanno siano tenuti a dargli drieto a suon di campane e gridar ammazza ammazza, e ammazzarli o pigliarli, o vivi o morti, e consegnarli alla corte subito, che gli sarà donato scudi 25 d'oro; altrimenti, non lo facendo ipso facto, s'intenda essere incorsa quella terra nella pena di scudi 100 d'oro in oro, applicabili alla ducal Camera, la quale se li farà pagare senza avergli remissione alcuna, facendo pigliar li primi di detta terra o villa che li capiteranno in le mani.... non avendo rispetto a giovedì[113] nè a ferie a farli incarcerare per esigere la detta pena: sì che ognuno si guardi». — Il rigore di questi provvedimenti e le convenzioni fatte prima colla Repubblica di Lucca, estese poscia col Governatore di Bologna nel 1543 e col duca di Parma e la marchesa di Massa nel 1551, di non lasciar posare in alcun luogo i malfattori, arrestandoli e consegnandoli scambievolmente, portarono alla per fine un po' di pace al paese. Non troviamo che un'egual convenzione fosse fatta per allora coi Fiorentini, sebbene al suo tempo l'Ariosto la riconoscesse necessaria: e forse questi disordini non erano da essi veduti di mal occhio, tenendo viva la speranza di poter un giorno riconquistare la Garfagnana: dovendo osservarsi che tra Ercole II di Ferrara e Cosimo I di Firenze era sorta una grande e vanitosa lite di precedenza per la quale furono sempre nemici; poichè nell'abboccamento avvenuto a Lucca nel 1541 tra Paolo III e Carlo V, il duca di Ferrara, presentatosi con altri principi italiani al cerimoniale corteggio, corse a mettersi alla destra dell'imperatore ed a porgergli alla mensa la salvietta, con volere che fosse fatto rogito di quest'onore di primo grado; onore che Cosimo I, pur esso presente, giudicava invece competere a lui medesimo.
Anche le fazioni politiche che tenevan divise quelle terre andavano in allora scemando de' loro odii e delle frequenti vendette. Racconta Daniello Bartoli che nel 1547 essendosi condotto colà il padre Landini per dar corso alle fatiche apostoliche, «appena trovò luogo che non fosse tocco da questa maladizione»: ma che la sua parola vi sanò l'eresìa luterana che pur vi conobbe, ed estinse non poche inimicizie passate in eredità da' padri a' figliuoli: cosicchè in Carreggine, nel meglio del predicare, veggendo gli uditori in gran maniera commossi, accennò col dito e chiamò per nome Giovanni Corso capo e mantenitore della fazione francese, ed egli alzatosi per dichiararsi disposto ai desiderî del Landini fece pace colla fazione italiana, come «il fatto si notò su messali di quella chiesa»[114].
Ritornato l'Ariosto a Ferrara dove il sorriso della sua donna e l'ozio beato delle Muse traevalo; lasciata una gente inculta, simile all'asprezza de' sassi ov'è nata (Satira VI), per trovarsi nella dotta compagnia de' suoi vecchi amici che mai non ebbe nè invidiosi nè finti, potè acquistarsene uno nuovo nel poeta Ercole Bentivoglio venuto anch'esso al servigio del duca, col quale passeggiava di frequente nel cortile del palazzo ragionando e ridendo insieme de' poemi cavallereschi del Cieco da Ferrara, del Guazzo e d'altri molti così inferiori di merito al Furioso, il quale avidamente ricercato da tutti accresceva diletto quanto più si leggeva, ed erasi ben nove volte ristampato dal 1524 al 1527 tra Venezia e Milano. Alcune di queste edizioni si dicevano fatte con licenza dell'autore, altre lo tacevano: niuna però portava correzioni ed aggiunte che l'Ariosto riserbavasi introdurre in una terza impressione da eseguirsi in Ferrara colla propria assistenza: «non passando mai giorno, come scrive il Giraldi, ch'egli non vi fosse intorno e con la penna e col pensiero». A questo scopo bramando vivere più tranquillo e solitario, si divise nel 1527 dai fratelli, comprò nella contrada di Mirasole una casetta con diverse pezze di terra all'intorno e si pose a fabbricarvi e a formarvi un piccolo giardino, spendendo tutto quello che poteva ritrarre delle sue rendite. «E perchè male corrispondevano (come nelle sue Memorie lasciò scritto il figlio Virginio) le cose fatte all'animo suo, soleva dolersi spesso che non fosse così facile il mutar le fabbriche come i suoi versi; e agli uomini che gli dicevano che si maravigliavano ch'esso non facesse una bella casa, essendo persona che così ben dipingeva i giardini, rispondeva che faceva quelli senza denari». Sull'entrata della casa leggevasi il seguente distico: