Читать книгу Il "Damo viennese" - Lucio d'Ambra - Страница 5
I. LA VITA NON È CHE UN VALZER
ОглавлениеNoi prestiamo a tutti gli uomini quella profondità d'ideali e quella gravità di preoccupazioni morali che sono in realtà, e per fortuna, solamente l'appannaggio di alcuni rari e privilegiati esemplari d'umanità sedicente superiore. Noi crediamo che la maggior parte degli uomini d'una certa levatura intellettuale che incontriamo per via, al caffè, al teatro, non vadano a dormire senza essersi proposta, ogni sera, una lunga fila di punti interrogativi d'ordine sociale, religioso, morale, politico o sentimentale. Non possiamo ammettere che un uomo abbia l'orizzonte della sua vita chiuso in una collezione di francobolli o fra le pianticelle d'un erbario e ci sembra inverosimile che i grandi principii dell'ottantanove lascino perfettamente indifferente un uomo che s'appassiona invece a raccogliere monete fuori corso o autografi di uomini celebri ancora in corso. Amar la patria, la società, l'umanità ci sembra dovere e necessità d'ogni cuore portato a una funzione più nobile di quella di segnare il passo alla vita animale che cammina. C'è gente, invece, che ha limitato i suoi amori e li ha limitati intensificandoli. Ed è gente non sempre peggiore di quella che invece li moltiplica diminuendoli.
Aveva amato due cose al mondo, per esempio, Pierino Balla: sua madre e il valzer. Sua madre, la sua vecchia mamma vedova e sola, se ne rimaneva ormai laggiù raccomandata alla premura di qualche amico, nella sua casettina di Sorrento fra cielo e mare. Ma il valzer era sempre con lui, in lui, nel suo orecchio, su le sue labbra, nel suo cuore, nel suo cervello, nel suo passo che anche per via salterellava un poco come quello d'un tenore su un palcoscenico. Li amava tutti, li sapeva tutti: vecchi valzer spagnuoli suonanti di nàcchere e procaci d'anche formose sotto gli scialli ondeggianti, vecchi valzer francesi incipriati di leggiadria, valzer italiani bonarii e cordiali, giovani valzer viennesi tra melanconici e voluttuosi, tra spensierati e sentimentali, fatti di giravolte e di capriole ma pieni di chiaro di luna e tutti azzurri di riflessi danubiani. Li sapeva tutti a memoria; gli bastava sentirli una volta sola per ficcarseli, lì, inamovibili, nel cervello; e, senza saper di musica, suonando a orecchio, dovunque scovava un pianoforte, li ritrovava, li rispolverava uno per uno, tutt'i giorni. Non badava, per questo, dove fosse e in che momento fosse. Alla vista d'un pianoforte smarriva ogni senso di opportunità e di luogo, di convenienza e d'educazione; a tal segno che un giorno, recatosi in casa d'un suo amico morto improvvisamente e tragicamente per prendere d'accordo con la famiglia le disposizioni pei funerali, aveva accolto l'entrata in salotto della vedova desolata col più indiavolato refrain d'un valzer di Walteufel. In casa, per via, al lavoro, a letto, fischiettava valzer su valzer. Agli esami di laurea, svolgendo una tesi di diritto canonico, tra una domanda e l'altra dei professori, intercalava a bassa voce un ritornello della Casta Susanna o della Vedova allegra. E, apolitico per eccellenza, la politica estera italiana gli era diventata improvvisamente simpatica da quando un grande diplomatico tedesco l'aveva definita la «politica dei giri di valzer». Politica per me, aveva detto, e per la prima volta in vita sua, cittadino elettore, fischiettandosi il valzer di Franzi nel Sogno di un valzer, era andato a votare. «Pierino Balla e canta», lo chiamavano gli amici. E cantava, infatti, con grazia, con una vocina da tenorino di operette che gli avrebbe fatto far fortuna se egli avesse osato, figlio d'un magistrato napoletano, nipote di un colonnello borbonico, salire in palcoscenico dalla platea dove ogni sera sentiva e risentiva, ostinato e paziente, la centesima rappresentazione di un'operetta di Parigi o di Vienna.
Aveva ventotto anni e non faceva ancora null'altro che cantare o fischiettare valzer. Aveva trascinato avanti gli studii all'Università di Napoli, lentamente, faticosamente, sino a ventisei anni, poichè ancora nessun ministro della Pubblica Istruzione s'era deciso a stabilire nei regolamenti che i professori di scienze delle finanze o di diritto romano interrogassero i candidati sul repertorio di Offembach e su la dinastia degli Strauss. Poi, presa la laurea, era venuto a Roma a cercare un'occupazione, un lavoro, una posizione. Aveva cercato tutto ciò il giorno nei caffè, la sera nei restaurants eleganti e nei teatri d'operette. E non aveva trovato altra occupazione che quella di sentir valzer e valzer, altro lavoro che quello di mandarli a memoria e di ritrovarli al pianoforte il giorno dopo, altra posizione che quella di starsene sdraiato in una poltrona a sentire cantare Emma Vecla o Gea della Garisenda, a veder piroettare le deliziose soubrettes ungheresi tipo Csillag e tipo Tonci. Passavano i mesi e passavano gli anni. Dei suoi autori prediletti cresceva, ad ogni stagione, il repertorio. Passavano anche dalle sue tasche in quelle altrui — poco alla volta in verità, perchè non era prodigo che di canzoni — le poche migliaia di lire che una paterna assicurazione su la vita gli aveva lasciate per aiutarlo a finire i suoi studii e a trovare anche lui, come tutti gli altri, qualche cosa da fare a questo mondo. Per la carriera d'avvocato non si sentiva inclinazione. Per quella di magistrato paventava la relegazione in una piccola città di provincia dove il teatro non funzionasse tutto l'anno. Rimaneva l'amministrazione, e l'amministrazione centrale naturalmente, con la certezza di rimanere a Roma dove per tutt'i dodici mesi dell'anno tre o quattro compagnie offrivano sempre almeno un paio di Conti di Lussemburgo per sera. Ma aspettava. C'era ancora qualche biglietto da mille — cinque o sei — da ritirare alla banca; e aspettava. C'era oggi un concorso al Ministero della Guerra? Ma ci sarebbe stato un mese dopo un concorso a quello della Marina. Tanto Pierino Balla non aveva preferenze. Aveva solo preferenze musicali. Nel suo amore universale per tutt'i valzer presenti passati e futuri del nostro mondo ballerino, a poco a poco era giunto a scegliere, a prediligere. Amava Offembach, amava Lecocq, ma adorava Leo Fall e Lehar. L'operetta viennese, coi suoi valzer a ripetizione, coi suoi quartetti, terzetti e duetti che finiscon tutti a balletti, era la sua passione. Conosceva tutto il repertorio dell'An der Wien e del Volkstheater, nota per nota, cadenza per cadenza. Il valzerino a bocca chiusa della Principessa dei Dollari, come l'aveva sentito cantare una sera con bell'aria dongiovannesca e sprezzante dal tenore Walter Grant, non l'aveva fatto dormire tre giorni. Appena una bella donna fermava per via il suo sguardo doveva lottare contro la tentazione di andarle davanti e di mettersi a girare intorno a lei, lì, sul marciapiede, con la mano sinistra sul fianco, la mano destra distesa a un gesto balancè che non dice nè si nè no, l'aria arrogante, il labbro sdegnoso, lo sguardo spavaldo, cantandole il delizioso valzeretto a bocca chiusa del giovane aristocratico francese e rovinato insensibile ai fascini della miliardaria americana. Tutta la vita per lui era questo: situazioni di operette viennesi che dal palcoscenico avrebbe voluto riportare nella sua piccola vita d'ogni giorno. E quando usciva da un salotto quasi gli accadeva di meravigliarsi che non dovesse uscirne su un passo di can-can con la padrona di casa, come nell'operetta della sera prima dopo il gran duetto sentimentale del second'atto. Una sera, in un'operetta nuova, scoprì un meraviglioso verso caduto, in un felice stato di grazia e di geniale incoscienza, dal lirismo d'un Victor Hugo librettista d'operette e sentì il brivido di una rivelazione:
La vita non è che un valzer.....
Lo sapeva da un pezzo. Ma non aveva saputo mai trovare una forma così sintetica, così espressiva e così profonda per il suo pensiero. Per queste profonde divinazioni dell'anima umana e del nostro umano destino, già non ci sono che i poeti, i grandi poeti. «Che verso, che bellezza!... La vita non è che un valzer...».
E «Pierino Balla e canta» ne fece il suo motto e lo fece stampare di traverso, con inchiostro viola del pensiero, su la sua carta da lettere. Da quel giorno il valzer diventò per lui uno scopo, un fine, una missione. Andava ad ascoltarli con la gravità mistica con cui si assiste ad un rito. Faceva propaganda fra i suoi amici in favore dell'operetta viennese. Parlava d'arte e di politica a proposito di Eva e di Franz Lehar. Dal coro dei parigini:
Nell'aria di Parigi
c'è molta seduzion...
giungeva al coro della politica europea e della Triplice Alleanza per dimostrare che:
Nell'aria di Vienna
c'è molta protezion....
per gli Italiani finalmente veramente amici d'un popolo con cui è facile, diamine, intendersi, visto che gli uni e gli altri amiamo la musica leggera e che un valzer viennese ed una canzonetta di Piedigrotta non possono ispirare ai ministri degli esteri di due Stati così soavi che i sentimenti della più cordiale tenerezza reciproca.
Quando i manifesti teatrali preannunziavano una nuova operetta viennese — o ungherese — «Pierino Balla e canta» mobilizzava otto giorni prima tutt'i suoi amici. S'incaricava lui di comperare i posti, di distribuire i libretti e, pei più poveri o i più restii, faceva lui addirittura le spese: «Creare fra i due popoli questi cordiali rapporti artistici, è servire il mio paese...» diceva. E gli amici gli rispondevano: «Sì, Pierino, e ti faranno cavaliere.» Uno aggiungeva: «Della Corona d'Italia...» Pierino non sdegnava, da buon italiano, l'offerta. Ma all'offerta aggiungeva con un sorriso e una luce negli occhi: «E dell'Aquila Nera!»
E quando usciva dal teatro e non era ancòra sazio di valzer e di Vienna, correva col tram da Faraglia o al Moderno poichè faceva ancora in tempo a sentir l'ultimo valzer delle orchestrine di quel caffè. Le «dame viennesi» lo mandavano in visibilio anche se erano di Frascati e se le parrucche bionde erano posticcie. Sentiva suonare Sulle rive del Danubio con beatitudine, con voluttà, gli occhi fissi al soffitto, fischiettando attorno al pomo del bastone appoggiato su le labbra. E all'amico che lo accompagnava sospirava di tanto in tanto con l'anima sognante: «Senti... senti... C'è tutta Vienna!» E, finalmente, andava a casa. Saliva le scale a tempo di valzer, si svestiva cantarellando e ballonzolando Laggiù nel silente giardino, spegneva il lume fischiettando — Amorin, tesorin — e allungandosi solo nel suo letto di scapolo si addormentava sognando il Prater.
Ma, poichè non è concesso agli uomini che d'esser felici provvisoriamente, i più bei sogni hanno un risveglio. Addormentatosi una sera sognando il Prater, s'era svegliato una mattina con una lettera della mamma e il giornale che la padrona di casa gli portava col caffè ed egli apriva sùbito, indifferente alle notizie europee ma impaziente di correre in quinta pagina alla colonna dei teatri. Tanto la lettera della mamma quanto la lettura del giornale gli diedero quella mattina il consiglio di ricordarsi che il peculio paterno era agli sgoccioli e che per un paio di settimane era forse il caso di pensare che la vita, sì, non è che un valzer, ma che tuttavia questo valzer bisogna avere il modo di suonarlo. Fulmineo nelle sue decisioni, con quello stesso coraggio della disperazione che spinge un uomo a buttarsi a fiume tutto d'un colpo anzichè scendervi poco alla volta per affogare gradatamente, Pierino Balla, letto sul giornale che un concorso per vice-segretario di terza classe a duemila lire era bandito dal Ministero delle Poste si vestì in fretta, raccolse i suoi documenti e i suoi titoli di studio, redasse una domanda in regola e corse a depositare il plico in via del Seminario. Pochi giorni dopo si presentava agli esami. E poichè aveva imparato lentamente ma aveva imparato, poichè non era uno sciocco per quanto gli piacesse — la vita non è che un valzer! — di sembrarlo, gli esami li diede bene e riuscì tra i primi. S'era a maggio e a luglio doveva prendere servizio, riscuotere le prime centocinquantadue lire del suo stipendio mensile. Pochine, in verità. Ma potevan bastare. L'allegria arrotonda i bilanci più magri. E la vita non è che un valzer.
La vita però è anche una tessitrice che annoda e intesse misteriosamente e capricciosamente i suoi fili. Quando una mattina Pierino Balla uscì di casa e si fermò, come era sempre suo primo pensiero, all'angolo della strada di casa sua per vedere uno ad uno, meticolosamente, i manifesti teatrali, non un'ombra di presentimento sfiorò la sua anima ballerina e leggera dinanzi a quel gran manifesto d'un teatro che chi sa mai perchè in bianco rosso e verde, preannunziava la prima rappresentazione di una nuova operetta viennese di Franz Lehar. Sentì, Pierino, un gran tuffo al cuore e vide tutto rosso, ma non perchè una voce segreta l'avesse avvertito che quel manifesto decideva della sua vita. Il tuffo al cuore gli era stato dato dal solo fatto di aver letto sott'il titolo della nuova operetta che l'autore venuto espressamente a Roma, che Franz Lehar in persona ne avrebbe diretto l'esecuzione. Quando si riebbe, il primo pensiero di Pierino Balla fu di correre al teatro e di prenotare, e di pagare, e di portarsi via lo scontrino — non si sa mai: una sbadataggine del botteghino — che gli dava il diritto d'occupare quattro sere dopo la prima poltrona di prima fila, lì, a destra del direttore d'orchestra, del Kappelmeister, a un metro da Franz Lehar, così vicino a lui che avrebbe potuto buscarsi un raffreddore all'aria sollevata dalle falde della marsina agitata dal celebre maestro nei momenti a scatti del direttore d'orchestra. Non prese un raffreddore quella sera, Pierino Balla, perchè il maestro, da buon tedesco composto ed equilibrato, non si sbracciava a dirigere come Mascagni ed anche perchè invece che in marsina dirigeva in smoking e lo smoking non ha falde che possano far vento. Ma se non prese un'infreddatura prese per Franz Lehar una cotta che gli fece traversare tutte le ansie e ricorrere a tutte le astuzie d'un innamorato che vuol trovare il modo di giungere a toccare il cuore della sua bella che non lo conosce e che ancora non si è accorta di lui.
Le idee più luminose sboccian talvolta nei cervelli più oscurati dalla passione, per legge di contrasto e perchè al buio anche un fiammifero acceso può far l'effetto di un lampo di genio. Così Pierino Balla scambiò senza modestia per un lampo di genio il fiammiferino di un'ideuccia che gli spuntò nel cervello quando, la mattina dopo il trionfo della nuova operetta, si sentì eccitato dall'irresistibile desiderio di conoscere personalmente il grand'uomo della sua piccola musica e fu convinto che sarebbe stato veramente perdere una occasione più unica che rara lasciare che Franz Lehar fosse venuto a Roma, perchè lui, Pierino Balla, studiasse accuratamente alle spalle il panno e il taglio del suo smoking viennese senza per altro riuscire a stringere la mano che aveva scritto i valzer più affascinanti di questo mondo. Non c'era tra i suoi amici un cane — neppure un cantante — che avesse potuto aprirgli la via ad una presentazione regolare. D'altra parte a presentarsi così, senza una qualsiasi introduzione, all'albergo dov'era disceso il famoso musicista c'era il rischio d'essere preso per un postulante importuno e d'esser messo garbatamente alla porta. E fu allora che Pierino Balla ebbe l'idea. Entrò all'albergo, studiò su la lista dei viaggiatori la posizione topografica della stanza occupata dal musicista. Compiuta questa ricognizione strategica chiese una camera per sè; e, quindi, accompagnato dal segretario, trovò tanto a ridire su ogni stanza che gli proponevano che, girato mezzo albergo, finì col capitare proprio nella camera attigua a quella del musicista. Immediatamente si disse musicista anche lui, spiegò di doversi trattenere a Roma per un soggiorno non breve e chiese che un pianoforte fosse messo nella sua camera. E il pianoforte cinque minuti dopo raggiungeva il viaggiatore. Era proprio lì, a portata di mano: era quello che il direttore dell'albergo aveva creduto di dover far mettere nella camera preparata per l'autore della Vedova allegra e che l'autore della Vedova allegra aveva fatto immediatamente riportar via.
Avuto il pianoforte Pierino Balla incominciò a farne quello che faceva di ogni pianoforte che gli capitava a tiro: lo pestò e lo ripestò senza riposo. Un pezzo dopo l'altro, un valzer dietro l'altro, ripassò a memoria tutto il repertorio del musicista viennese, dal Conte alla Vedova, da Eva alla Figlia del Brigante. Scese a far colazione e poi, risalito in fretta, ricominciò, a pestare: Conte e Vedova, Eva e Brigante. Ridiscese per il pranzo, risalì e ricominciò, infaticabile: Vedova e Conte, Brigante ed Eva. Quando le dita non ressero più tanto i polpastrelli erano gonfii a furia di pestare, uscì a prendere una boccata d'aria. Ma a mezzanotte era già di nuovo in camera sua e giù di nuovo a pestare, fresco e tranquillo come se non avesse già pestato tutto il giorno: e via da capo Brigante ed Eva, Vedova e Conte. Il maestro era lì, a due passi. L'aveva sentito entrare nella camera accanto, chiudere le finestre, sbadigliare, sternutire, soffiarsi il naso, uscire un momento di camera e poi rientrare per una necessità che era facile immaginare. Aveva poi sentito due scarpe cadere una dopo l'altra sul pavimento di legno, un letto scricchiolare sotto il peso di un corpo che vi si distendeva, la chiavetta della luce elettrica scattare con un piccolo colpo secco. Ora il maestro era tra le lenzuola. E Pierino Balla ricominciò con più foga di prima il settimino della Vedova, il gran valzer dei Conte, il coro dei parigini in Eva e il delizioso piccolo valzer della Figlia modulato lento lento come una ninna-nanna: «Bimba, sii buonina...» Doveva il maestro sentirsi lusingato di quell'omaggio d'un ignoto ammiratore e non poteva il giorno dopo, così lusingato nel suo amor proprio, non chiedere di conoscere quell'ignoto che conosceva il suo repertorio anche meglio di lui. Da quell'omaggio d'ammirazione non poteva nascere tra il maestro e l'ammiratore che un'affettuosa amicizia. E già Pierino la pregustava, e tanto ne era sicuro che, per quanto le tre fossero già suonate all'orologio d'una chiesa vicina, ricominciava per l'ennesima volta a strimpellare con tanto di pedale:
È scabroso la donna studiar...
Ma una voce suonò nella stanza vicina, d'improvviso:
— Zum Teufel diese schrekliche Musik!
Pierino diede un balzo su la sedia e, con le mani staccate di botto dalla tastiera, spezzò a metà le note di disperazion. Ebbe allora l'incertezza che sola conoscono i grandi capitani. Dar battaglia o rifiutarsi di continuare a suonare e smettere? Pierino e Franz Lehar hanno parlato in tedesco. Che cosa hanno detto? Quelle parole volevano dire: «Mio ignoto ammiratore, voi siete molto gentile» o volevano dire: «Mio signor vicino, mi avete rotto le scatole?» Pierino non sapeva il tedesco ma inclinava piuttosto verso la seconda traduzione, poichè se le parole gli erano sfuggite il tono gli era sembrato quale neppure in tedesco, per quanto la lingua sia dura ed aspra, si adopera per dire a qualcuno: «Grazie, caro, vi sono molto grato!» Nell'incertezza Pierino credette miglior consiglio astenersi dall'insistere; talchè richiuse cautamente il pianoforte, in punta di piedi girò per la camera spogliandosi e si coricò leggermente, come una piuma, perchè il letto non scricchiolasse. Quando fu anche lui fra le lenzuola ricordò che il gran Condè alla vigilia di una battaglia soleva dormire saporitamente. Fece quindi come il gran Condè e, voltosi su un fianco, sospirandosi ancora a mezza voce il Ninfa del bosco della Vedova, sentì che dalla stanza vicina un musicista che russava poco musicalmente gli offriva un impreveduto accompagnamento di contrabbasso.
La mattina dopo, quando il cameriere gli portò il caffè e il segretario dell'albergo chiese di essere ricevuto, il gran Condè non tardò a persuadersi che aveva perduto la battaglia. Il segretario avvertiva il cliente del numero 139 che doveva astenersi dal suonare il pianoforte dopo la mezzanotte poichè il cliente del numero 140 s'era vivamente lamentato di non aver potuto chiudere occhio fino alle quattro del mattino ed aveva persino minacciato di cambiare albergo. Timido e riguardoso, arrossendo e balbettando, Pierino Balla promise di non toccare più un tasto dopo suonata l'ora del coprifuoco, ma, con ardita decisione, colse l'occasione che gli si offriva e chiese al segretario di poter presentare di persona le sue scuse all'illustre autore della Vedova allegra. Ma quando il segretario fu per uscire e per andare a chiedere al numero 140 se era disposto a ricevere la visita e le scuse del numero 139, Pierino Balla fu preso da un'angosciosa preoccupazione e, trattenendo il segretario per la falda del soprabito, sospirò con un filo di voce:
— Ma parla solo tedesco?
— Parla anche un po' francese.
Pierino Balla chiamò a raccolta il suo piccolo vocabolario francese con pronunzia napoletana, contò su le dita i vocaboli che in quel momento gli occorrevano e quando fu al numero 140, in presenza del celebre maestro, ebbe la sgradita sorpresa di osservare che nel breve tratto di corridoio dalla sua stanza alla stanza del maestro, per quanto fossero così pochi, li aveva perduti tutti dal primo all'ultimo. Mormorò quindi le sue scuse in italiano e vide con giubilo che, su venti parole italiane, due o tre non erano per il maestro un impenetrabile mistero. Così, ritrovando un po' di calma, ritrovò anche una dozzina di parole francesi e con queste, improvvisando un'alleanza verbale franco-italiana in cui l'Italia aveva la parte del leone, potè dire al maestro la sua ammirazione, la sua idolatria, la gioia che provava a conoscerlo e a stringergli la mano. Da parte sua il maestro, allargando l'alleanza verbale sino a far entrare a fianco dell'Italia e della Francia anche l'Austria e l'Ungheria, si disse lusingato di vedere che quel giovane signore conosceva così bene tutta la sua produzione e gli strinse ripetutamente la mano, pronunziando in tedesco certe parolacce in ung e in zum che sembravano scapaccioni ma che dovevano essere complimenti a giudicare dal sorriso che le accompagnava.
— Vous êtes musicien?..., domandò poi Franz Lehar.
— Non, je suis..., rispose Pierino Balla toccandosi ripetutamente gli orecchi davanti al maestro che spalancava, sbalordito, tanto d'occhi.
E poichè, non ostante i gesti, il maestro non capiva, Pierino Balla spiegò:
— Je suis orecchiante... Je joue avec les oreilles...
La conversazione diventò cordiale. L'autore della Vedova Allegra disse a Pierino Balla la sua simpatia per l'Italia e, per spiegarla, spiegò che era ungherese e che naturalmente gli ungheresi... che sul vecchio ceppo latino... che la razza magiara... e tante altre cose cui Pierino rispondeva ripetendo a sazietà la sua ammirazione per Vienna e per le operette viennesi. In una pausa il maestro gli domandò:
— D'où venez-vous?
Di dove veniva? Pierino Balla fu sul punto di dire che non veniva da nessun posto, che veniva cioè da Roma. Ma ricordò a tempo che erano in albergo e che gli alberghi non sono abituale domicilio che per i viaggiatori. Ebbe tuttavia vergogna di confessare la sua infantile trovata, il sotterfugio cui era ricorso per avvicinare il maestro del suo cuore. E, dopo averci pensato un poco, rispose:
— Je viens de Naples...
— Ah, bella Napoli..., rispose il musicista con un sospiro cui Pierino credette dover rispondere con una riverenza.
Ma le sue pene non erano ancora finite. E poichè ad un viaggiatore non si chiede solamente donde venga ma anche dove vada, sùbito dopo si sentì chiedere dove era diretto. Còlto così alla sprovveduta, Pierino Balla non ebbe la prontezza di spirito di dire che andava semplicemente a Frascati, ma balbettando ebbe l'imprudenza di rispondere:
— Vado... vado a Vienna!
— A Vienna?
Già il maestro gli stendeva le mani, gli offriva la prova della sua simpatia:
— Sono molto dolente di non trovarmi a Vienna quando ci sarete voi... Sarei stato felice di farvi da cicerone... Ma voi vi tratterrete certamente... Almeno quindici giorni... un mese...
— Ecco... un mesetto...
— Benissimo... Tra quindici giorni vi sarò anch'io... Vi dò appuntamento a Vienna, mio giovane amico... Ma intanto vi darò una raccomandazione per il mio caro amico Kramer, il celebre maestro Kramer... Conoscete Kramer, l'autore di tante celebri operette, l'autore del Soldato in gonnella?
Pierino Balla non conosceva altri e sùbito l'irresistibile istinto lo spinse a cantare il più recente valzer di Kramer, mentre il suo interlocutore redigeva in tedesco il più misterioso biglietto di presentazione che mai potesse a Pierino capitare.
— Andate da Kramer, Ringstrasse 41... Vi aprirà tutte le porte... E' come se trovaste me stesso.
Il maestro era in piedi, gli consegnava la lettera, gli dava congedo.
— Aufwieder sehen!... Oggi è il venti. Sarò a Vienna il 5 giugno. Vi aspetto a colazione il giorno dopo.
E Pierino Balla, per mostrare che anche la sua ignoranza del tedesco aveva qualche lacuna, si ritirava mormorando:
— Danke... Danke... Grazie... Merci... Danke schön...
Quando fu fuori, scendendo le scale, ricapitolò gli avvenimenti. Aveva accettato una colazione a Vienna: doveva dunque andare a Vienna, alla città del suo sogno, alla sua patria d'elezione. Avrebbe consacrato a questo pellegrinaggio sentimentale uno degli ultimi biglietti da mille del suo piccolo peculio... Tanto, dal primo luglio, c'eran le centocinquantadue lire... E poi, prima di chiudersi al Ministero delle Poste, bisognava ancòra una volta ricordare che la vita non è che un valzer...
Per istrada urtò un amico che lo prese per il braccio e lo fermò:
— Dove vai?
— A Vienna.
— Quando?
— Stasera.
— E perchè mai vai a Vienna?
— Non lo so.
L'amico gli lasciò il braccio, lo guardò sbalordito e gli disse:
— Bada, figliuolo, tu diventi matto...
Ma già Pierino Balla riprendeva la sua strada con la testa in aria, ancòra coi piedi a Roma, già col cuore a Vienna, canticchiando a mezza voce:
Nell'aria di Vienna
c'è molta seduzion...