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II. SEI TU, FELICITÀ....

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Le cronache profane delle più galanti alcove e dei più ardenti amanti raccontano le disavventure di eserciti che rinunziano alla vittoria proprio davanti alla fortezza che si arrende e rinunziano quanto più fu lungo l'assedio e più desiderata e pregustata la vittoria. La sera in cui dalla sua vettura di seconda classe sbarcò sotto le massicce tettoie e tra gli ascensorini della Sudbanhoff, Pierino Balla, viaggiatore improvvisato, si trovò su per giù nella situazione poco brillante di quelli eserciti esausti proprio al momento di cogliere la palma del tanto sospirato trionfo. Un autotaxi lo trascinava rapidamente per le prime vie della metropoli e già Pierino sentiva andarsene tutta la sua forza d'amore. Quella, Vienna? Una grande città come un'altra. Quei grossi palazzi nuovi gli ricordavano i grossi palazzi nuovi del Tritone di Roma e del Rettifilo di Napoli e quei tigli — eran poi tigli? — che fiancheggiavano la strada non erano in nulla diversi dai piccoli alberelli magrolini e cittadini — eran platani, ontani? non ci aveva mai badato — che fiancheggiavano a Roma via Nazionale e sotto i quali, disegnanti a terra nel riflesso della luce elettrica un merletto d'ombre e di luci, se n'era tornato tante sere a casa, uscendo dal Costanzi e fischiettandosi i suoi cari, i suoi dolci valzer viennesi. Donne bionde, se si guardava attorno, non ne vedeva per quella strasse più di quanto ne incontrasse a Roma, pel Corso, all'ora del ritorno dal Pincio, nel tepore delle belle giornate. Nè c'era musica attorno a lui oltre lo strombettìo delle automobili e lo scampanìo dei tram. Era questa, Vienna? Ed era questa la sua musica? E dov'erano i suoi valzer? Ebbe la tentazione di interrogare lo chauffeur e di domandargli se per caso non avesse sbagliato, se non fosse sceso dal treno, prima di toccare Vienna, a Klangenfurt o a Gratz, per esempio. Ma si contenne. Che diamine! Era Vienna, ma una Vienna che non rassomigliava affatto all'idea canterina e ballerina ch'egli se n'era fatta a Roma, da lontano. Guardava attorno, disperatamente, oltre le vetrine dei caffè, per vedere se scorgesse nell'interno i palchetti bianchi delle orchestre e i dòlmanì rossi e le chiome bionde delle «dame viennesi». Ma che le «dame viennesi» fossero per Vienna solo un genere d'esportazione come le «ciociare», le pittoresche ed irreperibili «ciociare», per Roma? Pure riuscì a trovarle, poco più tardi, finalmente, le «dame viennesi». Disceso all'albergo, mutato d'abito rapidamente, non sapendo ancora orizzontarsi, aveva deciso di prendere in hôtel il suo primo pranzo viennese, di mangiare lì, religiosamente, il suo primo autentico panino di Vienna. Entrato nella sala da pranzo il cuore gli diede un balzo. In fondo alla sala, su un palchetto bianco stile Secessione, le «dame viennesi» — dòlmanì rossi, capelli d'oro — accordavano in una serie confusa di brevi pizzicati e di lunghe arcate, i loro violini e i loro violoncelli. Per quanto il maître d'hôtel già gli avesse scelto il tavolino e indicato con un inchino il posto assegnatogli, Pierino Balla traversò difilato l'ampia sala e andò a sedersi a un tavolino proprio lì, sotto l'orchestra, posto in modo che le spalle di Pierino seduto s'appoggiavano proprio al palchetto Secessione delle «dame.» Il maître d'hôtel era accorso ad inseguirlo e garbato avvertiva:

Peut-être ici la musique dérangera trop monsieur...

Disturbarlo, la musica? E la musica viennese? Ma se non era venuto che per questa... Quando ebbe ordinato il pranzo a prezzo fisso per non andare incontro a troppe sorprese, Pierino Balla si preparò ad ascoltare con mistico raccoglimento i valzer viennesi, i valzer viennesi suonati sul luogo dalle più autentiche dame viennesi che un innamorato del color locale potesse mai desiderare. Ma alle prime note dell'orchestrina ebbe una prima delusione e rimase con in aria il cucchiaio pieno di quel potage printanier dove c'era di tutto a tal segno che non sapeva assolutamente più di niente. L'orchestrina non aveva attaccato un valzer di Fall o di Lehar, ma una canzonetta napoletana: O sole mio. Tuttavia Pierino se ne sentì in fondo lusingato nel suo amor proprio nazionale e sperò, per il valzer, nel secondo pezzo. Senonchè, a canzone finita, lo aspettava la seconda delusione e più forte assai della prima. Questa lo colse mentre gustava con prudenza di cittadino di città di mare diffidente pel pesce delle città di terra, un loup de mer sauce tartare e fu sul punto di mandargli una lisca per traverso. Una «dama viennese» aveva infatti detto alla sua vicina nel più puro italiano di questo mondo:

— Dàmmi un ventaglio... Che caldo stasera!

E l'altra le aveva risposto col più gentile accento di Santa Lucia facendosi vento con un foglio di musica:

Mamma mia... E ccà se more!...

Le guardò esterrefatto. Italiane? Napoletane? Non credeva ai suoi occhi ed ai suoi orecchi. Si sturò questi, si stropicciò quelli. Era viaggiatore fresco ed inesperto, Pierino, e non sapeva ancora che, se come afferma il proverbio l'abito non basta a fare il monaco, il dòlmano rosso per lo più basta a fare la «dama viennese».

Fu così mortificato Pierino che quella sera, non uscì nemmeno dall'albergo e si chiuse in camera. Si coricò nel letto alla tedesca dopo aver manifestato alla femme de chambre una meraviglia, che la faceva ridere, di non trovare lenzuola come nei letti all'italiana. Guardò la bonne, diffidente: era bionda, parlava tedesco. Ma c'era da fidarsi? Non era anche lei almeno di Trieste? Interrogò: era ungherese.

Era napoletano anche in questo, Pierino Balla: che quando finalmente, per disgraziato accidente, aveva qualche cosa da fare, vi si gettava dentro a capofitto per uscirne fuori al più presto possibile. Lo stesso giorno in cui Franz Lehar l'aveva senza volerlo spedito d'ufficio a Vienna, Pierino aveva comperato due manualetti di conversazione in francese ed in tedesco. Durante due giorni e più di viaggio non aveva avuto altra lettura e, rincantucciato nel suo scompartimento, aveva masticato senza interruzione parolacce tedesche e paroline francesi con pazienza da benedettino. E fra le vocali mute delle paroline francesi e i battaglioni di consonanti senza vocali delle parolacce tedesche dimenticava l'italiano senza riuscire ad imparare nè il francese nè il tedesco. Continuò a letto, quella sera, la lettura dei suoi manualetti e la mattina dopo, al bureau dell'albergo, col manualetto aperto in mano su cui gettava di tanto in tanto occhiatine senza parere, volle esperimentare i progressi che aveva fatti. Chiese l'indirizzo del maestro Kramer e si fece spiegare l'ubicazione della strasse in cui il maestro Kramer abitava. La fraülein che gli rispondeva si sentì autorizzata da quelle sue quattro o cinque parole di tedesco a scaricargliene addosso quattro o cinquecento, a massima velocità; e Pierino, con un sorriso ebete e rassegnato, aspettava che il diluvio gutturale passasse senza ch'ei fosse riuscito a sapere in che via abitava il grande maestro nè dove fosse la via in cui il grande maestro abitava. La signorina del bureau era bionda e parlava tedesco come solo uno studio condotto fin dall'infanzia per la precisa esecuzione dei suoni più sgradevoli può permettere a gola di parlarlo. Finito il diluvio e data un'occhiatina al manualetto, Pierino s'arrischiò a chiedere alla signorina se almeno lei era di Vienna: e si sentì rispondere con aria fiera e con cipiglio irritato che no, che era di Praga, che era boema.

La ricerca del maestro Kramer gli costò trenta corone d'automobile e un fiero mal di capo tanto s'era scervellato a compulsare avanti e indietro le pagine del manualetto di conversazione per riuscire a spiegarsi con chauffeurs e passanti, portinai e cameriere. Quando e come Dio volle riuscì a scovare il domicilio del maestro Kramer e in questo una piccola governante, bionda anche lei, carina, dagli zigomi assai pronunziati, dai grandi occhi azzurri; e la piccola governante, quando sentì che Pierino Balla parlava tedesco assai male, si mise a parlare assai bene francese per spiegargli che quel giorno il maestro Kramer era assolutamente irreperibile poichè proprio quella sera, al teatro An der Wien, doveva aver luogo la prima rappresentazione della sua nuovissimo operetta: Il valzer dei valzer. La piccola governante, vedendo Pierino desolato, gli consigliò di cercare il maestro a teatro all'ora della rappresentazione e, con bei modi e un francese parlato così chiaramente che anche lui lo capiva, gli fornì tutte le indicazioni necessarie con una cortesia di cui Pierino non potè non ringraziarla manifestandole anche la sua meraviglia di trovare una viennese che parlava il francese comme une vraie parisienne. Ma la piccola governante ebbe un ultimo sorriso e, richiudendo la porta dell'appartamento del maestro Kramer con un bell'inchino della sua testolina bionda, spiegò:

— Non sono viennese, signore. Je suis polonaise.

I tedeschi non ammettono che il piacere del teatro li debba mandare a letto ad ore troppo avanzate nè che li possa costringere a pranzare alla svelta come dobbiamo invece far noi quando una prémière ci raduna in un teatro. I tedeschi dànno la precedenza ai piaceri del teatro su quelli della digestione. Noi distruggiamo invece questi per quelli. Ed è così che si spiega come tante produzioni teatrali ci riescano assolutamente indigeste e come il pubblico italiano dia prova sovente a teatro d'una deplorevole intolleranza. Il teatro viennese è aperitivo e quello italiano dovrebbe essere digestivo. Tra la fortuna costante degli autori tedeschi e l'ostinata avversità che accompagna di solito gli autori italiani non c'è che l'ostacolo di un pranzo non digerito. Così, alle sei di sera, Pierino Balla prendeva posto all'Ander Wien in un'ultima poltroncina aggiunta che miracolosamente aveva potuto procurarsi ed ascoltò in estasi i valzer nuovissimi del maestro Kramer e associò i suoi applausi italiani disordinati ed impetuosi a quelli militarizzati, disciplinati, che dalle mani degli spettatori viennesi suonavano ad ogni fin d'atto, come il passo cadenzato d'un reggimento in marcia.

Trovò il maestro Kramer in palcoscenico tra il primo ed il secondo atto del Valzer dei valzer, circondato da una folla di ammiratori e di ammiratrici tra i quali Pierino riuscì a fatica, a furia di bitte e di pardon, ad aprirsi un varco per consegnare al maestro Kramer la letterina di presentazione che Franz Lehar gli aveva consegnata a Roma. Non appena ebbe letto, il maestro gli stese le mani e, colossale, attirò a sè il piccolo giovane italiano con tanta violenza di subitanei affetti che Pierino ebbe paura di andare a sbattere il naso contro quella montagna d'adipe e di vestiti.

— Oh, meine liebe — esclamava il maestro Kramer scuotendogli e riscuotendogli le mani fino a spezzargli le braccia — oh, meine liebe freund Lehar, il mio caro Franz... E la bella Italia... il benvenuto, mein herr...

E, senza transizione, come se Pierino non fosse venuto a Vienna che per questo, aggiunse:

— Vi voglio presentare a mia figlia... a mia figlia Eva...

Poi, dopo una pausa, stringendogli un braccio da stritolarglielo e avviandosi verso la porticina del palcoscenico:

— A mia figlia Eva che ama molto gli Italiani...

Era carina, Eva; e s'ella amava gli Italiani, tutti gli Italiani non avrebbero fatto per amar lei la minima difficoltà. Non tardò a persuadersene, Pierino, quando in un palchetto di proscenio si trovò seduto accanto a lei e alla graziosa governante galiziana che l'aveva ricevuto al mattino. Kramer, appena presentato il giovane italiano alla figlia italianofila, era ritornato a raccogliere in palcoscenico gli allori del suo trionfo. Cortese, deferente e niente affatto invadente, Pierino lasciò del tutto alla signorina Eva la cura di sostenere la conversazione e si limitò ad inserire tra i suoi denti bianchissimi e i suoi baffetti d'ebano un sorrisetto cerimonioso che a qualunque parola di Eva diceva sempre, docilmente, di sì. Alcune amiche di Eva vennero, nell'entr'acte, a interrompere il discorso di lei e il sorriso di lui. Eran tutte carine, tutte bionde e parlavan tutte tedesco, talchè Pierino non capiva nulla e non sorrideva più temendo di dire con quel sorriso di sì quand'era forse invece il caso di dir di no. Quando la prima se ne riandò Pierino chiese ad Eva: «E' viennese, è vero?» Ed Eva: «No. E' morava. Provincie tedesche». Quando se ne riandò la seconda Pierino richiese ad Eva: «Ma questa è proprio viennese, non è vero?» Ed Eva: «No. E' rumena. Di Czernowitz». E quando fu la volta della terza, più bionda che mai, vestita di rosso, più che mai «dama viennese», Pierino trionfò: «Ma questa sì, è di Vienna. L'ha scritto in viso». Ed Eva «C'è scritto una bugia. E' czeca. Di Troppau». Con un fil di voce Pierino osò domandare: «Ma lei sì, lei almeno è viennese, signorina...» Ed Eva con una bella risata squillante: «L'ho scritto in faccia anch'io? Come legge male lei... Io son rutena, come mio padre...»

Perchè Pierino non fosse minacciato da una improvvisa meningite sotto tanto sforzo etnografico e geografico cominciò opportunamente il secondo atto ed Eva invitò il giovane italiano a restare a sentirlo, lì, in palco, accanto a lei. Vide Pierino la giovane signorina rutena e la giovane accompagnatrice polacca comporsi a severa e contrita attenzione come si trattasse d'ascoltar Wagner a Bayreuth. Egli stesso, che pure adorava i valzer, li ascoltava di solito con più italiana leggerezza. Per la prima volta in vita sua un valzer, il valzer dei valzer, tant'era suonato e danzato con gravità sacerdotale, chiamò uno sbadiglio su le sue labbra. Lo nascose garbatamente in quell'ombra da cui guardava estatico la bella signorina Eva, la signorina Eva, cioè, che a prima vista sembrava bella ma che a guardarla meglio era solo piacente perchè nel suo viso c'erano tutti gli stili come nella carta geografica del suo paese ci son tutte le razze: fronte greca, naso napoleonico, labbra ebraiche, occhi chiari cristianissimi, zigomi slavi, capelli biondi slavati più svizzeri che viennesi. Era elegante, aggraziata, con una piccola grinta un po' ringhiosa che contrastava con l'urbanità più che affabile delle sue parole. Nè grande nè piccina, era una piacente mediocrità femminile che poteva passare anche inosservata se si fosse chiamata semplicemente Mayer o Muller ma che, chiamandosi Kramer, essendo la figlia del celebre maestro Kramer, avendo certo per dote un bel milioncino di corone e una villa in Carinzia di cui ella aveva già parlato al giovane visitatore, non poteva certamente lasciare nessun cuore maschile indifferente. Durante l'intero atto ella e la giovane polacca non interruppero che tre volte il silenzio per guardare verso un gruppo d'ufficiali ch'era in un palco e per brontolare in tedesco parole nervose e precipitose nelle quali Pierino non raccolse che queste, chiare ed oscure insieme: herr major Hampfel. E lo vide, Pierino, il major Hampfel quando, alla fine dell'atto, tornata la luce, scoppiati gli applausi, il bell'ufficiale si levò in piedi e dalla sua barcaccia s'inchinò alla signorina Eva la quale credette opportuno di spiegare a Pierino:

— Il maggiore Hampfel, degli usseri... marito della mia più cara amica... prossimo ad essere destinato come attachè militare alla nostra ambasciata di Roma.

E, con un sospiro, Eva aggiunse:

— Beato lui che vivrà a Roma... Adoro Roma. Il Foro... L'Excelsior... Bellezze uniche al mondo!

E, squadrando Pierino come per misurarne l'altezza morale e materiale:

— Siatene fiero, signore.

Era fiero, sì, Pierino, di sentirsi dire da Eva tante cose carine su l'Italia così piacevole pei turisti, su gli italiani così garbati e così gentili con tutti, che cantano tutti così bene, che amano tanto la musica viennese.

— So che la musica di mio padre, disse Eva, è popolarissima in Italia... E vedete come amo l'Italia io... Mastico anche un po' d'italiano quasi passabilmente... Ho avuto una istitutrice triestina.

— Ah sì? Di Trieste?, esclamò Pierino con nobile slancio patriottico.

— Di Triest! corresse con prudenza politica Eva.

Durante il terzo atto Pierino sentì ancora le due signorine brontolare in tedesco e ancora non riuscì che ad afferrare due o tre volte le parole chiare ed oscure insieme: herr major Hampfel. Poi, quando la rappresentazione fu finita, Kramer tornò nel palco con un gruppo di attrici e di amici e mentre Eva indossava il mantello disse:

— Andiamo tutti a cena al Prater.

Poi, voltosi a Pierino, gli disse in un italiano a modo suo:

— Voi ci farà il piacere di soupare con noialtri.

Senza farselo dire due volte Pierino corse al guardaroba a ritirare il suo soprabito. Anche là una bella ragazza bionda, in una specie di divisa fra il portinaio e l'ammiraglio, serviva il pubblico con grazia tutta viennese. Distratto, ed anche perchè in tedesco non trovava la parola, quando fu per pagare Pierino le domandò:

— Quanto?

Sentì la bella ragazza viennese rispondergli in italiano:

— Una corona, signore, e la sua buona grazia.

E mentre cercava nel suo portamonete la corona e la buona grazia, Pierino non potè non esclamare:

— Come? Lei non è viennese?

E la guardarobiera con un bel sorriso chiaro di casa nostra:

Mi no, sior... Mi son de Trento!

Li sentì e li risentì finalmente, Pierino, i suoi cari valzer di Vienna, durante quella cena al Prater, suonati e risuonati da decine di orchestrine di «dame» autentiche o no e di zigani artificiali o naturali poste al centro di tutti i restaurants che punteggiavano di architetture elettriche le dolci ombre del bel parco viennese. Uscendo alle dieci precise, a diese uhr, dai cinquanta teatri della metropoli, Vienna elegante e mondana affluiva al Prater, a piedi, in vettura, in cento automobili rombanti e scintillanti, discendendo lungo i quattro chilometri dell'Hauptallee tra i tigli odoranti, le aiuole fiorite e i pali della luce elettrica tutti adorni di fiori come nel fasto capriccioso d'una primavera artificiale. Luci rosse, azzurre, gialle, bianche, balenavan qua e là disegnando nel verde notturno le sagome dei restaurants e delle birrerie, dei caroselli e dei circhi equestri del Wurstelprater. Seduto con belle signore fiorenti e giovani signori eleganti ad un tavolino en plein air del restaurant più accorsato, tra il maestro Kramer che gli parlava di musica e la signorina Eva che con gli occhi languidi e lo sguardo lontano aveva l'aria di sospirare d'amore, Pierino viveva la sua dolce sera viennese come nel dormiveglia d'un mezzo Sonno. Sentì ancora due o tre volte tornare nella conversazione metà tedesca e metà francese il nome dell'herr major Hampfel. Chi poco parla — e Pierino era muto assolutamente — ha luogo più degli altri di osservare; e due o tre volte infatti notò che, quando la gente nominava l'herr major Hampfel il maestro Kramer si oscurava in volto, come se quella sera non gli avessero metodicamente applaudito alla tedesca il suo Valzer dei valzer, ma come se gliel'avessero invece genialmente ed estemporaneamente fischiato all'italiana. E poichè la natura gli aveva dato due occhi e, benigna, glieli aveva accordati eccellenti tutt'e due, mentre col sinistro osservava il malumore del maestro, col destro Pierino seguiva il linguaggio muto di Eva la quale, non appena l'herr major era nominato, cercava gli occhi della signorina galiziana ed intavolava così un linguaggio cifrato impossibile a comprendersi. Intanto i valzer seguivano ai valzer, nuovi e nuovissimi, vecchi e vecchissimi e, in estasi, Pierino si lasciava cullare da loro, guardando le stelle e i lampioncini, i dòlmanì delle dame viennesi e gli alamari d'oro degli zigani e lasciando squagliare nel suo piattino la fetta di spumone all'italiana che un cameriere gentleman più dei gentlemen che serviva vi aveva delicatamente deposto. Sentì in quell'estasi un'altra musica italo-austriaca, poichè la vocina della signorina Eva gli susurrava all'orecchio con pronunzia prettamente austriaca parole approssimativamente italiane:

— Vedete, qui, davanti a noi, questi viali oscuri che si perdono nell'ombra? E' il centro, il cuore del Prater, non ridotto a giardino ma tenuto a bosco. E', di notte, l'angolo caro agli innamorati.

Ci andò pochi minuti dopo a passeggiare anche lui nel cuore del Prater, con la signorina Eva mollemente appoggiata al suo braccio. S'era levata da tavola, gli aveva chiesto una sigaretta, una sigaretta italiana — che gli Italiani chiamano chi sa perchè Macedonia mentre su la Macedonia, avvertì la signorina Eva, l'Austria ha gli occhi ben spalancati — e, accesa la sigaretta, gli aveva detto con un sorriso che, volapück universale, gli aveva fatto capire più di un intero vocabolario:

— Voglio far vedere anche a voi il cantuccio degli innamorati.

Pei viali sempre più oscuri, sempre più remoti, Pierino sentiva il dolce peso del braccio della signorina Eva farsi sempre più grave sul suo braccio destro. Ella taceva e fumava. Ai riflessi multicolori che penetravan fra gli alberi i capelli d'oro di lei s'accendevano di scintille. E ad un tratto ella disse fermandosi di colpo e guardandolo bene in viso:

— Voi dovete amare l'amore. Siete Italiano.

E senza aspettare la risposta, che del resto Pierino cercava disperatamente senza trovarla, aggiunse riprendendo la via:

— Voi Italiani siete i primi innamorati del mondo.

Pierino credette doveroso d'inchinarsi leggermente ringraziando a nome di tutt'i suoi connazionali e sentì che Eva proseguiva:

— Avete tutti il Vesuvio nel cuore e negli occhi e una canzone su le labbra.

Trovò Pierino la risposta che gli parve straordinaria:

— Come voi viennesi avete tutte nel cuore e su le labbra il più dolce dei valzer!

La signorina Eva rideva:

— Che cosa credete che Dio abbia inventato prima: il valzer o l'amore?

Pierino ebbe un lampo di genio:

— Dal valzer, rispose, nacque l'amore e dall'amore nacque il valzer, signorina.

Eva rise ancora. Poi, quando un'orchestra vicina ma nascosta tra gli alberi sospirò dai violini il più appassionato valzer del repertorio, il Sei tu, felicità... di Lehar, ella disse con un sospiro:

— Ah, il mio valzer...

— Ed anche il mio, sospirò a sua volta Pierino.

Lo ascoltarono rallentando il passo, lo canterellarono a fior di labbra stralunando gli occhi in su, verso le stelle. E il dolce peso del braccio di Eva si faceva sempre più dolce ma sempre più grave. Sospiravano i violini la dolce melodia:

Sei tu, felicità,

passata a me vicino...

— Quante cose..., mormorò ancora Eva. Quante cose dice questo valzer... Non sentiamo tutti, in certi momenti, che forse la felicità ci passa vicino e che non sappiamo arrestarla e dirle come il nostro Goethe all'attimo fuggente: «Fermati, sei bella...»

— E' vero... E' vero..., mormorò Pierino che di Goethe conosceva appena il Mefistofele di Boito.

— La vita è così, continuava Eva. Si va, si viene, si arriva, si parte, ci si incontra... E poi... E poi un giorno, forse, ci si sospira:

Sei tu, felicità,

passata a me vicino...

E canticchiava, coi violini delle «dame viennesi».

— E' il mio valzer, il mio valzer! ridisse poi quando la sua vocina non potè raggiungere l'acuto. Ricordo la prima sera che Lehar lo suonò a casa nostra... Se ci ripenso, mi sento ancora gli occhi umidi di lacrime... Ah, la vita...

Poi, senza transizione:

— Siete ricco, voi?

— No, signorina, rispose Pierino; e, temendo di far fare brutta figura agli Italiani: — Era ricco mio padre. Ma poi, la vita...

— Lavorate? Siete avvocato?

— Sì, signorina.

— Avete molte cause?

— Comincio adesso.

La signorina Eva lo incoraggiò:

— Si capisce. Ma farete fortuna. Tutti si deve cominciare... Anche mio padre era suonatore di contrabasso in un teatro di provincia... Quando si è giovani... E poi voi Italiani siete tutti oratori!

Ma la signorina Eva non aveva esaurito ancora le sue domande:

— Siete fidanzato?

— No, signorina.

— Avete allora un'amante?

— No, signorina.

E Pierino, cortese, si credette in dovere di diventar rosso per lei. E più diventò rosso, anche per sè, quando sentì il peso del braccio di lei sul suo braccio farsi più grave e sempre più lungo, sempre più lungo. E, poichè temeva di far sfigurare gli Italiani, Pierino si credette in obbligo di rispondere a quel peso con una piccola stretta, leggera, che poteva anche sembrare involontaria, ma che volontariamente invece gli fu sùbito restituita.

— Rimarrete a Vienna qualche tempo? chiese a voce bassa la signorina Eva...

— Oh sì, signorina... E come potrei ripartire?

Non chiese la signorina Eva ulteriori spiegazioni. Mormorò solamente:

— Potremo rivederci spesso, così...

E poichè il valzer di Lehar riprendeva, tornando indietro verso le illuminazioni dei restaurants e appoggiandosi al braccio di Pierino come se fosse tanto stanca, tanto stanca, ella ricominciò a cantarellare con gli occhi fissi lassù alle stelle del carro di Boote:

Sei tu, felicità,

passata a me vicino...

Poi, scoppiando a ridere, esclamò:

— Il mio valzer... Il «nostro» valzer...

E, lasciato il braccio di Pierino, giunta al confine tra il bosco d'amore e il Prater mondano, corse via verso la tavola di suo padre e dei suoi amici...

L'oscurità concilia, dicono, i più profondi pensieri e Pierino non pensava infatti profondamente che al buio. Così quella sera, quando fu a letto ed ebbe spenta la luce elettrica, questo pensiero gli apparve come una rivelazione: «Ma se in tre ore ho fatto già tanta strada, io in trenta giorni me la sposo...» Non poteva veramente aspettare un mese perchè il suo tavolino di vice-segretario di terza classe alle Poste lo attendeva. Ma se ne rideva di quelle centocinquantadue lire se il valzer di Lehar, se quel delizioso Sei tu, felicità... doveva regalargli il milioncino della signorina Kramer e la villa in Carinzia.

Ma Pierino era prudente e, nella prudenza, diffidente. Gli sembrò che gli Dei gli fossero troppo clementi nel fargli trovare tre ore prima il maestro Kramer e tre ore dopo una mogliettina d'oro bell'e pronta. Lì, a occhi chiusi, si rivedeva davanti l'herr major Hampfel ne sentiva ripetere il nome, riudiva le parole di Eva: «Il marito della mia migliore amica... Beato lui!... Verrà a Roma, attachè militare della nostra Ambasciata...» Rivide anche il malumore del maestro Kramer all'udire quel nome ed il sorriso di complicità con cui la signorina galiziana rispondeva agli sguardi interrogativi di Eva. Tutti questi ricordi oculari ed auriculari turbavano un poco la gioia che gli inondava il cuore... Se quel major Hampfel... Se la signorina Eva... Il marito della sua migliore amica... Ed il major Hampfel veniva a Roma... E Pierino era italiano e risiedeva proprio a Roma... Era, intuito, intravveduto, accennato appena, il romanzo, l'intrigo, il dramma, l'occasione propizia offerta dal caso per riparare a Roma ciò che a Vienna s'era imprudentemente guastato... Ma Pierino, che era ottimista, scosse quei pensieri neri e si disse: «Come siamo curiosi, noi Italiani... Romantici tutti!.... Vediamo sùbito il dramma e il romanzo anche dove c'è semplicemente l'idillio... Che vuol dire se quest'idillio è stato troppo rapido?... L'ho forse inventato io stasera il coup de foudre

E, per tornare a pensieri leggeri, aveva riacceso la luce elettrica e, a piedi nudi, in camicia, era andato a porsi davanti all'armadio a specchio. Che c'era poi di tanto strano in quel coup de foudre? Non poteva egli sprigionar d'improvviso l'elettricità di un cuore femminile? Era lì, nello specchio... Si guardava spassionatamente, come si trattasse di un altro... Era, dopo tutto, un bel ragazzo... E non c'era nulla, proprio nulla di strano...

— Avanti!

Sopra pensiero aveva risposto avanti... non riflettendo che così, in camicia, non era in condizioni da ricever visite a quell'ora. Ma già una graziosa cameriera bionda, che non era più l'ungherese della sera prima, era entrata portando una bottiglia d'acqua che Pierino non ricordava affatto d'aver richiesta. Anzi, poteva giurarlo...

Voilà l'eau, monsieur...

E, premurosa, la camerierina si avvicinava a Pierino che aveva in fretta reintegrato il suo letto, e versava l'acqua nel bicchiere, e offriva il bicchiere e un sorriso quanto mai incoraggiante. E Pierino ch'era italiano, Pierino che, come diceva Eva, aveva il Vesuvio nel cuore accettò l'acqua, il sorriso e l'incoraggiamento. E la luce si spense senza che Pierino si fosse accorto di spegnerla...

Quando la riaccese per permettere alla camerierina di rispondere a un ostinato squillo di campanello nel corridoio, Pierino si sentì completamente rassicurato nei suoi timori di poco prima per Eva Kramer e per la sua troppo subitanea fortuna.

— Lo dicevo io? si disse sorridendo. Prima di tutto, è merito mio... E poi... l'ho visto anche adesso... Son tutte così, queste viennesi: ardenti, appassionate, di primo impeto...

E poichè la camerierina bionda tornava a riprendere la cuffietta dimenticata scappando via:

— Tu sei viennese, è vero, carina?

E lei, augurandogli con un sorriso la buona notte, rispose:

— Io no. Son croata!

Croata?

«E dire» — pensò Pierino — «che i professori di Storia ci insegnavano a scuola che i croati son gente tanto cattiva... Per le croate, perdio, posso garantir io del contrario!...»

Il

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