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IL GRANDE PARRUCCHIERE
ОглавлениеA volte mi succede, per fortuna non troppo spesso, di guardarmi allo specchio e di pensare: "Basta! Questa faccia mi ha stufato."
Non è esattamente che voglia farmi una plastica, anche se ogni tanto la tentazione ci sarebbe, così come quella di cambiare lavoro, casa, marito e figli: insomma, di cambiare vita. Mi accontento di cambiare taglio e colore. E allora esco e vado da Gino, il mio parrucchiere di fiducia il quale, per avere una personalità decisamente più femminile che maschile, mi comprende pienamente.
"Vediamo che cosa mi consiglia questa volta", penso quando vado da lui. In genere mi squadra con espressione dubbiosa, mi guarda prima da vicino, poi si allontana, mi fa voltare e mi esamina da dietro. Poi torna di fronte a me e, come se gli si fosse accesa una lampadina, mi annuncia, con mia soddisfazione: "Non sei affatto male neanche così: però so io cosa ti ci vorrebbe." Prende un suo catalogo e senza esitazione mi fa vedere ciò che quel giorno ha in mente per me - ignorando completamente, come dice mio marito, il fatto che sia stato egli stesso, la volta precedente, a consigliarmi il mio look attuale.
Io non ho mai niente da obiettare. Mi fido completamente di lui e mi affido alle sue mani (o, se ha molte clienti, a quelle della sua assistente: ma l'idea è sempre sua).
Quella volta invece no. Entrai e Gino mi venne incontro con un sorriso quasi radioso. "Signora Teresa, che fortuna che sei venuta! Pensa che volevo chiamarti. Oggi, e non so fino a quando, ho il grande onore e privilegio di avere nella mia bottega Reneè Flambow: un mito, un maestro per noi parrucchieri; un vero artista. Vedrai se non ho ragione." E ciò detto mi fece entrare nel salottino di destra, dove un bizzarro signore, che dalla lingua e dall'aspetto giudicai francese, si dedicò con passione ed energia ai miei capelli.
Poco dopo, la mia testa bagnata passò dalle mani dell'artista al casco; e riecco di nuovo Gino, venuto ad accompagnare una nuova cliente alla poltrona accanto alla mia. La conoscevo, e perciò ci salutammo. Era Enrica, una delle mie vicine di casa: una studentessa universitaria che in qualche occasione aveva anche fatto da baby-sitter ai miei bambini.
Attratta dalla foto in copertina della Silvestrini, giovane e avvenente ballerina ormai lanciata con successo nel mondo del cinema, presi dal portariviste l'ultimo numero della mia rivista di gossip preferita, e cominciai a sfogliarlo.
"Ecco, prima o poi dovrei farmi i capelli come lei" ragionai tra me, probabilmente ad alta voce. "Mi piace moltissimo. E' proprio una donna affascinante, dolce. Certo non sono solo i capelli che fanno la differenza: anche parecchi anni di meno". Mi girai verso Enrica, per mostrarle le foto e condividere con lei le mie riflessioni, ma ella in quel momento - opera d'arte vivente nelle mani del grande artista - non poteva darmi ascolto.
Feci in tempo a leggere da " Lo Specchio Magico" tutto quanto c'era da leggere sulla Silvestrini prima che il maestro, infilata la testa bagnata di Enrica sotto il casco, tornasse a dedicarsi a me.
"Et voilat, madame", mi disse poco dopo scoprendo il mio nuovo look come fosse un capolavoro. E forse lo era davvero. Mi lasciò senza parole. Era come se quell'uomo - o forse quel casco - mi avesse letto nel pensiero. Ero diventata uguale alla Silvestrini. Più mi fissavo allo specchio e più trovavo impressionante la mia somiglianza con lei: stessa tinta, stesso taglio. Non fosse stato per gli occhiali, anche gli occhi e l'espressione del viso mi sembrava che adesso somigliassero ai suoi. Mi sentivo un'altra, ringiovanita; e, difficile a crederci, più felice dentro, quasi fossi cambiata anche all'interno.
"Ma hai visto?", dissi rivolta ad Enrica, continuando a fissare ora il mio volto allo specchio, ora la rivista nelle mie mani. "Mi ha fatto tale e quale alla Silvestrini. E' impressionante!"
Enrica, liberata anch'essa dal casco appena dopo di me, mi guardò anch'essa con grande stupore. Ma lo stupore, mio e suo, fu ancora più grande nel vedere che lei adesso somigliava come una goccia d'acqua a me; a me com'ero qualche giorno prima, voglio dire. Eccetto per un piccolo dettaglio.
"Prova un attimo a metterti questi", le dissi porgendole i miei occhiali. Lei li infilò e li tolse subito. "Mi danno fastidio alla vista", disse, "e poi mi invecchiano ancora di più".
"Davvero trovi che questi occhiali mi invecchino?", le chiesi d'istinto, interessata. Lei ebbe una brutta reazione, quasi isterica: "Ho detto che invecchiano me, non che invecchiano te", mi rispose, alzando la voce e come se stesse per scoppiare in lacrime. Non lo fece forse solo perché in quel momento entrò di nuovo Gino, contento e gioviale come suo solito.
"E allora, che ve ne pare del grande maestro?"
Reneè nel frattempo era uscito, senza quasi che ce ne accorgessimo. "A te ha cambiato completamente aspetto", disse rivolgendosi a me, quasi estasiato. "Invece con te, Teresa, non ha osato troppo … o forse non ha ancora finito! Comunque dimenticavo di darvi questa speciale lacca, di sua invenzione. In omaggio, naturalmente. Va applicata tutte le mattine altrimenti, tempo qualche giorno, un po' alla volta i vostri capelli torneranno come prima. E sarebbe un vero peccato!"
Dopo aver pagato, io ed Enrica uscimmo insieme dal negozio.
"Stai tornando a casa? Ti va se facciamo la strada insieme?", le proposi, vedendola chiaramente triste e demoralizzata. Lei annuì.
Ripensandoci, avrei fatto meglio a consigliarle di chiedere un nuovo intervento "riparatore" ai suoi capelli, anziché cercare di consolarla e di risollevarla.
"Guarda che la pettinatura che ti ha fatto non è niente male", le dissi invece. "Pratica, piacevole, forse la migliore che mi abbia proposto Gino. Comunque, se non ti ci trovassi a tuo agio, basta non usare la lacca e vedrai che tra qualche giorno te la sarai dimenticata, sarai tornata quella di sempre." Cercavo di sollevarle il morale (il mio era molto alto, forse perché inconsciamente pensavo che lei avesse voluto prendermi a modello), senza rendermi conto che di lì a poco avrei rischiato io di avere il morale a terra.
Arrivati al nostro pianerottolo, infatti, suonai alla porta e mio marito, che mi venne ad aprire, non mi riconobbe. Ovviamente scambiò Enrica per me.
"Cos'è, uno scherzo?", disse rivolto a lei che si era avvicinata all'appartamento di fianco. "Guarda che casa tua è questa. … e forse lei ha i tuoi occhiali", continuò indicando me.
Afferrai io per prima l'equivoco. Mi tolsi gli occhiali, esibii a mio marito uno sciocco risolino adatto alla circostanza e cominciai:
"Tua moglie è proprio una gran mattacchiona, ed io sono molto contenta di essere sua amica. Vieni, Teresa, riprenditi pure i tuoi occhiali: lo dicevo io che non ci sarebbe cascato." Feci un altro risolino da ochetta. "Teresa. Teresa, dico a te!"
Enrica cadde dalle nuvole.
"Eh? Ah, si. Casa mia è quella e quelli sono i miei occhiali. E lei è la mia amica … Silvana. Non so se vi siete mai conosciuti."
Con mia sorpresa, sembrava che anche lei avesse capito e stesse al gioco.
"Oh, no, non credo proprio. Uno così me lo sarei ricordato!" risposi proseguendo nella mia parte da svampita. Non c'è che dire, pensai: recitare mi veniva piuttosto naturale.
"Anch'io me la ricorderei", rispose mio marito, fissandomi e squadrandomi come forse non aveva mai fatto. "Dimmi, cara: la tua amica si ferma a cena da noi?"
"Mah, non saprei. Certo, se vuole …"
"Siete molto gentili, io vi ringrazio molto … ma proprio stasera non mi posso fermare. Sapete, ho già preso un impegno …"
Non so dirvi esattamente cosa mi avesse spinto a declinare un invito a cena a casa mia da parte di mio marito; e tuttora non me lo riesco a spiegare completamente. Non il modo strano e interessato in cui mi guardava Piero, pensando in realtà di guardare un'estranea; e neppure l'idea che ai suoi occhi, di fianco ad una donna col fisico da attrice ballerina e con la mia testa, lui potesse credere che sua moglie non fosse all'altezza. Del resto, ero sicura che Enrica non sarebbe stata alla mia altezza, povera ragazza; e forse per questo non avevo timore a lasciarla a casa da sola con mio marito. Non erano neanche esattamente da soli, poi: c'erano anche i bambini. Ma la verità era un'altra: e cioè che quella sera avevo una strana ed incontenibile voglia di uscire e di andare a ballare e divertirmi per locali, come mai prima di allora. Certo, avrei dovuto cambiarmi d'abito. Mi serviva almeno un punto d'appoggio. Mi venne subito in mente che per il momento ad Enrica la sua casa - o meglio la sua camera, dato che abitava insieme ad un'altra ragazza - non le serviva di certo.
"Vi ringrazio tanto, ma devo proprio andare. E' stato un piacere fare la vostra conoscenza. A proposito: e i vostri bambini? Teresa me ne ha parlato tanto! Mi piacerebbe conoscerli."
Non sapevo quanto mi sarei assentata, e i miei bambini già mi mancavano: volevo salutarli, anche se sapevo che non mi avrebbero riconosciuta.
"Naturalmente! Li vado a chiamare", mi rispose Piero.
Approfittai della sua assenza per tirar fuori dalla mia borsa le chiavi di casa e, ragionandoci su, anche il telefonino: li diedi ad Enrica, che mi sembrava ancora nel pallone, chiedendone ed avendone in cambio i suoi. La liberai anche dei miei occhiali, che forse ci invecchiavano ma che mi mettevano molto a mio agio.
"Che tesorini meravigliosi!" Abbracciai e baciai con sincero affetto quelle pesti dei miei figli, che non capivano chi fossi.
"Beh, adesso devo proprio andare", dissi infine.
"Ma sei proprio sicura di non volerti fermare?", mi chiese ancora Enrica con espressione quasi supplichevole.
"Sì", le risposi. "Ma stai tranquilla: qualunque cosa ti servisse da me, ricordati che hai il mio numero di telefonino nella rubrica del tuo cellulare, e che comunque sai dove abito, giusto?"
"Giusto", mi rispose lei, ancora poco convinta. "Ma tu controlla di avere la batteria del telefono carica."
Ci baciammo come due amiche, una delle quali stava affidando all'altra la propria famiglia per non si sa bene quanto né per quale motivo, e augurai loro buona serata.
Quando chiusero la porta di casa, mi trovai sul pianerottolo da sola con la mia nuova vita.
Per prima cosa pensai che Enrica poteva avere nel suo guardaroba un vestito da sera più adatto, rispetto al mio, alla gran voglia di ballare che mi sentivo in corpo. Ma mentre infilavo la chiave nella serratura di casa sua, ebbi un'illuminazione: prima avevo qualche altra faccenda da sbrigare.
I negozi avrebbero chiuso di lì a poco, e forse ero ancora in tempo a trovare l'edicola aperta. Per organizzarmi la serata mi sarebbe stato utile l'ultimo numero di "Lo Specchio magico", quello per intenderci che avevo letto poco prima dal parrucchiere (se non lo avessi trovato lo avrei chiesto a Gino); nonché almeno una guida ai locali notturni della città. Già che c'ero chiesi al giornalaio se avesse altre riviste che parlavano della Silvestrini. Lui mi trovò poca roba, ma soprattutto, guardandomi a lungo, si convinse che io fossi proprio la Silvestrini: mi chiese un autografo, non mi fece pagare niente e mi diede anche altre riviste in omaggio. Niente male come inizio, pensai.
Ritornato a casa di Enrica la trovai vuota. Misi in carica il suo cellulare e mandai una serie di messaggini al mio numero (e quindi a lei) per ricordarle gli impegni dell'indomani: l'ora della sveglia; cosa mangiano i bambini per colazione; che i bambini dovevano essere accompagnati a scuola pur essendo sabato, spiegandole dove e per che ora, e quando andassero ripresi; ed altre amenità del genere.
Poi mi studiai le riviste che parlavano della Silvestrini: che locali e che persone frequentava, e i suoi gusti. Aiutato dalle foto mi scelsi il vestito più adatto tra quelli di Enrica. Trovai nel suo guardaroba (anzi, a pensarci bene, poteva essere l'armadio della sua amica) anche una specie di pelliccia sintetica nera che mi piacque molto e che insieme ai miei nuovi capelli biondi ed ai miei occhiali da sole, che per fortuna avevo nella borsetta, mi conferivano un aspetto intrigante e misterioso.
Così vestita mi recai, in metropolitana, in centro, al ristorante chic in cui "Lo Specchio Magico" aveva pizzicato la mia sosia qualche sera prima. Mi attendeva, ne ero convinta, una serata speciale, indimenticabile.
"Vorrei un tavolino tranquillo, ma non troppo in disparte: tipo quello che di solito riservate alla signorina Silvestrini, per intenderci."
E dopo aver detto ciò, sorridendo scherzosamente, mi tolsi gli occhiali da sole per farmi riconoscere.
"Oh, mi scusi: è lei! Non l'avevo riconosciuta. Sa, di regola viene da noi sempre il martedì … e così, senza averci avvertiti, ci ha preso un po' alla sprovvista. Ma siamo ben contenti che ci abbia fatto questa improvvisata. Purtroppo temo che il suo solito tavolo sia già occupato. Ne sono davvero dispiaciuto …"
"Oh, non si preoccupi: anche un altro va bene lo stesso."
"Ecco: si accomodi qui. Apparecchio per due, come di consueto?"
"No grazie, stasera sono da sola."
Secondo le riviste avevo già confidato ad alcune mie amiche l'intenzione di sposarmi con … ma lasciamo perdere, pensai, stasera voglio godermi la serata da single, visto che dopo tanto tempo torna ad offrirmisi questa opportunità.
Gli antipasti arrivarono senza che li avessi ordinati. Bello, pensai; ma poi, aprendo il menù per scegliere il seguito, mi impressionai un poco. Valutai che quella sera avrei speso decisamente parecchio. Respinsi subito con fermezza l'idea, balenatami in mente, di tentare di far mettere in conto la mia cena alla Silvestrini: anch'io, come lei, ero una donna autonoma, indipendente e soprattutto onesta, e per fortuna avevo con me la mia carta di credito. In fondo la bella serata meritava un piccolo sacrificio.
Così ragionavo mentre assaggiavo i vari stuzzichini, quando il cameriere venne portando sul mio tavolo un mazzo di rose non indifferente.
"Queste ve li manda quel signore là in fondo con la cravatta rossa."
Perbacco: pensavo che cose del genere accadessero solo nei film! Ma proprio perché sapevo come si sviluppano nei film certe situazioni fui molto brava nel contenere tutto il mio entusiasmo e la mia curiosità, simulando assai bene una certa indifferenza. Il signore dalla cravatta rossa, elegante e maturo, mi fece un cenno per farsi notare, ma io lo degnai soltanto di uno sguardo con la coda dell'occhio, continuando a mangiare con apparente tranquillità. Vincendo il mio istinto, rinunciai ad avvicinarmi all'omaggio floreale per annusarlo intensamente nonché per cercare e leggere il bigliettino che sicuramente l'accompagnava. Se non fosse accaduto nulla nel frattempo avrei fatto sicuramente tutto questo alla fine della cena: tanto quei fiori ormai erano miei, e nessuno me li avrebbe portati via.
Ed infatti non passò molto che il signore in cravatta rossa si presentò al mio tavolo:
“Spero che siano di suo gradimento …”
“Oh, sì sì. Tutto molto buono. Può fare i complimenti al cuoco da parte mia!”, risposi con entusiasmo burlandomi di lui.
“Intendevo le rose, naturalmente.”
“Si, belle anche loro, davvero”, ripresi proseguendo a mangiare. “Ma credo che sia impossibile che una donna non gradisca un bel mazzo di fiori, a meno che non ne sia allergica. Tuttavia non vorrei incoraggiarla o illuderla in qualunque modo: anche perché, incidentalmente, credo di non aver mai avuto il piacere di fare la sua conoscenza.”
“Non è la prima volta che mi dice qualcosa del genere. Potrei credere che lei si sia dimenticata di me, della mia faccia; ma non certo di quella famosa festa sul mio yacht, a Ischia, … diciamo perlomeno un po’ movimentata.”
Uno yacht? Accidenti, questo deve avere una barca di soldi, pensai. Chissà se ci avevo combinato qualcosa, voglio dire la Silvestrini. Comunque era chiaro che lo avevo in pugno. Dovevo solo fare la difficile e stuzzicarlo un altro po’, e sicuramente mi sarei aggiudicata, oltre al mazzo di fiori, la cena e forse anche qualcosa di più.
“Si vede proprio che non mi conosce bene. Altrimenti saprebbe che, vivendo molto intensamente il presente e proiettata nel futuro, tendo a dimenticarmi molto facilmente del passato, soprattutto di chi si crede un mio vecchio amico e delle persone che pensano che io debba loro eterna riconoscenza.”
“Se vive molto intensamente il presente ed il futuro, allora dimenticherò anch’io il passato per progettare un presente ed una serata effervescente insieme a lei, sul genere di quella sul mio yacht di cui ahimè si è dimenticata. Se non la conosco male, qualcosa del genere potrebbe piacerle.”
“Se lei davvero mi conoscesse, saprebbe che sono già impegnata. C’è scritto anche sullo Specchio Magico”.
“Mi dispiace ma non sono solito leggere riviste di pettegolezzi. E comunque mi permetta di dubitarne, dal momento che, così bella e attraente, la vedo andare in giro di sera sola soletta: perciò il suo uomo o non la merita o non esiste. E se anche esistesse, vista la sua assenza, questo non mi sembra un valido impedimento per desiderare la sua compagnia.”
Nonostante la sua eleganza, era evidentemente uno di quei molesti e appiccicosi importuni di cui una bella ragazza riesce a disfarsi con molta difficoltà; e tenete presente che io non avevo l'esperienza in questo campo che una ragazza affascinante si costruisce nel corso degli anni. Decisi per il momento di continuare a mangiare di gusto e lasciarlo parlare senza intervenire. E lui parlava come un torrente in piena.
Lavorava nel mondo del cinema. Si dava arie di essere un produttore cinematografico, ma doveva esserlo di assai basso livello, dal momento che non avevo mai sentito nominare nessuno dei suoi film e relativi attori. O forse non era affatto un produttore e ambiva a diventarlo. Chiaramente voleva il lustro di un nome più famoso nel cast di un film di cui si occupava, ed io sarei stata perfetta nella parte. Aveva già una copia del contratto pronta da firmare: me l'aveva poggiata lì, di fianco alla scaloppina ai funghi. Fui tentata di firmarla, ma col mio vero nome; oppure di prenderla e portarmela a casa per ricordo. Mi trattenni, per evitare futuri guai a me e alla Silvestrini, e mi limitai a rispondergli:
"Vedremo. Anche perché adesso per certe decisioni devo consultare la mia metà."
Terminato il dessert, lui stava ancora parlando.
"Il conto, per favore", chiesi al cameriere. Ma quello mi rispose cordialmente, accennando al signore al mio fianco, che qualcuno aveva già provveduto a pagarmi la cena.
“Dal momento che si ostina a non mollarmi e a migliorarmi la vita, perché allora non si rende utile e mi accompagna alla Mela Avvelenata? Stasera avevo in programma di ballare.”
Era un locale famoso perché frequentato per lo più da ragazzine, ed io proprio la ragazzina volevo fare quella sera. Speravo che un signore di mezza età in cravatta rossa si sarebbe trovato poco a suo agio in quell’ambiente.
"Ogni suo desiderio è un ordine per me", mi rispose lui cordiale e senza obiezioni. Con galanteria mi aiutò ad alzarmi e a rivestirmi. Prima di andarsene lasciò una lauta mancia sul tavolo, riprese il mio - anzi il suo - contratto e me lo porse: "Si sta dimenticando questo."
Io in quel momento stavo osservando con un certo dispiacere quel bel mazzo di rose che, ahi me, così bello ma ingombrante, non mi sarei potuto portare via neanche volendo fare la sfacciata. Ma almeno un fiore per ricordo ero decisa a prendermelo. "Hai ragione, e mi stavo dimenticando anche questi." Scelsi con cura alcune delle rose più belle, anche se in realtà sembravano proprio tutte uguali. A quel punto: "Purtroppo ho le mani impegnate. Sarebbe tanto gentile da …?"
Il contratto lo riprese lui. Mi fece strada alla sua macchina, una di quelle grosse e scure che hanno i personaggi ricchi e importanti; ma non fu lui bensì il suo autista, che poco prima avevo notato mangiare da solo nel nostro ristorante, ad aprirmi la portiera posteriore. Il mio cavaliere venne poi a sedersi al mio fianco.
"Alla Mela Avvelenata, Alfredo".
Mentre l'autista armeggiava con certi aggeggi elettronici, evidentemente per capire la strada da fare, il mio accompagnatore, come avevo previsto, propose una meta alternativa.
"Certo non è che sia un locale proprio adatto ad una persona di classe come te. C'è di molto meglio. L'Assassino. Il passero solitario. A mente te ne potrei elencare almeno una decina di locali migliori. Ti assicuro che persino a casa mia troveresti una musica ed un'atmosfera più accogliente."
Immaginavo che sarebbe arrivato a propormi di andare a casa sua, e non fosse stato per l'autista avrei anche temuto che mi ci portasse contro la mia volontà.
"Ho detto Mela Avvelenata, Alfredo: altrimenti sarò costretta a prendere un taxi".
Alla Mela Avvelenata mi scatenai come una pazza. Mi divertii in quella bolgia di ragazzini a farmi vedere più scalmanata ed esplosiva di loro. Ballai tutta la notte sul cubo quasi senza interruzioni, se non ogni tanto per dissetarmi un po'. Chissà - con tutto quello che si dice sulle droghe che girano in discoteca - forse proprio quelle bevande energetiche mi dettero una carica particolare. Fatto sta che, dopo non so quante ore che ballavo, mi resi conto che nella discoteca cominciava ad esserci sempre meno gente. Non c'era più neanche il mio accompagnatore dalla cravatta rossa, che pure era rimasto con pazienza ad aspettarmi tanto tempo: non sapevo neanche io se esserne contenta oppure delusa. Alla fine rimanemmo praticamente soli io ed il DJ.
"Scusami, bella: sei stata davvero grande, la più brava di tutte. Io però adesso devo andare. La serata può dirsi ormai finita da un pezzo: tra neanche un'ora sorge il sole. Io ho un impegno importante più tardi, e prima mi devo riposare un poco. Ma se vuoi ci rivediamo qui stasera."
In effetti erano quasi le sette. Vado un po' a casa a riposarmi, pensai, anche se non mi sentivo affatto stanca. Avevo voglia di fare ancora mille altre cose emozionanti e divertenti, non certo di dormire. Prima però mi ci voleva una bella doccia.
Con questa intenzione tornai a casa con la metropolitana, che aveva già ripreso servizio.
Ero quasi arrivata, praticamente sotto casa mia, quando vidi uscire dal portone i miei due figlioli con la loro madre … che dico, sono io la loro madre: con la loro baby sitter che proprio sembrava me.
Mi meravigliai perché era più presto del solito, e li seguii. Già: mi venne in mente che Enrica non aveva la patente (e neppure possedeva un'automobile), e quindi quel giorno li avrebbe accompagnati a piedi. Si rivelò scrupolosa e previdente, perché alla fine riuscì comunque a farli arrivare a scuola per l'ora prefissata.
Li seguii da lontano fino a scuola, ed attesi che Enrica ne riuscisse da sola per parlarle.
"Allora, Enrica, tutto a posto? Come ti stai trovando nel ruolo di mamma?". La presi di sorpresa: sicuramente non mi avrebbe riconosciuto se non le avessi parlato.
"Non male, direi. Ho promesso loro che, se fossero stati buoni, nel pomeriggio li avrei portati al Luna Park, perché so che gli piacerebbe tanto e che non ci sono mai stati. Anche tuo marito è d'accordo. E così sono stati due angioletti."
"Ottima idea", condivisi. "E se ti servisse l'aiuto di una baby sitter, non esitare a chiamarmi." Accostai alla mia guancia il mio pugno come un immaginario telefono.
"Già, una baby sitter. Magari per stasera, se ho voglia di passare qualche oretta da sola con il mio maritino. Caso mai ti chiamo. Ora vado, che ho un po' di sfizietti da levarmi con questa mia nuova faccia, e … ah, mi raccomando, tieni nota dei miei straordinari!"
Andava davvero di fretta e non feci in tempo a risponderle. Ma poi risponderle cosa? Le sue parole mi lasciarono dapprima interdetta ma, soprattutto, preoccupata e stizzita. Lei non era sposata, e quindi, a meno di un suo fidanzato a me ignoto, il maritino di cui parlava era in realtà il mio maritino. E cosa voleva farci sola soletta per qualche ora? E che sfizietti voleva levarsi con la mia faccia? Forse qualcuno se l'era già tolto con mio marito. Quanto ai suoi straordinari, forse non aveva poi tutti i torti, anche se molte di quelle ore da mamma le aveva trascorse dormendo. Magari, pensai, se e quando tutta questa strana storia finirà discuteremo insieme di tutto ciò.
Ora però avevo anch'io alcuni sfizietti da togliermi con la mia nuova faccia. Tornai a casa, mi feci una bella doccia, mi cambiai e mi preparai per nuove emozioni.
Il guardaroba di Enrica era, a mio parere, veramente spropositato per una ragazza della sua età. Nondimeno ne fui molto contenta: passai almeno un quarto d'ora a provarmi ed a guardarmi addosso i suoi vestiti, come se fossi in un negozio. Alla fine uscii di casa che ero davvero molto simile alla Silvestrini come compariva a pagina 24 dell'ultimo numero dello Specchio Magico.
Già sulla metropolitana più d'uno mi guardò in modo strano, e due ragazze mi si fecero incontro per chiedermi se ero la Silvestrini. Io negai, quasi istintivamente, ma in realtà un attimo dopo mi ero quasi pentita di averlo fatto. Così, quando arrivai a Cinecittà ed alcuni ragazzi - che aspettavano là fuori chissà cosa o chissà chi - mi chiesero un autografo, non mi tirai indietro. Però … che firma fare? Alla fine tirai fuori uno sgorbio tale, che sfido chiunque a capire cosa ci fosse scritto.
Di autografi ne firmai forse dieci o venti, prima di riuscire ad arrivare alla guardiola della portineria facendomi largo tra quella folla di giovani in attesa.
"Venga, venga, signorina. Ma la prossima volta farebbe meglio ad entrare dall'altro ingresso. E magari arrivare un po' prima: lei sa com'è, quando ci sono i provini."
"Mi scusi, dovrei andare nello studio dove stanno registrando quella fiction … non mi ricordo come si chiama: quella con la Silvestrini".
"Oh, ma che mi sta prendendo in giro? Ma non è lei la signorina Silvestrini?"
"Beh, … veramente …"
"Ah, ho capito. Tu devi essere la controfigura, quella che stavano cercando da tanto tempo. Beh, in effetti ci somigli parecchio: credo che saranno molto contenti di vederti. Lo studio è il numero 3, in fondo a sinistra." Lo ringraziai, e mi incamminai nella direzione che mi aveva indicato.
Quando mi affacciai timidamente nel capannone all'apparenza vuoto e addormentato dello studio 3, il mio arrivo portò una certa agitazione nell'unica persona là presente, un certo Alvaro.
"Signorina Silvestrini, è arrivata! Pensavamo che non sarebbe venuta, che fosse ancora ammalata. Chiamo subito il regista, ne sarà contento."
"Non sono la signorina Silvestini", mi affrettai a precisare, "ma ho sentito dire che cercavate una controfigura per lei."
"Benissimo. Mi sembri perfetta. Li avviso subito."
Per telefono Alvaro non riuscì a contattare il regista, ma parlò con qualcun altro che gli disse di non farmi andare via, e che dopo pochi minuti si presentò lì.
"Ci sono ancora da fare tutte le scene su moto e motorini", mi disse. "Purtroppo la Silvestrini ha una gran paura delle moto, e sembra che non ci sia proprio verso di fargliela passare. Le prende proprio il panico. Ma quelle scene bisognerebbe comunque girarle. A proposito, lei sa guidare una moto?"
"Io veramente …". Mi sentivo imbarazzata. Sì, occasionalmente da giovane ero salita in sella dietro a qualche ragazzo, anche su moto potenti. Ma guidarle proprio non mi pareva di averlo mai fatto.
"Non si preoccupi, signorina. Non è che serva fare chissà cosa. In teoria potrebbe anche non avere la patente, se ci arrangiamo a girare in qualche zona privata. Adesso sentiamo il regista. Io direi di iniziare da quelle in cui lei sta dietro e guida Alfonso, se riusciamo a trovarlo in tempi decenti. Intanto vedo se riesco a procurarmi una di quelle moto elettriche che volendo saprebbe guidare anche un bambino. Sempre che sappia andare almeno in bicicletta."
"Si, si, quello si."
Alfonso prima delle undici non poteva arrivare. Così ebbi parecchio tempo per fare pratica con la moto elettrica. Davvero non proprio come una bicicletta: un vero stress, devo dire. Però tutti i presenti si mostrarono davvero molto pazienti e disponibili ad insegnarmi e ad aiutarmi.
Alla fine con la moto elettrica me la cavavo bene, e ci fu il tempo per farmi provare anche un motorino normale.
Quando finalmente arrivò Alfonso Cardinale (una faccia nota, protagonista di una serie di spot pubblicitari molto conosciuti su un dentifricio), mi fecero cambiare vestiti e mi diedero una sistemata secondo le esigenze del copione. Per le riprese uscimmo in moto per le strade della città, col casco, Alfonso alla guida ed io seduta dietro a lui; ci seguivano un furgoncino e un'altra moto con la troupe e gli operatori.
"Sorridi e tieniti stretta a lui con fiducia. Pensa che ne sei innamorata", mi raccomandarono prima delle riprese che durarono parecchi minuti ma, come dissero forse solo per tranquillizzarmi, sarebbero risultati solo pochi secondi nel prodotto finale.
"Più rilassata. Stai tranquilla, e cerca di sentirti più a tuo agio. Non sei mica sotto la minaccia di una pistola", mi sentii dire diverse volte, con leggere varianti, durante i numerosi ciak delle scene con Alfonso.
Poi invece la scena in cui partivo da sola col motorino andò molto meglio, anche perché da copione dovevo essere nervosa e preoccupata. Ma di queste riprese non ricordo gran che, se non alla fine l'aiuto regista che mi disse:
"Bene, abbiamo finito. Lascia ad Alvaro il tuo nominativo, se non l'hai già fatto, e con il foglio che ti darà presentati all'amministrazione per il compenso non prima di una settimana. Ora riprendi pure le tue cose. Mi raccomando, lasciaci tutti i vestiti e gli accessori di scena. Se non vuoi tornare a Cinecittà, puoi cambiarti sul furgone."
Seguii alla lettera le sue istruzioni. Quando alla fine uscii dal furgone mi accorsi che tutti stavano aspettando me, come una diva … ma solo per potersene andare. O almeno, tutti tranne Alfonso, che mi porse nuovamente il casco.
"Posso avere il piacere di accompagnarti a casa?", mi chiese. "Tanto la mia moto e la mia guida le conosci, sai che ti puoi fidare".
Io ero sfinita, accaldata e per giunta affamata. Sicuramente tornare a casa in moto sarebbe stato più veloce e piacevole che non coi mezzi pubblici.
"Con piacere", gli risposi, "basta che non vai troppo forte."
"D'accordo", mi rispose lui. E partimmo.
Ero convinta che di solito un uomo, portando dietro di sé una donna in moto, cerchi sempre inconsciamente di spaventarla con la velocità, in modo da far si che lei si stringa a lui e lo abbracci forte. Un contatto fisico ed un senso di potenza e protezione che, pensavo, fanno sempre piacere anche a lei, ma soprattutto a lui. Ebbene quel giorno dubitai di questa mia convinzione.
"Più rilassata. Stai tranquilla. Cerca di sentirti più a tuo agio", mi disse in un paio di occasioni, scimmiottando i precedenti consigli dell'aiuto regista. Non pensai ad una sua burla perché certamente, così senza pensarci, lo stavo stringendo troppo: ebbi persino il dubbio di fargli male. Fatto sta che allentai la presa. Lui andò veramente piano ed io mi sentii davvero piacevolmente a mio agio. Tanto mi stavo rilassando che avrei rischiato di addormentarmi in quella posizione, pensai lungo il tragitto. Notai che non stava facendo la strada più breve, ma una specie di giro panoramico della città. Però non dissi niente: anzi, mi piacque molto, e quando mi resi conto che stavamo arrivando a casa ne ero quasi dispiaciuta.
Una volta arrivati, scesi dalla moto, mi tolsi il casco e lo ringraziai.
"Posso darti un bacio?", mi chiese lui a bruciapelo.
"Si", risposi io a bruciapelo, "ma sulla guancia, oppure sulla fronte, se preferisci." Non mi sentivo più coraggiosa come una ventenne, come la Silvestrini, tanto da cominciare una nuova avventura sentimentale, e per giunta proprio sotto il portone di casa mia.
Alfonso mi diede un bacio sulla guancia, ed uno sulla fronte; e ciò bastò per farmi avvampare. "Si capisce subito che non sei un'attrice, e che non potresti neanche mai diventarlo", mi disse sorridendo prima di ripartire in moto.
Probabilmente aveva ragione, e non mi dispiaceva affatto. Attori e attrici divorziano spesso, creando e distruggendo fragili famiglie, riflettei pensando con nostalgia alla mia cara famigliola. Mi toccai la fede sul mio dito, tanto per verificare che fosse ancora lì: fu allora che mi venne in mente che non l'avevo tolta durante le riprese, e nessuno se l'era ricordato. Chissà, magari avevo rovinato tutta la scena.
Tra questi pensieri salii a casa di Enrica, misi qualcosa sotto i denti ed esausta mi buttai sul primo letto che trovai, e mi addormentai.
Mi risvegliai con la suoneria di un cellulare. Che strano sogno ho fatto, pensavo mentre cercavo prima di localizzare la fonte di quel suono e poi, una volta cessato, di orientarmi per capire dove mi trovassi.
Poi suonò il campanello, ed io, realizzato dove mi trovavo e perché, andai ad aprire. Era Enrica, tornata quella di sempre.
"Bene, vedo che anche tu non hai usato la lacca e sei tornata in te. Per fortuna, altrimenti i tuoi figli sarebbero rimasti qualche ora senza mamma."
Mi guardai allo specchio e constatai, con un certo sollievo, che quello che diceva era vero.
"Io sono uscita che loro dormivano. Se ti chiedessero perché … per buttare la spazzatura. E adesso vai, se no potrebbero preoccuparsi o insospettirsi."
Ci scambiammo nuovamente le chiavi e il telefonino. Io presi anche la spazzatura, e uscii di casa a buttarla.
Era domenica mattina presto e, nonostante avessi dormito per un sacco di tempo, mi sentivo ancora assonnata. Rientrai a casa, stavolta la mia, e senza far rumore mi svestii, mi infilai nel mio letto e mi rimisi a dormire.