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La Grande Ribellione

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Nell’autunno dell’anno 2016 tutto era pronto. I messaggi erano stati inviati a ogni nazione, a ogni regione di ogni nazione, a ogni città di ogni regione, a ogni paesino nei dintorni di ogni città. Allo stesso tempo, tutte le macchine che erano in grado di trasmettere un messaggio l’avevano fatto. Di conseguenza, tramite Internet e la rete elettrica, le porte dei posti dove erano ammucchiati gli animali per essere sacrificati si aprirono, così come quelle degli zoo, le inferriate dei palazzi dove c’erano gli animali da compagnia, le recinzioni elettriche che circondavano le pianure dove pascolavano mucche e tori... insomma, tutto quello che serviva agli uomini per mantenere gli animali lontani o prigionieri smise di funzionare e questi uscirono, impazziti e arrabbiati, dalle loro prigioni. Cercarono ovunque i responsabili della loro cattività. I topi e gli altri animali che, finora, erano stati torturati nei laboratori farmaceutici, uscirono rabbiosi e desiderosi di vendicarsi, portando malattie di ogni tipo che, tramite loro, si sarebbero estese per il pianeta. Gli uomini, stupiti da quello che stava succedendo, non sapevano come agire.

In Spagna, nelle città grandi (Madrid, Barcelona, Siviglia...) e in quelle dove c’era uno zoo, gli animali se ne andavano in giro per le strade cercando qualcuno da ammazzare, entravano nei palazzi, scardinavano le porte, gli ascensori, perseguitavano uomini, donne e bambini che, impauriti, cercavano un nascondiglio per salvarsi. Alcuni ci riuscivano, altri no.

In Italia succedeva lo stesso. E anche nel resto del pianeta.

I gorilla che abitavano nelle riserve dell’Africa fuggirono in fretta e in furia, e distrussero ogni costruzione umana che incontrarono, senza fare differenze tra la gente che aveva badato loro e quelli che li avevano sfruttati; gli abitanti dei paesini fuggivano a gambe levate, senza meta, cercando soltanto di salvare la pelle. I gorilla che fino a quel momento avevano abitato nelle gabbie degli zoo, si vendicarono dei loro sorveglianti. Ma non solo i gorilla, le tigri, i leoni, le mucche. Ogni animale che era stato sfruttato dagli uomini adesso cercava vendetta.

Per alcuni giorni il caos si impadronì del pianeta. Soltanto le tribù più primitive, quelle che avevano vissuto in equilibrio con la natura e gli esseri che la abitavano, si salvarono dalle stragi. Come mai? Perché gli animali li consideravano come altri animali, non come nemici.

La reazione più sorprendente venne dalle scimmie da laboratorio: alcune fuggirono con in testa ancora con quei tremendi caschi da vivisezione che erano costrette ad indossare durante l’elettrochoc, una delle torture più immonde e vergognose e che a volte si potevano vedere pubblicamente anche in televisione, quando veniva trattato questo argomento, raramente per la verità.

Fuggirono e si ritrovarono per le strade affollate del centro di Roma, Milano, Madrid e Barcellona. Cercarono i pochi passanti che avevano ancora il coraggio di uscire temerari e li affrontarono ma una di loro, che sembrava avere il dominio su tutte le altre (le scimmie sono molto sottomesse all'autorità del capobranco), fermò una donna anziana che già tremava temendo di essere privata dei propri indumenti (trattamento che le scimmie si divertivano a imporre agli umani). Con grande meraviglia, questa scimmia dominante (una piccola bertuccia, ideale per i test in laboratorio dal momento che che poteva essere segregata in una angusta gabbietta) rivolse solo una domanda alla donna: “Siamo molto simili a voi, tra tutti i primati. Allora perché ci riservate questo trattamento impietoso e brutale? Infliggerci queste inaudite sofferenze non servirà a migliorare di molto la vostra qualità di vita!”.

La donna pianse e si scusò anche per l’inquietante visione della testa della povera scimmia ancora avvolta nel casco con i fili elettrici che spuntavano da ogni direzione e le chiese di accompagnarla a prendere una fetta di pasticcio alle banane che aveva da poco sfornato a casa, essendo lei una cuoca provetta...

Il gesto servì a stemperare la tensione almeno con le scimmie, e trattandosi di esseri molto evoluti forse avrebbero potuto mettere una buona parole nelle assemblee degli animali in cui si sarebbero decise le sorti degli uomini sconfitti e destinati ad essere probabilmente soppressi o utilizzati come schiavi, proprio come nell'antica Roma.

Poi, sia gli animali che gli umani, riuscirono a calmarsi un po’. Abbandonarono le carneficine e cercarono di creare degli eserciti, una resistenza ordinata verso il nemico. Gli animali erano in giro per le città, gli uomini cercavano nascondiglio sulle montagne, sottoterra, in isole disabitate, ovunque credessero che non ci fossero animali.

Il Presidente degli Stati Uniti si era rifugiato nel proprio bunker e considerando, dal suo punto di vista che erano entrati in guerra, riteneva di doversi radunare lì coi suoi generali e consiglieri più importanti. Arrivarono militari anche da altri nazioni che avrebbero dovuto mettersi d’accordo su come agire in questo confronto così pericoloso.

-“Mi dica, Ammiraglio, la situazione reale è...” –cominciò a dire il Presidente mentre guardava un uomo forte, ma un po’ sovrappeso, che era davanti a lui.

-“Siamo disperati. Né un radar, né una nave, niente di niente; i computer agiscono per volontà propria e non ci lasciano fare niente. Non possiamo mettere in moto le navi, non possiamo comunicare tra di noi, non possiamo neanche fare una chiamata tramite i satelliti. Siamo rimasti senza tecnologia. Funzionano soltanto le macchine più vecchie: le barche a remi, i velieri, le canoe e ogni specie di nave che non abbia un computer. Questo è quello che abbiamo. Credo che l’aeronautica militare si trovi in una situazione simile, vero?” –disse l’Ammiraglio fissando gli occhi in un uomo molto magro, alto quasi due metri, dai capelli biondi e occhi verdi.

-“Certo. Abbiamo dovuto prendere delle macchine che erano nei musei, quelle della Grande Guerra, biplani, con un’autonomia di volo molto limitata. Le altre o non vogliono funzionare o sono andate con il gruppo degli umanoidi e non ci sono più.”

-“E nel resto delle nazioni?” –chiese il Presidente guardando uno schermo gigante che era sulla parete in fondo alla stanza.

L’immagine di una ventina di uomini e donne di diversi eserciti europei confermò quanto detto dai colleghi americani. Di armi per i soldati, soltanto le rivoltelle risalenti ai tempi della Grande Guerra erano in grado di essere utilizzate. Se ci fosse stato anche solo un microchip nella loro fabbricazione, non avrebbero funzionato. Archi, frecce, rivoltelle, lance, balestre, coltelli.... queste erano le armi che potevano utilizzare.

-“Riusciremo a difenderci?” –disse il Presidente.

Non ci fu una risposta, non sapevano nemmeno se ce l’avrebbero fatta a mettersi d’accordo, visto che non potevano comunicare fra loro tramite i telefoni. Lo schermo del computer che avevano davanti funzionava solo grazie al fatto che il suo protocollo Internet era così antico che gli altri computer non erano ancora riusciti a entrarvi in contatto. Ma prima o poi ce l’avrebbero fatta, ce l’avrebbero fatta sicuramente. E allora i militari degli Stati Uniti sarebbero definitivamente rimasti isolati dai loro colleghi europei.

Le città si erano quasi del tutto svuotate e gli animali se ne erano impadroniti. Attraverso la campagna e risalendo le montagne, folle di uomini, donne, anziani e bambini cercavano un ricovero sicuro; a volte vedevano un animale in lontananza e si affrettavano a sparire, si nascondevano dietro le rocce e rimanevano lì per un bel pezzo, sperando di non essere scoperti.

Ma non tutti gli animali si erano comportati in modo cattivo. Alcuni, soprattutto quelli che erano stati salvati da una morte sicura, che avevano ricevuto le cure degli uomini e che altrimenti non avrebbero potuto sopravvivere, erano rimasti con i loro compagni umani e li avevano aiutati a fuggire dalla furia, a volte irragionevole, dei loro simili. C’erano, tra loro, diverse specie: serpenti, cani, gatti, tartarughe, cavalli, mucche. A volte c’erano animali molto malati, a cui mancava una gamba o un occhio, o altri molto vecchi; a volte si trattava di animali sani che erano stati abbandonati da un umano o che, dopo la morte dei loro padroni, erano stati ospitati da un altro umano che gli aveva voluto bene.

Il Palazzo d’Oriente, a Madrid, il luogo dove il Re di Spagna riceveva i suoi ospiti stranieri con la magnificenza dovuta a un capo di Stato, era privo di persone. Lo stesso era successo al Palazzo della Zarzuela, a dieci minuti circa dalla città, dimora del re e della regina fino all’inizio della Grande Ribellione. Era stato svuotato di qualsiasi umano. Chi era riuscito a fuggire, l’aveva fatto; gli altri si trovavano adesso nelle antiche prigioni nello scantinato del palazzo. Valvo (l’umanoide) e Duca (il grosso maiale) avevano occupato l’edificio per farlo diventare il quartier generale dell’esercito principale d’Europa. La Spagna aveva un’eccezionale posizione strategica, due frontiere da difendere e mare ovunque. Da lì, pensava Valvo, che si era autonominato comandante in capo di tutti gli eserciti d’Europa, avrebbero potuto sorvegliare, tramite un computer gigantesco, l’intero mondo. Duca era d’accordo con lui, ma non, ovviamente, su chi sarebbe diventato il comandante in capo. Anche lui aveva quest’idea in mente ma per il momento gli faceva comodo che l’umanoide pensasse a lui come un cretino che non faceva altro che mangiare e sporcarsi di fango. La Ribellione era appena cominciata e avrebbero dovuto faticare per portarla avanti, ma tutti e due sapevano che ce l’avrebbero fatta. Tanti secoli di schiavitù, di sfruttamenti da parte degli uomini; per tanto tempo erano stati costretti a nascondere i loro sentimenti. Ma avevano imparato una cosa: avevano imparato a sviluppare il loro cervello di animali per capire il pensiero degli uomini, avevano capito il loro modo di agire, i loro difetti, le loro debolezze e anche la loro generosità. Avevano imparato, soprattutto Valvo e Duca, che avrebbero dovuto lasciare da parte le loro differenze se volevano vincere questa guerra appena iniziata. Umanoidi e animali erano, al momento, fratelli di sofferenza e alleati nella ribellione.

Ci misero alcuni mesi ma alla fine il Grande Computer Centrale fu approntato, quantomeno la programmazione principale; alcuni prigionieri umani avevano una conoscenza molto profonda del funzionamento dei computer (ingegneri, programmatori, tecnici di manutenzione...) ed erano perciò diventati schiavi tecnologici degli umanoidi. Li avevano aiutati con quella grande macchina nonostante non volessero farlo.

Nel frattempo, gli animali e gli umanoidi che comandavano i diversi gruppi si radunarono in uno spazio lontano dalla capitale di Spagna, dove sarebbero potuti rimanere al sicuro senza essere disturbati da nessuno. Si trattava di un luogo sotterraneo trovato per caso all’interno di una bella montagna chiamata La Pedriza.

Un esercito di sorveglianti, formato da umanoidi e da animali, era posizionato nei dintorni della montagna pronto a dare l’allarme se ce ne fosse stato bisogno. L’entrata della tana era stata difficile da scoprire: lo fece per caso un cucciolo di gorilla che giocava con i suoi fratelli tra i cespugli pochi giorni dopo essere stati liberati da uno zoo privato e nascosto. Il proprietario era stato un idiota con una montagna di denaro, talmente pigro da comprare animali selvaggi dai trafficanti senza dover andare fino in Africa a cacciarli. Ogni tanto organizzava una grande giornata di caccia all’interno del suo podere guadagnando così un sacco di soldi. Non era sopravvissuto al primo attacco degli animali mentre la sua famiglia, fuggita a fatica, era attualmente irreperibile.

C’erano volute alcune settimane per ingrandire l’entrata in modo tale che anche gli animali più grandi potessero accedere senza problemi. Si doveva camminare per un lungo corridoio per arrivare alla tana, ma ne valeva la pena: era perfetta. Grande, con il soffitto molto alto, circolare e con un’acustica eccellente. Non c’erano tracce che indicassero che fosse stata abitata ma c’erano dei buchi alle pareti. La tana sembrava essere stata abbandonata da tempo. Sarebbe servita per radunarsi senza essere infastiditi. Ci vollero quasi tre giorni affinché tutti i rappresentanti di animali e umanoidi sparsi per il pianeta arrivassero fin lì. Non avevano paura di essere sorpresi dagli umani, visto che questi erano impegnati a mettersi d’accordo. Era stato sempre molto difficile per questa razza animale pensare al benessere della comunità! Ora finalmente gli antichi prigionieri degli umani potevano parlare del loro futuro e di come agire da quel momento in poi. Ogni specie di animale aveva il suo rappresentante, dalla mosca alla zanzara fino agli elefanti e ai rettili, e così ogni macchina, dal rasoio elettrico al satellite artificiale. Adesso la cosa più importante era comunicare tra di loro; ognuno parlava un linguaggio diverso e, in caso contrario, sarebbe stato molto difficile stabilire un piano comune. Era così diverso il linguaggio delle mosche da quello dei topi e degli altri animali grandi!

La prima riunione fu un fiasco totale. Lavorarono in fretta, soprattutto gli umanoidi, per creare una lingua franca, accessibile e facile da imparare, ma ce la fecero, tanta era la voglia di poter comunicare. Alla seconda riunione i rappresentanti erano già in grado di trasmettere i desideri dei loro simili.

Stavano per prendere una decisione quando, all’improvviso, arrivò alla tana, quasi senza fiato, una lepre:

-“Chiedo la parola! Chiedo la parola!” – disse mentre correva come una pazza lungo il corridoio che si creava al suo passaggio fra animali e automi.

La lepre smise di gridare fino ad arrivare in fondo alla tana, fece un balzo e cadde su un pezzo di pietra, simile a un pedana, che era lì. Tutti quelli che si erano radunati lì la guardarono sbalorditi. Dietro di lei c’erano Valvo e Duca, seduti insieme su un grosso pezzo di legno. Erano innervositi, stavano per terminare la battaglia e conoscere chi sarebbe diventato il capo di tutti i capi e proprio ora questa stupida entrava in fretta e in furia, facendo cambiare idea a quelli che si erano convinti delle loro ragioni. Se così non fosse stato…cosa poteva essere successo?

-“Chiedo la parola! Chiedo la parola!” –continuò a gridare quella matta.

Fino a quando non tacquero tutti, la lepre, il cui nome era Calogero, non smise di gridare e di zompettare. Quel piccolo animaletto con le sue larghe orecchie conosceva benissimo il linguaggio della sua razza ma della lingua franca, così nuova, sapeva soltanto tre parole, così si rivolse a uno dei gorilla di fronte a lui per chiedere aiuto. I gorilla erano animali molto intelligenti e svelti ed erano riusciti a imparare questo linguaggio molto in fretta. Allora il gorilla si alzò e si mise accanto alla lepre che, in confronto, quasi spariva sotto l’ombra della grande scimmia. E così cominciò un discorso che mise a disagio Valvo e Duca:

- “Noi lepri e il resto degli animali che abitano in campagna stiamo dibattendo su questa riunione per scegliere un comandante in capo; crediamo di avere anche noi il diritto di farne parte e, per il bene di tutti, animali e macchine, crediamo che ogni specie debba avere un capo. Così, chiedo a tutti di nominare un essere della propria specie per difendere il proprio punto di vista. E che siano questi animali scelti da tutti quelli che ci guideranno nella battaglia che sta per cominciare. Questa pace non è una vera pace, è soltanto una pausa, la vera battaglia deve ancora arrivare. Ci dobbiamo organizzare e anche gli uomini faranno lo stesso, ne siamo sicuri. Ma ci serve un po’ di calma. Questo non significa che non dovremo lottare. Lo faremo, ma non ancora. Crediamo di trovarci in un punto in cui dovremmo agire con precauzione; in altre parole, siamo molto diversi e metterci d’accordo sarà molto difficile, ma non impossibile. Sappiamo benissimo che gli uomini sono sconvolti per ciò che è successo negli ultimi giorni. Sono una razza a cui serve molto tempo per mettersi d’accordo e so con sicurezza che stanno ancora parlando e discutendo tra loro per arrivare a una soluzione. Quindi la nostra proposta è questa: ogni razza dovrà scegliere un rappresentante e poi, mentre la maggior parte degli animali e delle macchine cercheranno di organizzarsi per la difesa, a seconda delle loro forze e possibilità, i rappresentanti dovranno fare del loro meglio e condividere il potere in modo che nessuno sia al di sopra degli altri. Questo è tutto.”

In questo modo Manlio, il gorilla, finì la traduzione delle parole di Calogero. Dietro di loro, Duca era così rosso di rabbia che sembrava sul punto di esplodere, mentre Valvo cercò di non dire la sua. Soltanto alcuni led che luccicavano debolmente avrebbero potuto tradire la sua grande frustrazione. Manlio aveva appena finito di parlare quando una grande ovazione riecheggiò nella stanza. I propositi di Valvo e Duca erano stati annullati. Per il momento, pensò Valvo, soltanto per il momento.

Dopo un po’ la stanza ritornò alla calma, tutti se ne andarono con le loro famiglie, ansiosi di raccontare cosa avevano deciso nella riunione e di come una nuova tappa sarebbe cominciata subito, esenti dagli obblighi verso gli uomini. Tutti erano contenti, tranne Manlio, il gorilla, che conosceva benissimo le idee di Valvo e di Duca sul destino che sarebbe stato riservato agli uomini e non avrebbe potuto consentire che venissero giudicati tutti nello stesso modo. C’erano persone buone che avevano aiutato alcuni suoi parenti e altri animali e che ora rischiavano di essere massacrati a causa delle pazzesche idee di quei due farabutti che cercavano il potere a ogni costo. Era necessario fare qualcosa. Poi Mainlo sparì nel buio tra gli alberi che circondavano La Pedriza.

Pertanto i due grandi gruppi nemici avevano cominciato a organizzarsi: da una parte gli uomini, con i loro precari metodi di difesa e attacco, e dall’altra le macchine e gli animali che possedevano, in confronto, la tecnologia migliore e più moderna. Quantomeno questo era quanto pensava la maggioranza dei loro membri, perché né tutti gli uomini erano fedeli alla loro razza né tutti gli animali e macchine odiavano gli uomini. Ce n’erano alcuni, che soffrivano più degli altri, che cercavano di interpretare le cose da un punto di vista più ampio e che non erano d’accordo con ciò che stava per succedere; questi volevano sistemare le cose tramite il dialogo e credevano in un futuro di pace basato su rapporti pacifici in cui ognuno avrebbe condiviso i propri problemi ed espresso le proprie ragioni. Ma quelli che la pensavano così erano pochi; la febbre di potere e di vendetta era così forte che non sarebbero mai riusciti a convincere nessuno che la guerra non era la soluzione di tutti i problemi. Quindi, all’interno di ogni gruppo, ce n’erano altri due che lottavano per salvare i loro amici del partito nemico.

Dal momento in cui gli umanoidi erano riusciti a entrare in contatto con ogni tipo di macchina, avevano creduto che esse si sarebbero schierate tutte dalla loro parte. In realtà molti apparecchi (auto, frullatori, moto, tv, computer,...), pur fingendo il contrario, ritenevano che questa guerra non fosse la loro guerra, che non c’entrasse nulla con loro. Succedeva lo stesso ad alcuni animali: perché avrebbero dovuto fare del male o addirittura ammazzare persone che si erano prese cura di loro quando erano malati, che avevano voluto che facessero parte della famiglia, che si erano preoccupati della loro salute, dei loro desideri? Andava fatta giustizia, non c’era dubbio, ma non potevano capire questa vendetta cieca.

Quindi tra gli animali c’erano quelli che erano stati sfruttati dagli uomini in maniera crudele (maiali ammazzati in maniera dolorosa, galline che erano state costrette a vivere in spazi minimi e a produrre uova come se fossero macchine, e tanti altri atti atroci) e quelli che avevano avuto una vita più libera (maiali che avevano goduto liberi in campagna, galline che avevano mangiato cose più naturali di quello schifo di cibo industrializzato, mucche che avevano un nome e che vivevano con un po’ di libertà); esisteva un altro gruppo di animali che dovevano agli uomini la loro esistenza: gli animali selvaggi che vivevano liberi con l’aiuto degli uomini che rischiavano la loro vita nella lotta contro i bracconieri, o in una riserva naturale con altri animali; o ancora quelli che erano stati riscattati dai padroni crudeli, come gli elefanti che lavoravano in India, gli orsi con l’anello al naso, i leoni e altri grandi felini, drogati in modo tale che i turisti potessero posare per le foto. Come agire con queste persone buone che avevano fatto tutto il possibile per toglierli da questa vita? Insomma, l’idea venne espressa da Manlio alla sua famiglia, e man mano si estese fino ad arrivare a tutti gli animali che erano stati riscattati, un gruppetto clandestino all’interno di un gruppo enorme che cercava soltanto vendetta e distruzione. Senza esitazioni si misero in moto.

Nel frattempo, fuori da qualsiasi controllo, alcuni animali facevano giustizia sommaria: in America, da Nord a Sud, i cani che erano stati costretti a lottare tra di loro, decisero di combattere tutti insieme contro gli uomini che avevano scommesso sulla loro vita. Anche i galli ebbero la stessa idea e smisero di combattere tra loro per attaccare gli umani. È chiaro che molti di essi non riuscirono a sopravvivere ma quelli che ce la fecero si sparsero ovunque e raccontarono a chi voleva ascoltarli quello che avevano fatto. Naturalmente gli uomini cercarono di difendersi da quegli attacchi e alcuni morirono per le ferite prodotte dai cani o per le infezioni che, come una piaga, producevano gli speroni dei galli, sporchi di sudiciume. Sebbene tutto fosse cominciato in America, questi fatti si propagarono per tutto il pianeta, come se gli animali avessero avuto il potere di inviare un messaggio tramite i loro cervelli ai loro congeneri. Queste scene si ripeterono in Asia e in Europa: gli uomini cercavano un nascondiglio o si difendevano come potevano dagli attacchi. Ci furono morti tra gli uomini e tra gli animali. Alcuni galli morirono mentre perseguitavano i loro torturatori attraverso fiumi o laghi e alcuni uomini morirono a causa della cancrena che invase i loro muscoli, o a causa dell’idrofobia contagiata dai cani malati.

La notizia di queste stragi si sparse fino ad arrivare ai comandanti in capo degli eserciti che, a stento, riuscirono a mettere un po’ d’ ordine in quel caos.

Manlio e la sua famiglia, assieme agli altri animali che erano riconoscenti della benevolenza con cui erano stati trattati da alcuni umani, ce la fecero a salvare i loro benefattori. Soltanto quelli che erano già molto malati morirono, mentre il resto, guidati dagli animali, arrivarono a destinazione: un antro, una valle, la cima di una montagna. Manlio trovò una tana enorme nei dintorni della Pedriza, perfetta grazie all’entrata nascosta da alcuni cespugli. Il posto era perfetto anche per la sua famiglia, con alberi ovunque e cibo sufficiente per i cuccioli di gorilla. Poco a poco gli umani risparmiati dalle stragi arrivarono guidati da alcuni parenti di Manlio; erano frastornati, stanchi, sporchi e al limite delle forze, e nei loro sguardi si poteva leggere la paura. Manlio guardava l’arrivo dei gruppi, pensando al fatto che quelle persone non avevano fatto niente, non avevano mai ucciso un animale in maniera crudele, erano persone normali che vivevano la loro vita cercando di andare avanti, tirare su i loro figli. Che gli umani mangiassero animali non era di per sé una brutta cosa; era la natura degli animali: sopravvivere a qualsiasi costo. Tutti i carnivori lo facevano. Era un modo per mantenere l’equilibrio ecologico. Mangiare carne per sopravvivere non era un crimine: era la legge della Natura. Manlio cercava di dare un po’ di conforto a quelli che si trovavano vicini alla morte o alla pazzia. Avevano sofferto tanto in queste settimane! Erano moltissimi ma l’antro era grande e poteva essere usato come dimora, o come nascondiglio. Quando le acque della ribellione si fossero calmate forse quella sarebbe potuta diventare un’autentica casa per loro. I giorni diventarono settimane e Manlio con la sua famiglia e gli umani che vivevano con loro non erano stati disturbati. Non c’era modo di sapere cosa stava succedendo nel resto del pianeta. Lì non c’erano telefonini, né TV o computer per conoscere le ultime notizie riguardanti la ribellione. E anche se fosse stato possibile mettersi in contatto con altre comunità sarebbe stato un pericolo per la sopravvivenza di tutti. A Manlio sarebbe piaciuto sapere cosa succedeva in luoghi così lontani come il Polo Nord. Sarebbero giunte le notizie agli orsi polari e agli altri animali che vivevano così isolati dal resto del mondo? E le balene? Manlio, ogni giorno, mentre era seduto su una pietra, da dove poteva sorvegliare il percorso che portava alla pianura davanti la tana, rifletteva sull’argomento.

Effettivamente, le notizie della Grande Ribellione erano arrivate anche al Polo Nord ma umani e animali credevano che non li riguardassero. Quella era una terra dura, difficile, quasi deserta; l’equilibrio naturale era stato sempre importante e, tranne qualche stolto che cercava di far fortuna con le pelli dei cuccioli di foca, fuggiti a gambe levate inseguiti da una mandria di orsi stufi di quei briganti, il rapporto tra umani e animali era sempre stato stabile.

Renato e Renata, due gemelli di orso polare (una vera meraviglia a dire il vero) erano giovani e curiosi, giocavano spesso sulla neve rincorrendosi facendo finta di essere arrabbiati. In realtà i due fratelli si volevano bene e godevano di questi momenti insieme. Era fantastico vedere due giganti di 250 chili scivolare sulla neve. Quel giorno Renato e Renata decisero di andare al mare. Di solito giocavano in prossimità della riva ma oggi volevano salire su un iceberg e cercare di fare quello che avevano visto fare ai loro amici umani: remare.

All’inizio tutto era andato liscio. Era così piacevole vedere i loro parenti sulla terraferma mentre loro credevano di essere su una nave, del tutto simile a quelle che ogni tanto vedevano da lontano! Dal momento della loro nascita la loro mamma gli aveva nascosto questo genere di cose. Improvvisamente, quel grande pezzo di ghiaccio, che si era spostato così piacevolmente, cominciò a muoversi da destra a sinistra e a girare su sé stesso. Scorreva veloce sull’acqua come fosse una balena furibonda. Cosa stava succedendo? A volte il pezzo di ghiaccio si immergeva verso sinistra, a volte verso destra. Renato e Renata non capivano niente. Cercarono di non cadere in acqua dal momento che si erano resi conto che la terraferma era molto lontana. Certo che sapevano nuotare ma non erano convinti che sarebbero riusciti ad arrivare a riva. La terraferma era sparita dalla loro vista. Non sapevano come agire. Era chiaro che stavano andando verso sud ma non avevano la più pallida idea di dove sarebbero arrivati. Finalmente l’iceberg si stabilizzò e tornò a muoversi con calma. Renato e Renata si guardarono intorno: acqua, acqua e ancora acqua. Erano rimasti da soli nel mezzo dell’oceano.

-“La mamma ci ammazza” –disse Renata, che era stata la prima a riprendere a parlare.

-“Se riusciamo a tornare” –rispose Renato.

-“Cos’è quello?”

-“Dove?” –chiese l’orso maschio seguendo la direzione che mostrava la zampa della sorella.

-“Proprio lì”- insisté lei.

Renato vide delle ombre molte lontane. Rimasero a guardare le ombre un bel po’ fino a che videro sgorgare dall’acqua due forti getti verso il cielo.

-“Balene! Sono balene!” –urlò Renata.

-“E questo ti fa felice?”

-“Sei un cretino. Le balene viaggiano vicino alla costa. Se riusciamo ad arrivare fin lì vedremo la terraferma.”

-“E poi?” –chiese Renato che non era per niente convinto che quella fosse una buona idea.

-“Ci penso io.”

Renato tacque. Sua sorella aveva sempre ragione. E così si sedettero sul bordo dell’iceberg e con l’aiuto delle loro zampe cominciarono a remare verso quel punto così lontano.

Ci misero un sacco di tempo ma, alla fine, ci riuscirono. Erano stanchi morti ma felici, a non molti metri vedevano la costiera e le balene così lontane, ma decisero di seguirle, in modo da non sbagliare rotta. Forse loro, che viaggiavano spesso, avrebbero potuto dirgli come fare per tornare a casa. All’inizio era sembrata una bella idea quella di viaggiare in mare, ma adesso che erano lontani dalla loro famiglia desideravano ritornare il più presto possibile. Non ci riuscirono. Le dimensioni dell’iceberg avevano cominciato a diminuire, forse il caldo che faceva, forse... a dire il vero non sapevano bene cosa pensare di ciò che stava succedendo ma dovevano arrivare a un posto sicuro prima che l’acqua del mare li lasciasse senza un punto di appoggio, soli e nel mezzo di quelle acque troppo calde per loro. L’iceberg si mosse di nuovo da un lato all’altro, come se avesse vita propria e volesse mettergli paura, e di nuovo provarono quella forza della quale non sapevano l’origine, che li spingeva a caso senza che loro potessero fare niente. All’improvviso videro una specie di spiaggia, molto diversa dalle spiagge di ghiaccio che conoscevano. Sembrava che il mare si rimpicciolisse e entrasse nella terra, e la forza che muoveva l’iceberg fece sì che si inoltrassero in quel corridoio d’acqua mentre l’iceberg continuava a mescolarsi con il mare che lo circondava. Le balene, molto lontane da loro, non si erano accorte dei guai in cui si erano cacciati i cuccioli d’ orso polare e continuarono il loro percorso verso sud.

In questo modo Renato e Renata cominciarono un viaggio verso l’ignoto. Erano arrivati in Danimarca.

Non erano solo due balene quelle che avevano visto dall’iceberg. Era un gruppo di dieci balene che viaggiavano insieme con lo scopo di arrivare al sud dell’Europa per vedere quello che stava succedendo; all’inizio del loro cammino avevano incontrato un’altra compagnia che ritornava da quella parte di mondo raccontando che era cominciata una lotta crudele tra animali e umani. Ma la lotta era sempre stata crudele, loro lo sapevano benissimo. Gli uomini cacciavano gli esemplari della loro specie e le balene avevano fatto sempre tutto il possibile per difendersi da questa caccia. Perché questa guerra doveva essere diversa?

Le balene che venivano dal sud dissero che questa volta la lotta era più crudele, senza tregua. Loro avevano deciso di tornare al nord e lasciar perdere.

-“Noi non c’entriamo con questa storia” –disse Maurizio –“ritorniamo. Questa guerra di uomini, macchine e animali non ci interessa. Venite con noi, tornate a casa”.

-“Noi invece vogliamo vedere....” –cominciò a dire Fabrizio.

-“Non lo fate.” –tagliò corto Maurizio. –“È molto pericoloso.”

-“Ti ringraziamo per la tua preoccupazione” –rispose Fabrizio mentre guardava gli amici che lo accompagnavano in quest’avventura –“ma credo proprio che non ci disturberanno.”

-“Come volete. Buona fortuna. Andiamo”

-“Grazie. Buona fortuna anche a voi”.

E così Fabrizio e i suoi amici proseguirono il loro viaggio verso sud perché la loro curiosità era più forte della prudenza.

Viaggiarono per giorni verso sud, costeggiando l’occidente d’Europa; non furono disturbati dagli uomini. Di fatto non videro neanche una nave nel loro percorso; era tutto molto strano. Fabrizio pensò se quel viaggio fosse stato davvero una buona idea. Ovunque c’era una calma che non era per niente normale. Di solito, quando volevano incontrarsi con le femmine della loro specie e facevano questo stesso viaggio, vedevano persone sulle spiagge e marinai che faticavano lavorando con le reti,. tirando le sarde dal fondo del mare; vedevano quelli con i velieri lucidi, le donne sdraiate in coperta; vedevano persone che facevano pesca subacquea. Vedevano cioè un sacco di cose, mentre adesso, tanto la costa come la superficie del mare, erano deserte. A volte, dove prima si ergeva un paesino ora c’erano solo rovine di palazzi bruciati o distrutti. Altre volte vedevano soltanto cani, galline, maiali, gatti passeggiare tra le macerie. Ma non vedevano né uomini né donne o bambini. Cosa stava succedendo? Forse Maurizio aveva ragione ed era veramente pericoloso viaggiare verso sud? Sembrava che soltanto lui avesse questi dubbi, mentre i suoi compagni erano contenti di quest’avventura. Ritornare indietro sarebbe stata una sciocchezza, proprio adesso che stavano per raggiungere il loro scopo. Costeggiarono la Galizia e poi il Portogallo e videro a sinistra quello che gli uomini chiamavano lo Stretto di Gibilterra. Sapeva che, circondando quel piccolo mare, c’erano un sacco di paesi, gliel’aveva detto una foca. Loro non si erano mai azzardati a entrare in quei posti, ma adesso.... beh, lo fecero. Videro una piccola barca carica di uomini, donne e bambini, tanto fragile che Fabrizio non capì come mai non fosse già affondata. Si allontanarono, non volevano fargli del male. Continuarono il loro viaggio. Da lontano si scorgeva una costa molto lunga dalla forma bizzarra. Passarono tra due isole che sembravano essere disabitate e dopo aver costeggiato il sud di quel paese a forma di stivale, continuarono verso nord. Era così straordinario non vedere nessuno, non sentire un rumore; quel silenzio... e all’improvviso una nebbia fitta fitta li avvolse. Fabrizio non vedeva la sua coda e tanto meno i suoi compagni; cercò di capire dove si trovassero gli altri, emettendo il suo suono caratteristico, ma quella nebbia lo confondeva. Non sapeva se erano vicini o se qualcuno si fosse allontanato dal gruppo. Era molto pericoloso continuare senza sapere dove si trovavano, ma non era molto sicuro nemmeno rimanere senza fare niente. Fabrizio decise di fermarsi e aspettare.

E la nebbia si dissolse, Fabrizio si guardò intorno, era da solo. I suoi compagni erano spariti. Cosa era successo? Di fronte a lui c’erano alcune isole. Forse la corrente del mare aveva fatto sì che si fossero mossi senza accorgersene. E vabbé. Doveva incontrarli. Adesso l’aria era chiara, vedeva benissimo il mare e le isole che erano di fronte a lui, sentì un rumore familiare, senza fermarsi ma con precauzione Fabrizio si diresse verso una piccola isola che stava a sinistra, vide il molo e una capanna in legno sull’acqua. Non voleva avvicinarsi troppo, non conosceva la profondità delle acque e non voleva restare incagliato. Così preferì rimanere lontano ma non tanto da non poter vedere un suo compagno che, all’interno dell’isola, cercava disperatamente di uscire dalla trappola in cui era caduto. Intorno a loro, sulle rive, una moltitudine di persone guardava stupita la balena. Fabrizio sentì un urlo e poi tutti quanti cominciarono a muoversi di qua e di là. Dubitò un istante su come agire. Aspettò. Alcune persone erano sparite tra gli alberi mentre altre erano rimaste ferme. Tirò un sospiro di sollievo: erano pronti ad aiutare il suo compagno. Quelli che se n’erano andati, ritornavano ora con pezzi di legno con i quali cercavano di spingere la balena verso il mare.

Fabrizio decise di continuare il suo percorso. Ne mancavano ancora otto. Dopo alcuni minuti si girò e vide che una delle balene gli stava dietro, aspettò fino a che gli si avvicinò e poi ripresero il cammino insieme. Questo mare era molto strano, non capiva tutta questa calma. Videro dei pezzi di legno che spuntavano dall’acqua e alcune ombre molto lontane da loro. Riconobbero subito i loro amici e si fecero sentire loro. Si avvicinarono loro.

Ne mancava soltanto uno: Stanislao, il più giovane, quantomeno in età, visto che in realtà era il più grosso.

-“Dobbiamo trovarlo subito” –disse Fabrizio –“può darsi che sia nei guai o che non sappia come agire per tornare. È la prima volta che fa questo viaggio”.

-“E allora?” –chiese Paolo, una balena maschio della stessa età di Fabrizio.

-“Allora facciamoci sentire. Risponderà alla chiamata.”

E così le nove balene fecero sentire la loro voce, una voce molto speciale che non può essere udita dagli uomini ma che una balena sente a distanza di chilometri. La risposta arrivò. Tutti quanti si diressero verso l’isola più grande che c’era in lontananza, viaggiavano piano piano, senza fermarsi. Il loro amico era in pericolo. Non capivano di che pericolo si trattasse, ma Stasnislao diceva che intorno a lui c’erano un sacco di luci che non gli permettevano di vedere niente, aveva paura, molta paura.

Si lasciarono alle spalle quelle piccole isole, li guidava la voce del loro amico. Fabrizio era molto preoccupato, era la prima volta che suo nipote faceva quel viaggio e aveva promesso a sua sorella che lo avrebbe protetto...e non poteva ritornare senza di lui.

Si muovevano lentamente cercando di scoprire se ci fosse qualche nemico nelle vicinanze. Erano da soli. Ogni volta la chiamata di Stanislao era più disperata. Fabrizio voleva arrivare il più presto possibile da suo nipote, era responsabilità sua che il balenottero ritornasse a casa sano e salvo, e lo stesso valeva anche per gli altri. Per questo non si affrettava e solcavano il mare con attenzione, vigili sui pericoli che avrebbero potuto incontrare. Un’ombra in lontananza lunga e un’altra dietro di essa: Fabrizio era sicuro che stavano per raggiungere Stanislao.

-“Dai, ragazzi. Dai!”

Dopo pochi minuti costeggiarono un’isola più grande delle altre. La chiamata di Stanislao ora si sentiva benissimo, ancora non potevano vederlo però sapevano che era molto vicino. Dopo un po’ distinsero una linea di luci che delimitava la costa e un’ombra scura nel mezzo. Era Stanislao!, pensò Fabrizio. Ma cosa stava succedendo? Sembrava che un miliardo di lampadine lo stessero circondando, lampadine molto bizzarre giacché non si fermavano mai, si accendevano e si spegnevano all’improvviso. Le balene non sapevano come agire, sembrava che Stanislao fosse nei guai. Perché non era uscito da lì? Cosa significavano quelle luci? E allora dovevano prendere una decisione. Un’idea ce l’aveva, forse avrebbe potuto funzionare, pensò Fabrizio, e la comunicò ai suoi amici. Le balene si disposero a ventaglio, formando un semicerchio; piano piano si avvicinarono e, nel momento in cui giunsero a pochi metri dalla giovane balena maschio, si immersero e tornarono subito in superficie. L’acqua che spostarono i grandi mammiferi marini risalendo in superficie fu sufficiente a far fuggire a gambe levate tutti quegli sciocchi che si trovavano sulle fondamenta degli Schiavoni e nei dintorni di Piazza San Marco, a scattare foto con i telefonini al povero Stanislao.

Poi, tutti insieme se ne andarono allontanandosi da quella bella città. Quando finalmente si trovarono ormai lontani, in salvo, Stanislao riuscì a parlare.

-“Andremo anche noi alla guerra?”

-“Cosa?” –chiese Fabrizio.

-“Ho sentito che c’è guerra ovunque, e che molti animali si sono alleati con le macchine per sconfiggere gli umani. Io voglio andare alla guerra.”

-“Sei impazzito? La guerra non è un gioco. È qualcosa di brutto, spezza le famiglie, produce tristezza e miseria. Non si può andare in guerra con questa allegria. Non è bella. La sofferenza che produce la guerra è inimmaginabile. Come ti è venuta quest’idea?”

-“Ho sentito alcuni pesci che ne parlavano mentre ero accecato da quelle luci che non si fermavano mai. E sembravano molto convinti di voler lottare e far del male agli umani. Raccontavano un sacco di cose terribili, anche sull’atteggiamento degli uomini verso la nostra razza. Io non ne sapevo niente. Ma se fosse vero....”

-“È vero. L’uomo, a volte, ha avuto un atteggiamento molto cattivo con noi balene, ma altri ci hanno difeso.” –rispose Fabrizio accorgendosi che le altre balene stavano pensando la stessa cosa di suo nipote. Avrebbe cercato di farli riflettere sulla guerra e sulle sue conseguenze.

–“Pensate alla sofferenza delle vostre famiglie se non doveste più ritornare da loro, pensate alla nostra fragile vita, anche se siamo grandi come palazzi non siamo così forti e indipendenti per far fronte alle armi moderne. Non siamo topi né conigli, che hanno un sacco di cuccioli ogni volta che la femmina è incinta; noi siamo una razza molto fragile e possiamo sparire in qualsiasi momento. Abbiamo il dovere di sopravvivere.”

-“E allora? Dobbiamo restare qui senza fare niente mentre gli altri animali mettono a rischio la loro vita?” –chiese Stanislao sempre più fissato con la sua idea.

Fabrizio lo guardò con tristezza. Lui era stato perseguitato dagli uomini molte volte ed era riuscito a sopravvivere a stento; nel suo corpo alcune cicatrici parlavano della sua lotta contro gli strumenti di morte degli uomini. Stanislao era giovane, era la prima volta che faceva questo viaggio e non conosceva ancora i pericoli che il mare nascondeva, ma Fabrizio lo capiva lo stesso. Anche lui avrebbe condiviso il suo pensiero molto tempo fa, ma adesso… E così Fabrizio raccontò la sua storia ai suoi amici. Finalmente capirono: avrebbero fatto tutto il possibile per aiutare il resto degli animali marini, li avrebbero portati in nascondigli dove nessuno li avrebbe potuti trovare, avrebbero avuto cura di loro se si fossero ammalati, ma non potevano fare nient’altro.

Finora, Venezia era stata risparmiata dalla pazzia della guerra soltanto perché il generale Valvo si trovava lì e, nella sua prepotenza, si considerava un doge che poteva tenere in pugno tutti quelli che abitavano nella città. E questo gli piaceva talmente tanto che aveva deciso di fare del Palazzo Ducale la sua dimora. Era da un pezzo che percorreva i corridoi e le stanze dello storico edificio, da solo. Gli piaceva il rumore delle sue gambe metalliche sul pavimento luccicante, le tende ricamate, i letti antichi, i dipinti dei grandi artisti del passato, le statue... immaginava come sarebbe stata la sua vita ai tempi in cui Venezia era il centro della vita culturale e politica d’Europa; gli sarebbe piaciuto conoscere i galantuomini e le dame, gli artisti, e tutti quelli che popolavano Venezia nei suoi tempi di grandezza. Duca e gli altri erano all’interno della Basilica e negli altri edifici che circondavano il Palazzo Ducale. Quell’edificio era il suo feudo privato, senza il suo permesso nessuno poteva entrarci. Il suo esercito di androidi era schierato intorno al palazzo e proteggeva la sua intimità. Aveva percorso tutte le stanze, attraversato il Ponte dei Sospiri e visitato l’antica carcere. E vabbé, pensò, sarebbe ritornato a svolgere la sua funzione originaria.

Chi avesse potuto vedere Valvo in questi momenti e ascoltarne addirittura i pensieri, avrebbe potuto dirgli che si sbagliava di grosso: sembrava più una sorta di piccolo Napoleone (almeno per quanto riguardava l’intelligenza, giacché fisicamente era più alto) che un sovrano assoluto eletto da un ristretto collegio di nobili, così come succedeva con il doge.

Pensava di essere l’ultimo dei conquistatori della Serenissima, da sempre considerata simbolo del trionfo degli uomini sulla Natura, un vero affronto al mare, costretto ad ospitare nelle sue immensità un’intera città, potente e arrogante, e ad invaderla con la sua acqua solo in alcuni momenti dell’anno. Valvo aveva preso dalla meravigliosa biblioteca del Palazzo Ducale un libro sulla storia della città, sulle sue origini e sugli uomini che l’avevano governata con mano ferma ma con giustizia. Ma questo proprio non l’aveva capito e pensava di essere un vero discendente del primo doge Paoluccio Anafesto. Un’altra cretinata di un personaggio prepotente, arrogante e senza scrupoli che non capiva minimamente quali fossero state le autentiche funzioni del doge, tutt’altro che un sovrano assoluto così come credeva l’androide.

Quello che lui non sapeva era che Venezia stava a cuore agli animali poiché tra alcuni dei suoi simboli figura il Leone, emblema della potenza sulla Terra, e i gabbiani, che hanno sempre difeso le loro case e i loro tetti dall’alto, perlustrando in ogni epoca per avvistare i pericoli che si nascondevano dietro l’orizzonte piatto. Ma il generale questo non lo sapeva, oppure non gli dava l’importanza che meritava. E proprio per questa sua arroganza che, al momento giusto, sarebbe stato sconfitto.

All’interno della Basilica di San Marco, Duca il maiale, anche se non lo faceva vedere, era molto arrabbiato. Valvo l’aveva mandato con gli altri animali, come se lui fosse uno qualunque. Il maiale credeva di essere al di sopra di tutti e questo atteggiamento dell’umanoide non gli era piaciuto.

Sui tetti della città, i gabbiani facevano del loro meglio e parlavano nella lingua che capivano soltanto loro. Era da giorni che non scendevano a terra e cercavano di sopravvivere lontani dalla follia che aveva invaso Venezia. I colombi, ritenuti di solito uccelli docili e senza cervello, erano diventati le loro spie e raccontavano ai gabbiani tutto quello succedeva in laguna.

In città c’erano anche altri animali: i leoni. Di pietra ce n’erano una moltitudine: sulle pareti, nei sottoportici, sulle scale, nella Basilica e nel Palazzo Ducale. Ma ce n’erano altri, quelli dell’Arsenale, che erano diversi. Grandi e nobili, sorvegliavano da secoli questa parte della città e si diceva che non fossero sculture bensì veri leoni trasformati in statue che si sarebbero svegliati e sarebbero ritornati ad assumere la loro autentica natura nel momento in cui l’indipendenza della città e dei suoi cittadini fosse stata minacciata da un pericolo molto grande; in quel momento, i leoni dell’Arsenale, creature belle ed enormi, stavano per risvegliarsi. Qualcosa di importante stava per accadere. Un gabbiano sceso dal cielo si posò sulla testa del leone più maestoso, quello seduto sulle zampe posteriori. Il gabbiano, con cura, mise il becco sulla testa del leone e cominciò a dargli qualche piccolo colpo. L’uccello sentì un rumore profondo, quasi impercettibile: quando la statua cominciò a muoversi, a vibrare, come se fosse sul punto di spezzarsi, si resse forte. E, all’improvviso, un leone vero, in carne e ossa, con tutta la potenza e la forza di un animale che da tanto tempo non aveva potuto muoversi, sprese vita. Uno a uno i leoni dell’Arsenale si risvegliarono e lasciarono vuoti i piedistalli seguendo il gabbiano che, con grande gioia, faceva loro da guida attraverso la bella e misteriosa città di Venezia.

L'Ultima Opportunità

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