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ARGOMENTO.

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Silenzio di Dio.—I suoi ministri imprecano.—Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.—Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.—Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.—S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa, ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.—L'Eroe si dispone al racconto.

Dio tacea da gran tempo. Ai consueti

Balli moveano in ciel gli astri, e con dura

Infallibile norma albe ed occasi

Il monotono Sol dava a la terra.

Reddían le nevi a biancheggiar le spalle

Del tremante dicembre; april venia

Col suo manto di fiori; arida e stanca

Movea la bionda està giù da' falciati

Campi a cercar le vive onde marine;

E, coronato il crin d'edra e di poma,

Scendea l'autunno a ruzzar vispo e snello

Fra l'accolte alpigiane, e pigiar l'uve

Nei colmi fianchi dei capaci tini.

Tutto seguía così l'alte, immutate

Leggi de la Natura, e nullo in terra

Creato obietto, o in ciel, l'arduo sentiva

Strano silenzio del mai visto Iddio.

Abbandonati e solitarî intanto

Giacean per le infrequenti aule divine

I marmorei Celesti; e per le fredde

Vòlte il sacerdotal canto e la prece

Qual vano si perdea grido, che inalza

Da la rupe solinga il cacciatore,

Se mira dileguar giù ne la valle

Tra 'l sonante canneto il salvo augello.

Da fiero gel, da sacro orror comprese

Fur l'alme vostre allor, pallidi e negri

Zelatori de l'are; e quando ai vani

Scrigni balzar vedeste arido e magro

L'obolo di san Pietro, e oziose e tristi

Tornar dal mondo, qual gregge digiuno,

Le scornate Indulgenze, orridamente

Su le madide tempie alto rizzârsi,

Come ad istrice, i crini, ed agitato

Tre volte e quattro tentennò il tricorno

Su la sacra tonsura. Un grido, un urlo

Cupo s'alzò dai congiurati petti:

—La fede muore! O Dio, fulmina e sperdi

Gl'increduli mortali!—

Alcun non arse

A la prece crudel fulmine in terra;

E i mortali rideano.

Udì quel riso

Lucifero, e balzò. Sedeangli intorno

Il silenzio e la morte; oscure e fredde

Strisciavan su la sua fronte immortale

Strane larve di sfingi e di chimere,

Ed ei, solo com'era, in mezzo a tanta

Morte la luce e l'armonia sentiva.

—Qui in eterno starò? Favola indegna

Senz'opra e senz'amore, io, che del cielo

Per istinto d'amor spregiai la vita?

No, si torni a la terra! Un nuovo io sento

Spirto d'amor, che mi discorre il petto:

Santo auspicio è l'amor. L'ultima prova

Tentiam; l'ora è propizia: assai già sono

Su la terra i miei fidi; uom fatto anch'io

Amerò, soffrirò; correrò il breve

Travaglioso cammin d'un uom mortale,

E, redento da l'opre e da l'amore,

Recherò a l'uom salute e morte a Dio.—

Così l'Eroe parlava, e i circostanti

Baratri tenebrosi si agitavano,

Come per improvviso urto di vento

Il sen cupo del mar. L'ali di gufo,

Il piè forcuto e la bovina fronte

Mutò d'un tratto il favoloso iddio;

E dai lombi gagliardi e da le spalle

Le fuliggini tèrse e la stillante

Cispa dagli occhi affumigati ed orbi,

Tutt'uomo apparve, e radïò dal volto

La superba beltà d'un dio mortale.

Tramutato così, dal piceo trono

Balzò d'un tratto; il guardo mosse in giro.

Ed esclamò:—L'infernal regno è sciolto;

Il mio regno è la terra!—

Ecco il subietto

Del canto mio. Classico o no, ne affido

L'occulto senso a voi, vergin consesso

D'oculati Aristarchi. A voi diè Giove

La diva Arte in governo e i mal concessi

Talami de le Muse; e se agl'incerti

Occhi vostri si niega il delicato

De le Grazie sorriso e la suave

De le sacre fanciulle ispiratrici

Candida voluttà, dolce vi sia

Star su la soglia a noverar gli ardenti

Amplessi e i baci insazïati, ond'hanno

Suon di celesti melodie le chiuse.

Odorate cortine, ed immortale

Vita in terra gli eletti: in simil guisa

Sta su la porta dei gelosi arèmi

La fida turba dei scemati servi,

Mentre il figlio d'Osmàn deliba il fiore

De le belle Circasse. Alto e solenne

Officio è il vostro, e non indarno io chiamo

Il vostro nume auspice a me: voi soli

Le riposte misure e voi sapete

Le leggi e il rito, onde s'ottien l'impero

De l'occulte bellezze, e qual più giova

Tener modo e governo in sul tentato

Mare de l'Arte, e quando ed in qual guisa

Toccar si dee la tuba o la chitarra,

E metter l'ali al dorso e dar di sproni

Al Pegaso spumante, o nel tenace

Fren moderarne a tempo i perigliosi

Impeti giovanili, ed a che segno

E con che industria è depredar concesso

Del Meonio le carte, o del Tebano.

Pèra colui, che al necessario giogo

Prova sottrar la temeraria nuca,

E va a ruzzar licenzïoso, come

Selvatico puledro, per li campi

De la sfrenata fantasia! L'immensa

Ira vostra ei subisca, e tutto a un punto

Perda il pazzo sudor, per cui tenea

Seder primo in Parnasso. Armati ed irti

D'alfabetiche cifre, unitamente

Sorgete, e contro a lui, contro a lui solo

Tutti dal sapïente arco scoccate

I rettorici strali; onde il meschino,

Travagliato da l'onta e dal rimorso,

Egro ed insano a riparar s'affretti

Fra le mura d'un chiostro. O, se più degno

Sia di spregio che d'ira, alta, pesante

Sul suo capo ostinato onda si aggrevi

Di silenzio e d'oblio. Gelide e mute

Gli sfileran dinanzi ad una ad una

Le sdegnose gazzette; indifferenti

Si chiuderan su la sua faccia smorta

D'Acadèmo le sale; e allor che, stanco

D'urlar strambotti contro al secol ladro,

Povero e solo abbraccerà la morte,

Non fia che le supreme ore gli allegri

L'aureo rabesco d'un qual sia diploma.

Saldo così su cardini d'acciaro

Il tron vostro si gira, e vita e nome

Dal cieco umano folleggiar traete.

Tal ne l'algide stalle, in fra le zampe

D'ardimentoso corridor, ritrova

Cibo e sollazzo il piceo scarabèo;

E, quando fra le storte ànche ghermisce

Il picciol globo del dorato fimo,

L'ali spiega da terra, e s'alza a sghembo

A emular de l'audace aquila il volo.

S'incarnò adunque il mio Demonio. In terra

Sorrideva l'aprile; entro al suo petto

Sorrideva l'amor. Sopra la cima

Del Caucaso famoso, onde s'appella

La giapetica stirpe, egli fu visto

Venir come in un sogno, e star d'incontro

A l'aurora nascente. Un invisibile

Spirto, qual di canora aura, fremea

Per le fibre del mondo, e più lucenti

Dava al ciel gli astri ed a la terra i fiori:

Gli dan nome d'amor l'anime accese

Dei parlanti mortali; ed ei su tutte

Anime impera, e solo e senza legge

Il mar penetra e i monti e la selvaggia

Cute degli olmi e il petto aspro del tigre,

Chè spirto è desso, e qual raggio di sole

Splende e s'agita in tutto, e l'alme e il tutto

Con secreta armonia mesce e ritempra.

Era per l'aria un fluttüar d'ardenti

Atomi mobilissimi di luce,

Una confusa, fluvïal fragranza

Di sconosciuti balsami, e suave

Musica di parole e di concenti

Misterïosi. Un'irrequieta e nuova

Delizïosa voluttà di sensi

Vaganti per immenso ètera, come

Rondini in cerca di lontani lidi,

Una dolcezza non provata mai

Di lagrime e di sogni, al primo arrivo,

Sentì l'Eroe nel petto; e lo stupito.

Sguardo volgendo per la vasta luce,

Muto restò, di giovinetto a modo,

Che raggiante di vita alfin ritrova

La sognata beltà dei suoi vent'anni.

Ma, poi che in lui l'alto stupor primiero

Al fier proposto e a la ragion diè loco,

L'incredul'occhio ai firmamenti spinse,

—E, dove sei, sclamò, tu che presumi

Regnar l'anime eterno? Alzati, e pugna!

L'uman genio ti sfidai—

Il pugno strinse

Superbamente, eresse il fronte, e stette

Il fulmine aspettando, o la risposta.

Tacito intanto dal soggetto mare

S'apre l'indifferente occhio del sole

Su le cose create, e si ridesta

Giù per le valli intorno e la pianura

Il lieto suon de le fatiche umane.

—Sorgi, la terra è tua, proruppe allora

L'inclito Pellegrin, sorgi, o gagliarda

Possa de l'uomo! Assai d'ombre e di sogni

Preda al mondo tu fosti; e dal terreno

Pugno di fango, onde t'han detto uscito,

Non ti redense ancor la tua cotanta

Vita de l'alma audace e la sventura

Tua perpetua compagna. E che ti valse

Al par di te, trar da la creta i Numi,

Se al cospetto dei freddi simulacri

Dechinasti il ginocchio, e la superba

Libertà del pensier serva fu fatta

Di codarde paure? Or sorgi ed osa:

Il tron del mondo è tuo; numi e fantasmi

Son fuor de la Natura, e non ha vita

Tutto che il vol de la ragion trascende.

A che tra larve ìnesorate e vane

Cercare un che t'aggioghi e ti spauri,

Se muta al cenno tuo trema e si prostra

La possente Natura? Ama e combatti!

L'opra de l'uomo è amor, vita è la guerra,

Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu sei!—

Tacque, e a l'ardito favellar commosse

Tremâr l'aure d'intorno, e agitò i fianchi

La titanica rupe. Era nel monte

Negra, profonda, solitaria, intatta

Da umane orme e dagli astri una spelonca

Di bronchi irta e di sassi. Orrido intorno

Le fan murmure i venti, e tra' selvaggi

Fianchi, qual di commosse ali e di strida,

Cupamente rintrona. Irati al verno

Vi piomban da l'opposta erta i torrenti

Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a salti

Mugulando spumeggiano; ma quando

Giungono al vallo de l'orrenda uscita,

Perde l'onda il nativo impeto, e pigra,

Torba, pollente s'impaluda, e manda

Pestiferi mïasmi a chi la spira.

Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi

L'umanato Demonio, e con feroce

Piglio di scherno a contemplar si stava

L'orrido sito e il ciel. Da le profonde

Viscere allor del cieco antro una voce

Querula, lunga, dolorosa emerse

Come suon di sospir. Porse l'orecchio,

E s'appressò l'Eroe, quanto il permise

L'angusto varco e la stagnante gora,

Ed ascoltò:

—Di che perigli in cerca,

Misero! vai? Che stolta opra e che vano

Talento è il tuo di proseguir l'impresa,

Ch'io già per tempo incominciai, spregiando

La tutta ira del ciel? Stolto! che tardi

Son fatto accorto, e di Prometeo il nome

Mal mi dieron le genti! E che non feci,

Che non diss'io per questa al pianto nata

Cara stirpe de l'uom? Cieca ed ignuda

Giacea nel lezzo de l'error, sì come

Belva cibando la caonia ghianda,

E altra legge nel mondo, altro governo

Non sapea che l'istinto: ad altri ignota

E a sè stessa giacea, scherno e vergogna

De le cose create, e le create

Cose, ignara di tutto, iva mescendo

Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi

Qual mai n'ebbe pietà, se non ch'io solo

Io sol più che a me stesso? E non cotanto

Mi punse il cor la fulminata fronte

Dei fratelli Titani, e non di sdegno

Arsi così per l'usurpate sedi

Del fuggiasco Saturno e pe' negletti

Consigli miei, quanto d'affetto e d'ira

Destommi in cor la tribolata sorte

Degli umani infelici. Ardito e solo

Contro a' Numi io mi stetti, e alzai la voce

Contr'esso Giove, allor che ad uno ad uno

Sprecava i doni al vegetale e al bruto,

E a l'uom, misero tanto, altro conforto

Non largía che il morir. Tutto ebbe allora

L'uomo infelice il mio favor: sol io

Gli svegliai l'intelletto; io di sapienti

Arti e d'opre gentili e di gagliardi

Ardimenti lo instrussi; io sotto al trono

Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi

Non minor d'alcun altro. Ahi! qual mi venne

Premio da ciò? Non che n'aver mercede,

L'invida rabbia arsi di Giove, e degno

Tenuto fui d'ogni più cruda ammenda

Quasi reo di delitto. Or quinci ai nembi,

Come vedi, io mi fiacco, e a le voraci

Cagne del ciel fatto son cibo, e scherno

E favola del mondo. E nè querela

Movo di ciò; chè il querelar non giova

A chi esente è di morte; e inesorata

L'ira è dei Numi, e inesorato al pari

L'orgoglio mio. Ma qual benigno frutto

Colser giammai di mie fatiche tante,

Del mio tanto soffrir le sconsolate

Proli del mondo? Ahimè, che sórte appena

Da la tenebra antica, a l'infinita

Luce del Ver schiusero gli occhi, e poco

Poco a lor parve ogni più grande acquisto;

Tal che, tolte dal sonno, ai sogni in preda

Diedersi tutte, e del saver la sete

Arse in loro così l'alma e la vita,

Che a precoce vecchiezza e ad immatura

Morte fûr sacre e a maledir condutte

L'alto mio dono e il sagrificio mio!—

—Figlio di Temi, a lui rispose irato

L'inclito Pellegrino, e che perigli

Fantasticando vai? Nè vil fanciullo,

Credi, io mi son, che si rivolta in fuga

A la prima minaccia, o nauta imbelle,

Che trema al più leggier spirto di vento,

E si chiude nel porto. In questa eterna

Rupe confitto, in verità, tu ignori

Gli alti fati de l'uomo; e qual tu sei

Carco di mal, di falsi mali agli altri

Indovino ti fai! Lascia, deh! lascia

Questi vani compianti, e oltre misura

Non ti strugger di noi, se pur non t'hanno

Tolto il senno davver le tue sciagure.

Però sappi, e t'acqueta: opra gagliarda

Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno,

La compirò. Non già il saver, t'accerta,

Reso l'uomo ha quaggiù misero tanto,

Ma la nemica a ogni saver, la cieca

Credulità. Di false ombre e d'inganni

Essa vive nel mondo, e si fa gioco

De l'umana ragion; ma quest'azzurro

Cielo e quest'aure e questi monti io giuro,

Ch'ella è presso a morire, e arbitra in terra

La ragion sederà; largo e securo

Spiegherà il vol su' mal temuti errori

Il redento intelletto; e allor che tutto

Ciò che vuol, ciò che può senta e conosca,

Questo ignaro di sè dio de la terra

Pago fia di sè stesso, ed oltre il vero

A cercar non andrà larve e paure!—

Disse, e partía; ma lo rattenne un detto

Del pazïente Prometèo:

—S'hai grande

E pari, ei disse, agli alti accenti il core,

Deh! non partir così, quando m'hai dèsto

Tale un desío, che a lo sperar somiglia.

Molto io soffersi e soffro, e assai maggiore

Del mio soffrir fu la speranza, il tempo,

Che co' fulmini suoi Giove sedea

Sovra il trono d'Olimpo, e sul mio capo

Rovesciava ogni mal. Crescea cogli anni

E col disprezzo mio la sua paura

E la sua crudeltà, però che immite

Più chi regna divien quanto più trema,

E dei fiacchi è virtù l'esser crudele.

Solo di tutti io l'avvenir vedea

Securamente, e de la sua caduta

Presapeva il destin. Godi dei tuoi

Vani, äerei rimbombi, io gli dicea,

O spensierato usurpator del cielo;

Tal da l'Inachia stirpe uno stupendo

Mostro verrà, che spezzerà il tuo scettro

Come fil non ritorto, e me da questi

Ceppi redimerà; nè ti varranno,

Credi, i fulmini allor, chè assai più salda

Sarà del fulmin tuo la sua possanza.

Forse Giove non cadde? Ahi! ma il secondo

Dei vaticinii miei sperdeano i venti!

Qui fra' ceppi io rimasi: ad un tiranno

Tiranno altro successe, e meco avvinto

Restò in preda agli affanni ogni uom mortale.

Or che parli tu mai? Cadde a buon dritto

E dopo assai di mali esperimento

L'alta speranza mia; nè agevol cosa

È il ridestarla, ed utile per certo

Non mi saría, quando più tetro e fiero

Sembra il dolor cui la speranza illuse.

Pur, se grave non t'è l'esser pietoso

A chi tanto per l'uom male sostenne,

Al mio partito interrogar rispondi:

Uom mortale sei tu? Qual t'assecura

O responso, o destino, onde presumi

Condurre a fin tant'onorata impresa?

Non t'illude il voler, che dei più saggi

Tal tiranno si fa, che par destino?

Fidi in altri, o in te stesso? E se in te fidi,

Tal possa hai tu, che al grande ardir s'adegue?

E se fondi in altrui le tue speranze,

Tanta han virtude ed armonia le genti,

Che, fatto un brando sol d'un sol consiglio,

Al trïonfo del ver movan secure?

Qual che tu sii, svelati a me: qui sconto

L'immortal vita inutilmente, e assai

Tempo a soffrire e ad ascoltar m'avanza.—

—Ben m'è lieve appagar, l'Eroe rispose,

La discreta domanda. Uom saggio, in vero,

Io non terrò chi lusingato e spinto

Da una rosea speranza ad ardua impresa,

Pria non libra sè stesso, e con sottile,

Freddo giudicio non prevede, e scerne

I possibili eventi; anzi dà mano

Subita a l'opra, e ciecamente ai casi

Gitta sè stesso e de l'impresa il fine.

Or, perchè a tal tu non mi assembri, io tutte

Ti dirò le mie cose e l'esser mio,

Quando a colui che tanti uomini e tempi

Vide, e al fato durò con alma invitta,

Grato è ridir ciò che di gloria è degno.—

Disse, e in cima a la rupe erma e selvaggia

Pensieroso si assise. Alto a l'intorno

Spazïava il silenzio, e in larghi giri

Un'aquila le azzurre aure fendea.

Lucifero

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