Читать книгу Lucifero - Mario Rapisardi - Страница 4
ARGOMENTO.
ОглавлениеSilenzio di Dio.—I suoi ministri imprecano.—Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.—Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.—Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.—S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa, ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.—L'Eroe si dispone al racconto.
Dio tacea da gran tempo. Ai consueti
Balli moveano in ciel gli astri, e con dura
Infallibile norma albe ed occasi
Il monotono Sol dava a la terra.
Reddían le nevi a biancheggiar le spalle
Del tremante dicembre; april venia
Col suo manto di fiori; arida e stanca
Movea la bionda està giù da' falciati
Campi a cercar le vive onde marine;
E, coronato il crin d'edra e di poma,
Scendea l'autunno a ruzzar vispo e snello
Fra l'accolte alpigiane, e pigiar l'uve
Nei colmi fianchi dei capaci tini.
Tutto seguía così l'alte, immutate
Leggi de la Natura, e nullo in terra
Creato obietto, o in ciel, l'arduo sentiva
Strano silenzio del mai visto Iddio.
Abbandonati e solitarî intanto
Giacean per le infrequenti aule divine
I marmorei Celesti; e per le fredde
Vòlte il sacerdotal canto e la prece
Qual vano si perdea grido, che inalza
Da la rupe solinga il cacciatore,
Se mira dileguar giù ne la valle
Tra 'l sonante canneto il salvo augello.
Da fiero gel, da sacro orror comprese
Fur l'alme vostre allor, pallidi e negri
Zelatori de l'are; e quando ai vani
Scrigni balzar vedeste arido e magro
L'obolo di san Pietro, e oziose e tristi
Tornar dal mondo, qual gregge digiuno,
Le scornate Indulgenze, orridamente
Su le madide tempie alto rizzârsi,
Come ad istrice, i crini, ed agitato
Tre volte e quattro tentennò il tricorno
Su la sacra tonsura. Un grido, un urlo
Cupo s'alzò dai congiurati petti:
—La fede muore! O Dio, fulmina e sperdi
Gl'increduli mortali!—
Alcun non arse
A la prece crudel fulmine in terra;
E i mortali rideano.
Udì quel riso
Lucifero, e balzò. Sedeangli intorno
Il silenzio e la morte; oscure e fredde
Strisciavan su la sua fronte immortale
Strane larve di sfingi e di chimere,
Ed ei, solo com'era, in mezzo a tanta
Morte la luce e l'armonia sentiva.
—Qui in eterno starò? Favola indegna
Senz'opra e senz'amore, io, che del cielo
Per istinto d'amor spregiai la vita?
No, si torni a la terra! Un nuovo io sento
Spirto d'amor, che mi discorre il petto:
Santo auspicio è l'amor. L'ultima prova
Tentiam; l'ora è propizia: assai già sono
Su la terra i miei fidi; uom fatto anch'io
Amerò, soffrirò; correrò il breve
Travaglioso cammin d'un uom mortale,
E, redento da l'opre e da l'amore,
Recherò a l'uom salute e morte a Dio.—
Così l'Eroe parlava, e i circostanti
Baratri tenebrosi si agitavano,
Come per improvviso urto di vento
Il sen cupo del mar. L'ali di gufo,
Il piè forcuto e la bovina fronte
Mutò d'un tratto il favoloso iddio;
E dai lombi gagliardi e da le spalle
Le fuliggini tèrse e la stillante
Cispa dagli occhi affumigati ed orbi,
Tutt'uomo apparve, e radïò dal volto
La superba beltà d'un dio mortale.
Tramutato così, dal piceo trono
Balzò d'un tratto; il guardo mosse in giro.
Ed esclamò:—L'infernal regno è sciolto;
Il mio regno è la terra!—
Ecco il subietto
Del canto mio. Classico o no, ne affido
L'occulto senso a voi, vergin consesso
D'oculati Aristarchi. A voi diè Giove
La diva Arte in governo e i mal concessi
Talami de le Muse; e se agl'incerti
Occhi vostri si niega il delicato
De le Grazie sorriso e la suave
De le sacre fanciulle ispiratrici
Candida voluttà, dolce vi sia
Star su la soglia a noverar gli ardenti
Amplessi e i baci insazïati, ond'hanno
Suon di celesti melodie le chiuse.
Odorate cortine, ed immortale
Vita in terra gli eletti: in simil guisa
Sta su la porta dei gelosi arèmi
La fida turba dei scemati servi,
Mentre il figlio d'Osmàn deliba il fiore
De le belle Circasse. Alto e solenne
Officio è il vostro, e non indarno io chiamo
Il vostro nume auspice a me: voi soli
Le riposte misure e voi sapete
Le leggi e il rito, onde s'ottien l'impero
De l'occulte bellezze, e qual più giova
Tener modo e governo in sul tentato
Mare de l'Arte, e quando ed in qual guisa
Toccar si dee la tuba o la chitarra,
E metter l'ali al dorso e dar di sproni
Al Pegaso spumante, o nel tenace
Fren moderarne a tempo i perigliosi
Impeti giovanili, ed a che segno
E con che industria è depredar concesso
Del Meonio le carte, o del Tebano.
Pèra colui, che al necessario giogo
Prova sottrar la temeraria nuca,
E va a ruzzar licenzïoso, come
Selvatico puledro, per li campi
De la sfrenata fantasia! L'immensa
Ira vostra ei subisca, e tutto a un punto
Perda il pazzo sudor, per cui tenea
Seder primo in Parnasso. Armati ed irti
D'alfabetiche cifre, unitamente
Sorgete, e contro a lui, contro a lui solo
Tutti dal sapïente arco scoccate
I rettorici strali; onde il meschino,
Travagliato da l'onta e dal rimorso,
Egro ed insano a riparar s'affretti
Fra le mura d'un chiostro. O, se più degno
Sia di spregio che d'ira, alta, pesante
Sul suo capo ostinato onda si aggrevi
Di silenzio e d'oblio. Gelide e mute
Gli sfileran dinanzi ad una ad una
Le sdegnose gazzette; indifferenti
Si chiuderan su la sua faccia smorta
D'Acadèmo le sale; e allor che, stanco
D'urlar strambotti contro al secol ladro,
Povero e solo abbraccerà la morte,
Non fia che le supreme ore gli allegri
L'aureo rabesco d'un qual sia diploma.
Saldo così su cardini d'acciaro
Il tron vostro si gira, e vita e nome
Dal cieco umano folleggiar traete.
Tal ne l'algide stalle, in fra le zampe
D'ardimentoso corridor, ritrova
Cibo e sollazzo il piceo scarabèo;
E, quando fra le storte ànche ghermisce
Il picciol globo del dorato fimo,
L'ali spiega da terra, e s'alza a sghembo
A emular de l'audace aquila il volo.
S'incarnò adunque il mio Demonio. In terra
Sorrideva l'aprile; entro al suo petto
Sorrideva l'amor. Sopra la cima
Del Caucaso famoso, onde s'appella
La giapetica stirpe, egli fu visto
Venir come in un sogno, e star d'incontro
A l'aurora nascente. Un invisibile
Spirto, qual di canora aura, fremea
Per le fibre del mondo, e più lucenti
Dava al ciel gli astri ed a la terra i fiori:
Gli dan nome d'amor l'anime accese
Dei parlanti mortali; ed ei su tutte
Anime impera, e solo e senza legge
Il mar penetra e i monti e la selvaggia
Cute degli olmi e il petto aspro del tigre,
Chè spirto è desso, e qual raggio di sole
Splende e s'agita in tutto, e l'alme e il tutto
Con secreta armonia mesce e ritempra.
Era per l'aria un fluttüar d'ardenti
Atomi mobilissimi di luce,
Una confusa, fluvïal fragranza
Di sconosciuti balsami, e suave
Musica di parole e di concenti
Misterïosi. Un'irrequieta e nuova
Delizïosa voluttà di sensi
Vaganti per immenso ètera, come
Rondini in cerca di lontani lidi,
Una dolcezza non provata mai
Di lagrime e di sogni, al primo arrivo,
Sentì l'Eroe nel petto; e lo stupito.
Sguardo volgendo per la vasta luce,
Muto restò, di giovinetto a modo,
Che raggiante di vita alfin ritrova
La sognata beltà dei suoi vent'anni.
Ma, poi che in lui l'alto stupor primiero
Al fier proposto e a la ragion diè loco,
L'incredul'occhio ai firmamenti spinse,
—E, dove sei, sclamò, tu che presumi
Regnar l'anime eterno? Alzati, e pugna!
L'uman genio ti sfidai—
Il pugno strinse
Superbamente, eresse il fronte, e stette
Il fulmine aspettando, o la risposta.
Tacito intanto dal soggetto mare
S'apre l'indifferente occhio del sole
Su le cose create, e si ridesta
Giù per le valli intorno e la pianura
Il lieto suon de le fatiche umane.
—Sorgi, la terra è tua, proruppe allora
L'inclito Pellegrin, sorgi, o gagliarda
Possa de l'uomo! Assai d'ombre e di sogni
Preda al mondo tu fosti; e dal terreno
Pugno di fango, onde t'han detto uscito,
Non ti redense ancor la tua cotanta
Vita de l'alma audace e la sventura
Tua perpetua compagna. E che ti valse
Al par di te, trar da la creta i Numi,
Se al cospetto dei freddi simulacri
Dechinasti il ginocchio, e la superba
Libertà del pensier serva fu fatta
Di codarde paure? Or sorgi ed osa:
Il tron del mondo è tuo; numi e fantasmi
Son fuor de la Natura, e non ha vita
Tutto che il vol de la ragion trascende.
A che tra larve ìnesorate e vane
Cercare un che t'aggioghi e ti spauri,
Se muta al cenno tuo trema e si prostra
La possente Natura? Ama e combatti!
L'opra de l'uomo è amor, vita è la guerra,
Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu sei!—
Tacque, e a l'ardito favellar commosse
Tremâr l'aure d'intorno, e agitò i fianchi
La titanica rupe. Era nel monte
Negra, profonda, solitaria, intatta
Da umane orme e dagli astri una spelonca
Di bronchi irta e di sassi. Orrido intorno
Le fan murmure i venti, e tra' selvaggi
Fianchi, qual di commosse ali e di strida,
Cupamente rintrona. Irati al verno
Vi piomban da l'opposta erta i torrenti
Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a salti
Mugulando spumeggiano; ma quando
Giungono al vallo de l'orrenda uscita,
Perde l'onda il nativo impeto, e pigra,
Torba, pollente s'impaluda, e manda
Pestiferi mïasmi a chi la spira.
Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi
L'umanato Demonio, e con feroce
Piglio di scherno a contemplar si stava
L'orrido sito e il ciel. Da le profonde
Viscere allor del cieco antro una voce
Querula, lunga, dolorosa emerse
Come suon di sospir. Porse l'orecchio,
E s'appressò l'Eroe, quanto il permise
L'angusto varco e la stagnante gora,
Ed ascoltò:
—Di che perigli in cerca,
Misero! vai? Che stolta opra e che vano
Talento è il tuo di proseguir l'impresa,
Ch'io già per tempo incominciai, spregiando
La tutta ira del ciel? Stolto! che tardi
Son fatto accorto, e di Prometeo il nome
Mal mi dieron le genti! E che non feci,
Che non diss'io per questa al pianto nata
Cara stirpe de l'uom? Cieca ed ignuda
Giacea nel lezzo de l'error, sì come
Belva cibando la caonia ghianda,
E altra legge nel mondo, altro governo
Non sapea che l'istinto: ad altri ignota
E a sè stessa giacea, scherno e vergogna
De le cose create, e le create
Cose, ignara di tutto, iva mescendo
Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi
Qual mai n'ebbe pietà, se non ch'io solo
Io sol più che a me stesso? E non cotanto
Mi punse il cor la fulminata fronte
Dei fratelli Titani, e non di sdegno
Arsi così per l'usurpate sedi
Del fuggiasco Saturno e pe' negletti
Consigli miei, quanto d'affetto e d'ira
Destommi in cor la tribolata sorte
Degli umani infelici. Ardito e solo
Contro a' Numi io mi stetti, e alzai la voce
Contr'esso Giove, allor che ad uno ad uno
Sprecava i doni al vegetale e al bruto,
E a l'uom, misero tanto, altro conforto
Non largía che il morir. Tutto ebbe allora
L'uomo infelice il mio favor: sol io
Gli svegliai l'intelletto; io di sapienti
Arti e d'opre gentili e di gagliardi
Ardimenti lo instrussi; io sotto al trono
Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi
Non minor d'alcun altro. Ahi! qual mi venne
Premio da ciò? Non che n'aver mercede,
L'invida rabbia arsi di Giove, e degno
Tenuto fui d'ogni più cruda ammenda
Quasi reo di delitto. Or quinci ai nembi,
Come vedi, io mi fiacco, e a le voraci
Cagne del ciel fatto son cibo, e scherno
E favola del mondo. E nè querela
Movo di ciò; chè il querelar non giova
A chi esente è di morte; e inesorata
L'ira è dei Numi, e inesorato al pari
L'orgoglio mio. Ma qual benigno frutto
Colser giammai di mie fatiche tante,
Del mio tanto soffrir le sconsolate
Proli del mondo? Ahimè, che sórte appena
Da la tenebra antica, a l'infinita
Luce del Ver schiusero gli occhi, e poco
Poco a lor parve ogni più grande acquisto;
Tal che, tolte dal sonno, ai sogni in preda
Diedersi tutte, e del saver la sete
Arse in loro così l'alma e la vita,
Che a precoce vecchiezza e ad immatura
Morte fûr sacre e a maledir condutte
L'alto mio dono e il sagrificio mio!—
—Figlio di Temi, a lui rispose irato
L'inclito Pellegrino, e che perigli
Fantasticando vai? Nè vil fanciullo,
Credi, io mi son, che si rivolta in fuga
A la prima minaccia, o nauta imbelle,
Che trema al più leggier spirto di vento,
E si chiude nel porto. In questa eterna
Rupe confitto, in verità, tu ignori
Gli alti fati de l'uomo; e qual tu sei
Carco di mal, di falsi mali agli altri
Indovino ti fai! Lascia, deh! lascia
Questi vani compianti, e oltre misura
Non ti strugger di noi, se pur non t'hanno
Tolto il senno davver le tue sciagure.
Però sappi, e t'acqueta: opra gagliarda
Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno,
La compirò. Non già il saver, t'accerta,
Reso l'uomo ha quaggiù misero tanto,
Ma la nemica a ogni saver, la cieca
Credulità. Di false ombre e d'inganni
Essa vive nel mondo, e si fa gioco
De l'umana ragion; ma quest'azzurro
Cielo e quest'aure e questi monti io giuro,
Ch'ella è presso a morire, e arbitra in terra
La ragion sederà; largo e securo
Spiegherà il vol su' mal temuti errori
Il redento intelletto; e allor che tutto
Ciò che vuol, ciò che può senta e conosca,
Questo ignaro di sè dio de la terra
Pago fia di sè stesso, ed oltre il vero
A cercar non andrà larve e paure!—
Disse, e partía; ma lo rattenne un detto
Del pazïente Prometèo:
—S'hai grande
E pari, ei disse, agli alti accenti il core,
Deh! non partir così, quando m'hai dèsto
Tale un desío, che a lo sperar somiglia.
Molto io soffersi e soffro, e assai maggiore
Del mio soffrir fu la speranza, il tempo,
Che co' fulmini suoi Giove sedea
Sovra il trono d'Olimpo, e sul mio capo
Rovesciava ogni mal. Crescea cogli anni
E col disprezzo mio la sua paura
E la sua crudeltà, però che immite
Più chi regna divien quanto più trema,
E dei fiacchi è virtù l'esser crudele.
Solo di tutti io l'avvenir vedea
Securamente, e de la sua caduta
Presapeva il destin. Godi dei tuoi
Vani, äerei rimbombi, io gli dicea,
O spensierato usurpator del cielo;
Tal da l'Inachia stirpe uno stupendo
Mostro verrà, che spezzerà il tuo scettro
Come fil non ritorto, e me da questi
Ceppi redimerà; nè ti varranno,
Credi, i fulmini allor, chè assai più salda
Sarà del fulmin tuo la sua possanza.
Forse Giove non cadde? Ahi! ma il secondo
Dei vaticinii miei sperdeano i venti!
Qui fra' ceppi io rimasi: ad un tiranno
Tiranno altro successe, e meco avvinto
Restò in preda agli affanni ogni uom mortale.
Or che parli tu mai? Cadde a buon dritto
E dopo assai di mali esperimento
L'alta speranza mia; nè agevol cosa
È il ridestarla, ed utile per certo
Non mi saría, quando più tetro e fiero
Sembra il dolor cui la speranza illuse.
Pur, se grave non t'è l'esser pietoso
A chi tanto per l'uom male sostenne,
Al mio partito interrogar rispondi:
Uom mortale sei tu? Qual t'assecura
O responso, o destino, onde presumi
Condurre a fin tant'onorata impresa?
Non t'illude il voler, che dei più saggi
Tal tiranno si fa, che par destino?
Fidi in altri, o in te stesso? E se in te fidi,
Tal possa hai tu, che al grande ardir s'adegue?
E se fondi in altrui le tue speranze,
Tanta han virtude ed armonia le genti,
Che, fatto un brando sol d'un sol consiglio,
Al trïonfo del ver movan secure?
Qual che tu sii, svelati a me: qui sconto
L'immortal vita inutilmente, e assai
Tempo a soffrire e ad ascoltar m'avanza.—
—Ben m'è lieve appagar, l'Eroe rispose,
La discreta domanda. Uom saggio, in vero,
Io non terrò chi lusingato e spinto
Da una rosea speranza ad ardua impresa,
Pria non libra sè stesso, e con sottile,
Freddo giudicio non prevede, e scerne
I possibili eventi; anzi dà mano
Subita a l'opra, e ciecamente ai casi
Gitta sè stesso e de l'impresa il fine.
Or, perchè a tal tu non mi assembri, io tutte
Ti dirò le mie cose e l'esser mio,
Quando a colui che tanti uomini e tempi
Vide, e al fato durò con alma invitta,
Grato è ridir ciò che di gloria è degno.—
Disse, e in cima a la rupe erma e selvaggia
Pensieroso si assise. Alto a l'intorno
Spazïava il silenzio, e in larghi giri
Un'aquila le azzurre aure fendea.