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ARGOMENTO.

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Incomincia la narrazione.—La Natura e il Pensiero.—Stato primitivo degli uomini; primi e difficili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.—La gran Lite.—La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.—Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.—Un istinto di amore lo chiama sulla terra.—L'albero della scienza.—La tentazione.—Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.—Non mai contento de l'esser suo ritorna sulla terra.—Cristo predica l'amore.—Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.—Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato.

Non da l'Inachia stirpe, o d'alcun mai

Ceppo mortal, così l'Eroe riprese,

Ma da natura, immortal germe, io nacqui

Una a le cose, e da la luce ho il nome.

Dir giusti sensi, o tacer dee chi dritto

Co'l pensier mira; e, chiaramente espresso,

Torna più grato, e pregio doppio ha il vero.

Però di studïose ombre e d'enimmi

Non cingerò il mio dir, chè nè maestro

Di misteri son io, nè a disdegnosa

Anima, che a sdegnosa alma favelli,

Dubbio o coverto il ragionar si addice.

Nuovi non già, ma da la turba illusa

Negletti veri io parlerò. Due sono

Le virtù, che le cose hanno in governo:

La Natura e il Pensier; l'una, ch'eterna

Genitrice visibile è di tutto,

La pesante materia ordina e muta

Per suo proprio valor; l'altro la informa

Di spirital possanza, e la solleva

Ad ardui voli e a magisteri egregi.

Ferrea, immota in sue leggi, una procede

Lenta così, che par che giaccia: inalza

Su le rovine, onde si allieta, il trono,

E da l'arida morte una perenne

Fonte di vita e di beltà deriva;

Ma l'occulto Pensier, ch'agita e accende

Tutte cose universe, in varia guisa,

Con poter vario e con legge diversa

Ogni via tenta, ogni regione esplora

Mobilissimo sempre, e tutto aborre

De la tarda materia il peso e il freno;

E quando avvien, che di misteri e d'ombre

L'altra s'avvolge, e, per geloso istinto,

La ragion de le cose occulta e serba,

Ei libero discorre, e si ribella

Ad imposte paure; apre e dischiava

Terre, cieli ed abissi; argini atterra,

Crea, muta, strugge, e a le domate forme

Nuovi dà impulsi, e nuove leggi imprime.

Tal, benchè l'un viva ne l'altra, e vita

Abbian comune e necessaria, avversi

Son per intimo ingegno; onde tu vedi,

Che or l'un l'altra soverchia, or questo a quella

Soccomber mostra; eppur son ambo invitti,

Sono eterni ambidue, però che morte

Da tal guerra non sgorga, anzi han le cose

Da cotanto agitare ordine e vita.

Sparsi per gli antri, e fieramente soli

Vivean gli uomini primi, e nulla amica

Possa lor sorridea, tranne il Pensiero.

Ispide pelli eran lor vesti, e rudi

Selci lor armi e sol conquisto il foco.

Da l'alte culle del fecondo Irano,

Procedendo, spandeansi a mala pena

Sui giapetici piani, e gl'inclementi

Ghiacci vincendo, che inghiottían le belve,

A nuove lotte s'accingean. Muggía

Dai britannici fiumi alto l'immane

Caval de l'acque, a cui, pari a vorago,

S'apre orrenda la bocca, e al cui sospiro

L'onda gorgoglia e al ciel salta in ruscelli;

Devastando correan l'irte spelèe,

D'umane carni esploratrici, e fuori

Dai frondosi dirupi a l'onde in riva

Calavasi il deforme orso e il velloso

Primigenio mammuto: oscura e pigra

Mole di membra, a cui nemico è il sole;

E tu, sovrano troglodita, astretto

Dal fecondo bisogno, a miglior prova

Sempre volgendo il multiforme ingegno,

Armi e industrie trovasti; onde più lieve

Ti fu il domar co'l lavorato renne

Le nemiche falangi. Apron le nubi

L'inesauste sorgenti, e senza freno

Fiumi ed oceani giù dal ciel dirompono;

Entro al diluvïal baratro immenso

Spariscono le specie, in quel che, armato

Di novella virtù, l'uom passa i mari

Su la prima piròga, e, di recisi

Boschi infrangendo il pian glauco dei laghi,

Fermo vi elegge e men selvaggio asilo.

Ivi, fanciulla ancor, l'Arte s'assise

Pargoleggiando; e, a far men lungo il giorno

D'un che l'alma struggea dentro a l'amore,

Tal gli spirò nel cor dolce un sorriso,

Ch'ei fatto a un punto più gentil, leggiadre

Forme e il pensier nel duro selce espresse.

Però, quand'ei con lungo studio al rito

Del caro amor la sua fanciulla indusse,

Docil vide obbedire ai suoi talenti

Il tenace basalto; a l'agil fianco

Brunite armi precinse, e il flessüoso

Collo di lei, che gli gemea su'l petto,

Incoronò d'inteste ambre e di baci.

Or deggio dir, che, di regnar mal paga

Sovra i campi natii, la curïosa

Mente de l'uom s'insinüò nei cupi

Visceri de la terra, e ai fiammeggianti

Gnomi, che custodían l'ampie miniere,

Rapì il bronzo, indi il ferro, a cui funeste

Armi non sol, ma civiltà l'uom debbe?

Io benedico a voi, fiumi e torrenti,

Che giù dai fianchi dei materni Uràli

L'auree sabbie lucenti al pian recaste;

Ma più a la paziente opra, che il lieve

Stagno confuse e il risonante rame,

Non che a l'assiduo ardir, per cui, dal duro

Abbracciamento mineral divelti,

S'arresero i metalli a l'uom tenace.

O pensiero immortal de l'uom che muore,

Te da prima io conobbi, e quinci unito

S'intrecciò a' fati umani il mio destino.

Bruco, che il corpo infermo, a mala pena,

Per intima virtù svolge dal primo

Involucro, e, a la dolce aere credendo,

Crisalide novella, il picciol volo,

Co' fior de' campi il suo color confonde,

Tal de l'uomo è il pensier: s'apre a fatica

Fra tutti ingombri e lunghi affanni il varco,

E cammina, cammina, e a nullo iddio

Dee la vita, il principio, il mezzo e il fine.

Ultimo forse e più perfetto anello

De la catena universale, ei tutto

Chiude in sè stesso il suo destin, chè umana

Mutabil cosa e de la terra è il vero.

Ahi! che un morbo fatal l'alma gl'invase

Fin da' giorni suoi primi, ed ombre e morte

Gli gittò sovra il capo, in cor, d'intorno!

Tremò a l'aspetto de l'eterno, immenso,

Fluttuar de' creati esseri il mesto

Figlio de l'uom, che riprodotta e viva

Non pur vedea nei circostanti oggetti

Tanta lite incompresa e tanto affanno,

Ma dentro al cor, dentro a le vene, in tutta

L'esistenza sua poca iva ammirando

Un perpetuo agitar d'odio e d'amore.

Di fantastici mostri e di chimere

Popolò quinci il mar, l'aria, la terra,

Ogni spazio, ogni vuoto; e dove un'ombra

Vide e un mistero, o una maggior possanza,

Là piegò la cervice e pose un Dio.

Dio nacque allor, Dio, creatura a un tempo

E tiranno de l'uom, da cui soltanto

Ebbe nomi ed aspetti e regno e altari.

Chè or sopra ai soverchianti astri ei fu visto

Spazïar l'insegnato etere, or chiuso

Tra' fulmini precipitar su l'ale

Dei rotanti uragani, or sovra al dorso

Dei cavalli del mar correre i flutti

E sfrenar l'onde a battagliar coi venti;

O ver come immortal fremito immenso

Penetrar l'aria, serpeggiar nel grembo

Degli avari terreni, e al vigilato

Solco apparir fra le compiute ariste.

Però quel che Dio fu, quale ancor vive,

E quanto ebbe e mantiene a l'uom soltanto

Il deve, a l'uom, che d'ogni suo destino,

O prospero, o maligno, arbitro è solo.

Chi a tiranno cotal, che, dal pensiero

Nato de l'uom, l'uomo asservir presunse

E le cose universe, il fronte oppose

Con indomito orgoglio, e una selvaggia

Voce di libertà gittògli incontro,

Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta

Prepossanza di Dio tenne equilibre

Con perenne agitar? Fu la feconda

Lite, che il mar de l'essere commove

Con assiduo flagello, e dai cozzanti

Corpi la luce e l'armonia deriva.

Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto

Padre di servitù, per fiero istinto,

Rubellossi da prima; essa al feroce

Andropòfago Iddio scosse la reggia

Vigilata dai fulmini; e dal fiero

Cozzo con lui tanta favilla emerse,

Che, mutata dagli anni in fiamma viva,

Tutto divorerà dei numi il regno.

O d'ogni libertà fonte primeva,

Madre d'inclite pugne, io ti saluto!

Tu co'l moto la vita, e co'l solenne

Fra le cose de l'alma egregio attrito

Luce dèsti e saper negli intelletti

E co'l saper la libertà, sublime

Pianta, che sol dov'è coltura alligna.

Te da la terra solitaria i saggi

Primamente avvisâr; te, spiratrice

Di terrigeni mostri a Dio rubelli,

Raffiguraro e coltivâr le genti,

E or fosti Isi nomata, or Bahavàni,

Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco,

Or discordia infinita, e, se paura

Ebber dei moti tuoi l'anime imbelli,

O fur da sacerdoti empî travolte,

Nome avesti d'errore e di menzogna

Tu, che ad onor del vero e de la luce

I misteri del cielo agiti e sperdi.

Ma qual tu fosti e sei, più che i mortali

Lo sanno in prova, e da più tempo, i Numi.

Sedea Giove orgoglioso in su' tranquilli

Troni d'Olimpo, il nèttare libando

D'ogni più lieta voluttà, nè alcuna,

Fra le dapi fumanti e le vezzose

Fanciulle che tesseangli inni e carole,

Cura de l'uom gli penetrava il petto.

Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti

Dal comando di lei, che Lite ha nome,

Quanti mai da la terra erano usciti

Terribili Titani, a cui la forza

Granava il corpo, e il cor crescea l'ardire;

E avventando ciascun li suoi cinquanta

Capi feroci e le altrettante braccia

Contro ai regni di Giove, orribilmente

Tracollaron dai fondi imi l'Olimpo.

Arse d'ira il tiranno, e forza a forza

Oppose, e vinse. Da le attinte altezze

Precipitâr gl'intrepidi gagliardi

Un dopo l'altro fulminati, e monti

Ed isole parean, che in un selvaggio

Moto la terra, o il mar vorace inghiotte.

Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo

Di cotanta caduta, o sopra a tutti

Sventurato Titano? Eran pur folli

D'Ùrano i figli, ove tenean, che segga

Maggior virtù, dove più grande e saldo

Torreggi il corpo, e il vigor cieco e bruto

A pugnar contro a tutti e a vincer basti.

Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza

Di giganti trïonfa, o adamantina

Spada conquide, e solo a la modesta

Continua punta del pensier soggiace.

Rupe, cui dal gagliardo imo non svelse

Furor d'atre procelle, a poco a poco,

Morsa dal flutto che le geme intorno,

Scemar vedi e crollar: son rupe i Numi,

E il flutto assiduo del pensier li rode.

Così Giove fu vinto, e in simil guisa

Vinto sarà chi gli successe. Or odi

Quel ch'io feci e farò. Da una malnata

Bordaglia rea, che da natura in dono

Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede,

Ièova ne venne, un implacato iddio,

A cui fulmine è il guardo e tuon la voce.

Solitario e funesto egli incombea

Dal recesso del ciel plumbeo su'l petto

Dei tremanti mortali, e gran sepolcro

Di mal vivi era il mondo, a cui su'l capo,

Pria de l'ora, il fatal sasso si aggrevi.

Io nel cielo era ancor, bello di tutti

Radïamenti. Era sorriso e luce,

Fragranze ed armonie del ciel la vita,

E, cullati in un mar d'ozii e di fiori,

Si tenean tutti e si dicean beati.

Sol'io, spirito inquieto, indifferente

A quell'aprile, a quel banchetto eterno,

Sentía dentro a l'altera anima un vôto

Misterïoso, un mar senza confine,

Come una solitudine infinita

D'intorno a me, dentro di me: se avessi

Conosciuto l'amor, forse in cor mio

Ravvisato l'avrei sin da quel giorno.

Poco mi parve il ciel, misera vita

L'eternità. Di strane opre, di voli,

Di turbini, d'ebbrezze, di battaglie

Tal m'invase un desío, che sfere ed astri

Corsi, cercai, sempre irrequieto, in traccia

D'un fantasma incompreso, o fosse un'ombra

Del mio stesso pensiere, o una diversa

Immagine con me nata, e divisa

Fatalmente da me. Dove mai, dove,

Sospiroso io dicea, trovar ti posso,

O disïata e necessaria parte

De l'esser mio? Per entro a l'immortale

Anima mia tutto il mortal sentiva.

Infelice mi tenni. A Dio nel fronte

Gli occhi un dì fissi, e interrogarlo osai:

Chi m'ha fatto così? D'ira e di lampi

Ei fiammeggiò, nè mi rispose. Il vero,

Io replicai, l'eterno vero; io voglio

Tutto saper; se il Ver tu sei, ti svela!

Ei fulminò; tremâr gli angioli; io caddi,

Nè pugnai già: sentía ch'era più grande

De lo sdegno di Dio la mia caduta.

Quale allor degli antichi astri mi accolse?

Nessun fuor che la terra, e de la terra

Gli oscuri antri più cupi: ivi prescritta

Fu la mia reggia a un tempo e il carcer mio.

Bollía sotto ai miei passi un fragoroso

Mar di liquide fiamme; in gran tenzone

Mugghiando si rompeano onde contr'onde;

Ma più cocenti assai dentro al mio petto

Combattendo bollían dubbî e speranze;

Salde e ferree correan sovra il mio capo

Di granito le vòlte, e assai più saldo

Era il cor mio: sempre a me innanzi, ovunque,

Un fantasma d'amor, sempre in cor mio

Una voce incompresa: ama e cammina!

Ruppi il carcere mio; l'aria, la luce

De la terra cercai; chi avria potuto

Porre un freno al mio spirto? Ièova m'avea

Fulminato, non vinto. È là, un occulto

Pensier diceami, è là sovra la terra

Il tuo destin, là di tue prove il campo,

Là fra tanto agitar d'odî è l'amore,

Là fra tanto morir la vita alberga!

Mi trasformai la prima volta: ignoto

Corsi la terra, e al caro sole in vista

L'uom, la natura e l'esser mio compresi.

L'uom compresi, e l'amai. Ma allor che prono

A piè dei suoi creati idoli il vidi

Vaneggiar paventoso, e legar tutta

L'anima ardita a un inconcusso altare

M'arse il cor d'ira e di pietà. Sembiante

A vasta e fruttüosa arbore, in mezzo

De la terra sorgea l'egregia pianta

D'ogni umana Scïenza; e Dio, nemico

Del veggente saper, che i tenebrosi

Spirti rischiara, le ruggía d'intorno

Con feroce divieto; onde alcun mai

Coglier non osi ed assaggiarne il frutto.

Fu allor che con sottile arte la mente

Degli uomini tentai: simile a Dio

Sarà, dicea, chi ciberà quel frutto;

E quel frutto fu colto. Un'orgogliosa

Brama, un'ardente, inestinguibil sete

Di saver, d'indagar l'ombre, che folte

Gli addensava d'intorno il Dio nemico,

Morse gli uomini tutti; e qual più viva

Sentì in cor la mia voce e il poter mio,

E per vie non segnate oltre si spinse

Al confin de la pavida ignoranza,

E interrogò con l'intelletto audace

Le piante e gli animai, la terra e gli astri,

Quei di mago ebbe nome e di ribelle.

Piombò quinci su'l capo ai maledetti

Figli di Cam la collera di Dio,

E assai d'essi perîr, non la pugnace

Virtù, che a l'uom pria la Natura infuse,

Ed io, sin da quel dì, sveglio e raccendo.

D'orgogliose speranze io mi pascea

Secretamente, ed oltre un mar d'affanni

Prevedea su la terra il mio trïonfo;

Ma fulminato dal geloso Iddio

Nuovamente io piombai nei tenebrosi

Baratri de la terra, ove il superbo

Sdegno del petto e il mio dolor nascosi.

Ivi scendea talor qualche gagliardo

Intelletto di sofo o di poeta,

A cui fu colpa il propagar le nuove

Apocalissi del pensier mortale.

Rïardea la speranza entro al mio petto

Co'l suo venir, però che per ciascuna

Stella, che al fronte di Sofia s'accende,

De la Fede su'l crin spegnesi un sole.

Così durai gran tempo, e non già pago

De l'esser mio: sempre a me innanzi, ovunque

Un fantasma d'amor, sempre in cor mio

Una voce incompresa: ama e cammina!

Ritornai su la terra. Un mansüeto,

Che de l'iroso Iddio credeasi il figlio,

Predicava l'amor. Debole e solo

Egli parea, ma tutta era con esso

L'umanità. Stetti pensoso e muto

Ad ascoltarlo, e mi obliai. Senz'armi

Egli pugnò; vinse morendo: cadde

Giove dal ciel, Roma dal mondo, e il mondo

E il ciel fu suo. Sperai, dubbiai; ma il giorno

Che tutte dopo a lui volgersi al cielo,

Per cercarlo, vid'io l'anime umane,

E su la terra derelitta e mesta,

Come in carcere vil, gemer la vita;

No, vittoria non è, gridai da l'imo

Petto, e furente mi scagliai per quanta

Terra il ciel vede, e il mar sonante abbraccia;

No, vittoria non è questa, che il tempo,

L'opra, il pensier, l'uomo e la vita uccide;

Amor questo non è, ch'entro a una fatua

Luce di ciel nuota ozïando, e il tergo

Cheto soppone a qual che sia flagello!

Braccio e pensier, moto e conflitto è amore;

Campo d'opre comuni e di travagli,

Non èremo la terra; uom, che nel pianto

Vive, e da Dio gioie o tormenti aspetta,

Schiavo non pur, ma inutil cosa il chiamo!

Tremâr le infeminite anime al grido

Del mio potere; e Dio, fatto più forte

De l'umano terror, me per la mano

Del suo fido Michel di ceppi avvinse,

E percosso e ferito indi nei cupi

Baratri m'inchiodò; stolto! e si tenne

Securamente vincitor. Dai ceppi,

Dagli abissi io balzai, giovine eterno,

E mutando me stesso in mille guise

Ebbi regno nel mondo. Una venale

Turba di sacerdoti a cui nel nome

Abusato del Cristo, agevol cosa

Era il far degli altari empio mercato,

Me d'ogni colpa allor, me d'ogni affanno

Degli uomini imputò; strani sembianti

Mi foggiâr le nemiche anime, e avverso

D'ogni umana salute e d'ogni amore

Il mio nome suonò; ma in faccia a questo

Dolor tuo sacro e in faccia al mondo io giuro:

Mi fu iniqua la fama! Orrido, immoto

Su l'umane coscienze s'assidea

L'infallibile Domma: un paventoso

Mostro senz'occhi e tutto plumbeo il corpo,

Che il mortale Pensier di ferri avvinto

Squarcia con le feroci unghie, e sen ciba.

Suo regno è l'ombra, sua virtù gl'inganni;

L'ignoranza dei popoli il suo scudo,

Ed armi sue l'anátema e la scure.

Contro ad esso io pugnai: sinistra e maga

Cosa per lui la sitibonda brama

D'ogni saper; frutto vietato il vero,

Colpa il voler, la libertà delitto,

E allora, oh! allor, superbamente il dico,

Menzogna, error, colpa e delitto io fui!—

Lucifero

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