Читать книгу Lucifero - Mario Rapisardi - Страница 8

ARGOMENTO.

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Lucifero, continuando il racconto, accenna alla venuta dei barbari; ad Ario, che si ribella, fra' primi, all'autorità ecclesiastica, da cui viene scomunicato nel concilio di Nicea; a Telesio, che scote il giogo scolastico; alla stampa che propaga il pensiero nuovo.—La rivoluzione, filosofica in Italia, diventa religiosa in Germania.—Leone X e Lutero.—Il pensiero e la coscienza armano il braccio dei popoli, e la rivoluzione prende l'aspetto politico.—Tirannide monarchica e republicana: la libertà sta nel centro.—Rivoluzioni d'Inghilterra, d'America, di Francia.—Il canto della guigliottina.—Fecondità delle rovine.—Rassegna delle principali invenzioni del pensiero umano; dalle quali confortato l'Eroe, predice il suo vicino trionfo.—Finita così la narrazione, si parte, mentre una voce misteriosa annunzia agli uomini la sua venuta.

Sopra la terra imperversava intanto

Un uragan di popoli. Sul vecchio

Tronco latin spirò l'aura del norte,

E il rinverdì; fra le disfatte genti

S'insinuò un gagliardo alito, un fremito

Di selvatica possa. A quella forma

Che al ritorno d'april, sotto al fecondo

Bacio del Sol, freme la terra, e il cieco

Germe, che in grembo custodì dal fiero

Morso de' ghiacci, a l'aurea luce esprime;

Tal serpea de l'uman genere in petto

Una nuova virtù, che a la secreta

Aura del mio pensiere apríasi il varco.

Ed Ario sorse, e tutte avea d'intorno

Le germaniche stirpi.—Oh! splenda un lume

Di verità su queste genti; un riso

Di libertà su le coscenze umane;

Sia concesso il pensier!—Questo ai pastori

Del buon Cristo ei chiedea, là, su la soglia

Del Niceno consesso, ove a congiura

Tratti il cenno li avea d'un parricida.

Siccome folla di mendici, a cui

Cadan rotte le vesti e manchi il pane,

Tali sul freddo limitar premeansi

Mute, ansïose del giudizio, ai fianchi

D'Ario le genti. Alzâr le braccia i sacri

Del Cristo alunni, e su la fronte ardita

Del Cirenèo fulminâr tutta a un'ora

L'umanità. Sfida fu questa, a cui

Ostinata e mortal guerra successe.

Quinci la Fede della plebe: un'orba

Maga, che l'ignoranti anime impera,

E d'error vive ed a le stragi istíga;

Quindi colei, che luminosa incede

Fra tutti affanni, e di Scïenza ha nome:

Di severi intelletti arbitra e diva,

Sperimentando, essa li guida in loco

Dove scevro di nubi il Ver fiammeggia;

Gli eterni de le cose atomi indaga,

L'essenze esplora, e a la cagion lontana

La varia prole degli effetti annoda.

Chi potría tutti annoverar di questa

Universa battaglia i campi e l'armi,

Gli eroi, gli studî, i vincitori, i vinti?

Sol taluno dirò. Di precursori

Italia è madre, e tre corone ha in fronte:

Regnò co'l brando e con le leggi in pria;

Poi, vinta i polsi e strazïata il petto,

Co'l pensiero regnò. Gemean le menti

Sotto al flagel d'una loquace, astuta

Sfinge bifronte, che, di Cristo a un tempo

E d'un Saggio, che patria ebbe Stagira,

Usurpando il poter doppio e gli aspetti,

Mutava con sottile arte in oscura

Fede il saper, la cattedra in altare.

Povera fra le genti iva e digiuna

D'ogni culto Sofía, nè pria fu lieta

Di fermo ospizio e d'onorate offerte,

Che s'avvenne in Telesio. Il venerando

Vecchio sedea pensosamente a l'ombra

De le selve native; e, pari al raggio

Novo del Sol, che tra le fronde e i rami

Scendea sereno a ricercargli il fronte,

Un arduo gli splendea dentro al pensiero

Giovanissimo spirto. A l'aura, al guardo

Riconobbe la santa esule, e incontro,

Sorridendo e tremando e con aperte

Braccia le córse. Una parola ardita

Quinci udiron le serve itale menti;

Impallidì l'orrida Sfinge; il duro

Giogo fu scosso; e da quell'aureo giorno

La casetta del sofo ara divenne.

Qual da le dilicate ántere aperte

Manda l'amante fiore al fior lontano

Il pòlline fecondo, e messaggero

Del casto bacio è il zeffiro d'aprile:

Tale il novo pensier, creduto a un novo

Magistero di cifre, inclite imprese

Maturò fra le ardenti anime; e il vanto

Fu tuo per vero, o egregia arte, per cui

Da metallici tipi impresso, e in mille

Guise prodotto, agil discorre e vola

Il mortale pensier, visibil fatto.

Possa tu sei, che ogni confine, opposto

Fra gente e gente, indomita conquidi;

Fulmine sei, che la funesta e scura

Tirannia de l'error sfolgori e sperdi;

Luce sei tu, per che dovunque e in tutte

L'alme il sorriso d'ogni ver si svela,

Tu, nel commercio de l'idee, le sparse

Genti accomuni; in facile amistanza

Leghi i vivi agli estinti, e in guisa annodi

L'uno a l'altro pensier, l'ieri al domani,

Che la specie de l'uom, devota a morte,

Un sol gigante ed immortal diviene.

Ma qual de l'onda avvien, che d'uno in altro

Vase versata, altra figura assume,

Così, da la contesa alpe ad estranei

Climi varcando il pensier novo, in nova

Forma e in campo diverso e con altr'armi

Contro a un cieco poter sorse, e proruppe.

Trafficata, qual vil merce, passava

Da un giogo a l'altro la saturnia terra;

E i suoi figli rideano. Un rubicondo

Pastore e re, che di Leone il nome,

Ma l'alma avea d'un animal di Circe,

Banchettava su l'are, e il ciel vendea.

Venne un giorno d'oltralpe un battagliero

Frate sul Tebro. Gli bollía nel petto

Il sassonico sangue, e calda al pari

Del suo sangue la fede.—Oh! ch'io nel vivo

Fonte, dicea, de l'evangel di Cristo

Quest'anima disseti!—Io, ch'era presso,

Per man lo presi, e lo condussi in loco

Ove il sir de l'umane alme gioíva

Fra una ciurma di servi, a cui sul crine

Sedea per celia un ramoscel d'alloro,

Una burla su'l labbro, e sol ne l'epa

La libertà. Del buon Leone intorno

Tripudïando oscenamente ignude

Ivan muse e madonne; ed ei, nuotante

Come in un mar di placida quïete,

Sonnecchiava e ridea, mentre, seduta

Sui suoi ginocchi, con la man lasciva

Stazzonando il venía lubricamente

Del Bibbiena una putta, ed esso il Cristo,

In abito or di scalco, or di poeta,

Compartía, strambottando in buon latino,

Cibi a le pance e a l'anime indulgenze.

Su la spalla battei de lo stupíto

Solitario, e gli dissi: Ecco il vangelo!

Arse in cor d'ira e di vergogna in volto

Il generoso, e a le natíe contrade

Disdegnando volò. Folti a' suo' fianchi

Si stringeano i fedeli al suo ritorno,

Dimandando di lui, che il ciel dispensa;

Ed ei tuonò:—Colui, che il ciel dispensa,

L'are insozza, il ciel vende, e Dio svergogna!—

Disse, e dal petto fremebondo il sacro

Abito svelse, e si lanciò nel mondo

Come guerrier contro a nemico armato.

Ululâr contro a lui, contro al pensiero,

Contro a la vita, contro al ciel, gl'ingordi

Lupi di Trento; sibilâr gli obliqui

Rettili del Loiola, e dentro ai petti

S'insinüando, avvinghiâr l'alme; un freddo

Lento velen vi sparsero, sperando

Che sepolta nel sonno, o nel terrore,

L'umana volontà tutta si spenga.

Fu un sepolcro la terra. Un'ara e un trono

Soli sovr'esso; e tutto occhi e sospetti

Sovra entrambi il Loiola: Iddio discese

Umilmente dal cielo; e, perchè alcuna

De le pecore sue non si smarrisse,

Al comando di lui prese il coltello,

E con celestïal garbo l'immerse

Ne la gola di mille. Un mar di sangue

Coprì la terra; il divo manigoldo

Tornò al ciel, carezzò l'insanguinata

Barba, e pago dal suo trono sorrise

Come al settimo giorno. Io nel fumante

Sangue mi astersi, e fulminai la voce.

Pugnâr vivi ed estinti, e nuova intorno

Pullulò da la strage onda di vita.

Gemina possa, è libertà: risveglia

Le menti in pria, poi discatena i polsi.

Uom, che servo ha il pensier, la destra ha inerme;

Spada non ha chi i suoi diritti ignora.

Ricca d'affanni e d'ogni mal contesta

Egli è certo la vita; e pur qual turpe

Cosa è nel mondo, che al servir s'agguagli?

E qual di tutte è servitù più infesta

Che servir, non volente, al ferreo cenno

D'assoluto signor? Popol che geme

Fra' ceppi, e sente del suo mal vergogna,

Per metà è schiavo, e qual gode e s'oblía

Schiavo è due volte, e d'ogni ingiuria è degno.

Dinanzi a re, che il suo piacer fa legge,

E a nessun mai de l'opre sue risponde,

Leggi non son, nè cittadini: ai sommi

Gradi i pessimi esalta; il buon deprime;

L'altrui sostanze impunemente invade;

Grandi e piccoli offende; il sangue sparge;

L'onor calpesta: è tutto insomma ei solo.

Nè giustizia miglior, nè più felice

Stato è, per me, dove la plebe impera.

Idra ingorda è la plebe, e per ciascuna

Testa ha due bocche: a divorar la prima,

A morder l'altra e a maledir dischiusa.

Vile in servire, in comandar superba,

Cieca in ambo gli stati, iniqua sempre.

Miglior però d'ogni governo io tengo

Quel che al centro risiede, e da ogni estremo

Con eguale poter si tien diviso.

Quinci l'empia Licenza, a cui gradito

Cibo è la strage cittadina, e quindi

La Tirannide astuta; ed esso in mezzo

Sta, come ròcca, e per vegliante cura

Campa a un'ora dal male e al ben provvede.

Da l'estrano temuto, e riverito

Al par da' suoi, de la sua gente i dritti

Custodisce e difende, e, pur lasciando

A l'oprare d'ognun libero il campo,

Argine solo il dritto altrui gli oppone.

Così liberi tutti e tutti a un tempo

Servi sono a la Legge; e per diversa

Via, con varia fortuna e vario ingegno

Egual fine ha ciascuno: il ben di tutti.

Questo però, qual ch'abbia forma e nome,

Libero stato io sovra gli altri estimo.

Nè pensar già che il buon desío m'accechi,

Se dir m'udrai, che a tanto inclito obietto

Ogni gente del mondo ormai si appressi.

Al novo grido del pensier ribelle

Tremâr con l'are i troni, e giù dai troni

Precipitâr scettri purpurei e teste

Coronate di re. Surse su'l nudo

Scoglio Albïone, e su'l riverso giogo,

Il suo tiranno a giudicar, piantosse.

E giudicò. Splendea nitida e bella,

Qual s'addice ad un re, sovra il tuo collo,

O Stüardo, la scure; e fredda, muta

Come il pensìer del rigido Cronvello,

Cadde, e libò con voluttà plebea

Il regio sangue di tue regie vene.

Rotolò ne la polve il tuo parlante

Capo, e le voci balbettate a pena

Da le labbra morenti entrâr nel petto

D'ogni re de la terra, a cui mutato

Sembrò il regno in abisso, in palco il trono.

Surse anch'ella e ruggì d'oltre l'Atlante

L'americana Libertà, che troppo

Sentì al collo pesar l'anglico giogo;

E tu primo ne udisti il grido orrendo,

Redentor Vasintóno, a cui la spada

Sfolgoratrice d'assoluti imperi

Essa prima affidò. Scornata e vinta

L'altera Anglia soggiacque; e non le valse

Fulminar Franchi orgogli e antenne Ibere,

Nè gli oceani domar, nè invitta e ferma

Durar su la contesa arce di Calpe,

Quando te non domò, te di nemici

Vincitore non pur, ma di te stesso.

Libertà allor sul grande istmo si assise

Vittorïosa, e ne le immense braccia

Ad un patto d'amor le genti accolse.

Sedea fra tanto una cortese e imbelle

Sovra il trono di Francia ombra di re.

Quinci un cortèo di pallide e lascive

Fantasme, e inciprïate ombre e superbi

Scheletri incappellati e rugginose

Armi vuote, che si tenean diritte,

Come fosser guerrieri; e quindi un vasto

Tumultüoso brulicar di vivi.

Il Re dicea: Stiam fermi, io son lo Stato!

Ed il popolo: Avanti, eguali tutti!

Diceva il Re: Pieghiam la fronte a Cristo;

E la plebe: Nè re, nè dio vogliamo:

Cristo è il passato, e l'avvenir siam noi!

E il magnifico Re, non per paura,

Ma perchè ardea d'amor pe' suoi soggetti,

Titubò, tentennò, si rassettò

Co'l mignolo sottil certi indiscreti

Ricci, che gli sfuggían da la parrucca,

E gridando: sto fermo, un gradin scese.

Fe' un sogghigno la plebe, e disse: È poco.

Ed il Re scese ancora. Ancor non basta!

Gridò la plebe; e il Re: M'abbasso troppo;

Allor pari sarem!—Meglio per tutti;

Se non ami con noi viver nel fango

Un palco t'alzerem d'oro e di gemme;

Vieni, scendi e vedrai!—Scese; e la plebe

Urlò un plauso di gioia, e, sì com'era

Nana, minuta, sbrindellata e scarna,

Diessi a ballonzolar bizzarramente

Tutta in giro al buon re.

—Balliam, balliamo:

La nostra gioia, il viver nostro è un'ora:

L'uccel venne a la rete, il pesce a l'amo.

Da l'una a l'altr'aurora,

Balliam, balliam, balliamo.

Balla con noi, buon re: noi non siam prenci,

Non vestiamo, gli è ver, porpora ed ostro,

Ma fatto è il manto tuo coi nostri cenci,

E tinto te l'abbiam co'l sangue nostro.

Balla con noi, buon re: vigile ognora

Tu pensavi al tuo popolo diletto:

E il popol tuo vegliava e veglia ancora

Per comporti a sue spese un cataletto.

Balla con noi, buon re; balliam, balliamo;

Facciam cambio di doni, oggi ch'è festa:

Noi la vita e l'onor dato t'abbiamo,

E tu, buono qual sei, dànne la testa!—

Era questo il baccar di quel tremendo

Popolo di pigmei. L'un l'altro, a un segno,

S'aggruppâro, si unîr, si fuser tutti

Come liquido bronzo, e una trifronte

Furia formâr così gagliarda e fiera,

Che immoto stette a contemplarla il mondo.

Ella si scosse, e dietro a lei sparirono

I secoli; diè un grido, e tremâr quanti

Popoli e re. Tutto sia nuovo, disse,

E fulminò: tempi, memorie, cose,

Troni ed altari, uomini e dii. La terra

Corse in tre passi; e a le rovine in cima,

Fra un oceano di sangue eretto un trono,

Lieta, guardando a l'avvenir, si assise.

Come allor, che dai campi aridi e brulli

Piomba co'l verno una tempesta, orrendo

Romba il tuon, fischia il vento, a larghe falde

Piove olimpo; i torrenti alzansi in fiumi,

I fiumi in mar; crollan capanne e case,

E ti par tutto, ove che il guardo giri,

Un sepolcro di torbe acque la terra;

Tal passò quell'Erìne; e, a quella forma

Che, a le fiamme del Sol, bevendo i campi

L'abbondevole umor, pullula intorno

Fuor del morbido limo ogni diversa

Vegetal vita, e variopinto e bello

D'erbe intesto e di fior spiega il suo manto;

Così da le rovine alte e dal sangue

Germinâr cose e idee, ch'arbori or fatte,

Dan riparo a le genti e frutti al mondo.

Questi, ch'io noto con parlar fugace,

Inclito Prometèo, son, tra' maggiori

Fatti, per cui l'uman genere avanza,

I maggiori e più illustri; e d'essi al raggio

La speme del mio cor s'accende e cresce.

Me più volte cacciò nei tenebrosi

Baratri il Dio, che al suo fatale è presso,

Ma invitto sempre ad altre prove io sorsi,

E a l'estrema mi accingo, or che cotanto

Spazia nel Ver de l'uman genio il volo.

Però ti piaccia udir, come appuntando

L'uomo industre e tenace il vario ingegno

Or d'Iside nel grembo, or di sè stesso,

Utili veri a la sua vita invenne.

Qual dirò prima o poi? Correa su' ciechi

Flutti il nocchiero, e nulla al dubbio corso

Guida costante gli reggea la prora,

Fuor che l'Orsa malfida e il vario sole.

Mal securo ei fuggía gli alti, e la riva

Con vigile tenendo occhio, il nemico

Nembo tremava, che rapìagli il cielo.

Ma poi che la virtù primo conobbe

Del commisto magnete, il qual, sospinto

Da un istinto d'amor, volgesi al polo,

Un sottil, ben temprato ago ne trasse;

Mobilmente il librò sovra a un diritto

Fil d'intrepido ottone; entro una cava

Ciotola il custodì tutta di puro

Rame, e, co'l guardo al ben costrutto ordigno,

Diede a l'agile prua certo il governo.

Così per mari inesplorati, in traccia

D'un pensier, che parea sogno e deliro,

T'affidavi, o Colombo; e intenta e certa,

Più de la punta del sottil congegno,

Ch'oltre ai nembi scorgea l'artiche nevi,

Lungi, lungi, oltre ai mari, oltre al confine,

Dove il cielo si univa al mar crudele,

Tutto un mondo vedea la tua pupilla.

Esplorata così questa rotante

Sfera, che intorno al Sol l'anno misura

Più vasto al genio umano aere s'apría.

Crescean genti e città; crescean con elle,

Madri d'opere eccelse e d'aurea prole,

Le varie stirpi de' bisogni industri,

E d'un vol più veloce e più securo

Ogni gente, ogni cor l'uopo sentiva.

Qual parría del vapor più debil cosa?

Atro figlio de l'acqua e del selvaggio

Foco, di tutto genitor, si leva

Turbinando per l'aria, e l'aria offende

Di fosco, umido vel, sin che del tutto

Si discioglie e si sperde. Eppur, se in cupo

Spazio tu ardisci imprigionarlo, e al cielo,

Ch'ei desía, non gli assenti adito alcuno,

Cozzar tosto l'udrai contro ai pareti

In terribile guisa, e sì con fiero

Talento e con tal vivo urto li assale,

Che, fosse anche d'acciar la sua prigione,

Indomito la spezza; i perigliosi

Frantumi in alto, in cento versi avventa,

E con tuono improvviso all'aria esplode.

Di tal fiero poter con mente audace

L'uman genio si valse; accortamente

Il compose, il costrinse in ben attati

Cilindri, che dischiuso abbiano un varco;

Diè modo e verso al repentino istinto,

Che a dilatarsi e cercar l'aria il porta,

E di guisa il domò, che or dentro a immoti

Dedaleï congegni urge, ed immani

Suste ad un cenno e ferrei magli elèva,

Ruote stridule aggira, e, a tutto intorno

Propagando con vario ordine il moto,

Porge all'uom mille braccia, a l'arti il volo;

Or, d'un agile pino occulto in grembo,

Via lo spinge su' flutti, al nembo, a' venti,

Senza remi, nè vela; ond'esso, in forma

D'agile carro, sui voraci abissi

Rapidissimo scorre, e lidi e genti

In utili amistanze obliga e aduna.

Nè il mar vince soltanto; anche la terra

Con nuovo magistero a lui soggiace.

Varcar vedi per lui, quanto è distesa

Da l'igneo Sâra al gelido Trïone,

Tal fulmineo congegno, che animato

Mostro il diresti: un ferreo ed infernale

Pègaso dai fiammanti occhi, che orrendo

Fuma, fischia, ansa, sbuffa, alita, e crassi

Fiati or da l'alto or giù dal ventre avventa;

Ed ecco, or per campagne umili e valli

Correr mugghiante e serpeggiar lo miri,

O lungo i fianchi d'un aëreo monte

Divincolando trascinar l'immane

Corpo; or sui fiumi sorvolar, traendo

Fuor dai pensili ponti alto fragore;

O la riva del mar tremulo al giorno

Radere, o dentro a tetri anditi a un tratto

Cacciarsi, e poi, lontan che il vedi appena,

Sbucar, lieto fischiando, a l'aure amiche.

Di tante meraviglie a l'uom stromento

È il domato vapore. Or quelle ascolta,

Ch'opra il vigor del fulminante elettro.

O che chiuso ei si assieda, o che trascorra,

Tutto egli abita e muove: il ciel sublime

Turba e schiara a sua posta, or con sovrana

Possa adunando, or dispergendo i nembi;

La terra investe, agita i petti, e i germi

Scalda e svolge ne l'una, e dentro agli altri

L'estro del ricco immaginar produce.

Le piante, gli animai, l'ambre, i cristalli,

L'irto pel, l'aurea seta, il fil sottile,

Tutto, qual serpeggiante anima, invade,

Per ogni cosa si conduce, e, come

Odio avesse ed amor, le simiglianti

Cose respinge, e le diverse attira;

Altre muta, altre scambia, altre dissolve.

Di questa forza onnipossente, occulta

Entro al sen de le cose e di sè stesso,

L'uom si avvisò meravigliando; e poi

Che al vulgare stupor, che inerte ammira,

L'acuto esame operator successe,

L'ignea virtù, la doppia indole, i fatti

Ne investigò, ne misurò; gli azzurri

Dardi, per via di ben composti ingegni,

Costringendo, ne accrebbe, e di tal guisa

Al suo nume obbligò l'etereo foco,

Che il fulmine del ciel, già paventosa

Arma di Dio, terror de l'uomo e morte,

De l'umano pensier schiavo s'è fatto.

Affascinato da la tenue punta

D'un magnetico stil, che su dai colmi

Aërei tetti a vertice s'inalza,

Giù da le nubi rovinar tu il mira

Con fragore innocente, e sotto al cenno

Del tranquillo mortal cercar gli abissi.

Qui di doppio metal sorger tu vedi

Piccioletta colonna, a cui di pila

Dà nome il mondo. Di frequenti, alterne

Piastrelle, altre d'argento, altre di zinco,

Fra cui, molle di salsa onda, si spiega

L'indocile a l'elettro olida lana,

Con modesto artificio essa è costrutta.

Dentro ai vari elementi, in questa forma

Sovrapposti e congiunti, in un momento

Per innata virtù svolgesi e guizza

L'elettrica corrente; ai poli avversi

S'urta inqueta, s'aduna, e quindi e quinci

Svanirebbe per l'aria inutilmente,

Se ai due lati non fosse un magistero

Di metallici stami, in cui bentosto

La fulgurea scintilla entra, e propagasi

Precipite, e, fidata al tenue filo

Che ronzante a l'immenso aere si stende,

E i lidi estremi ed ogni gente unisce,

Fende il ciel, passa i campi, il mar penètra

Qual dèmone; e non pur segni e parole,

Fidi messaggi del pensier, produce,

Ma, stupendo a veder, le desïate

Di chi lungi è da noi care sembianze

Fedelmente ritratte a noi presenta.

Ma a che produrre il favellar? Che detto

Sarà che il vol de l'uman genio adegue?

Dirò, com'ei, con piccioletto ordigno

Le alate ore del dì segna e divide?

E l'elastica e grave aria, che preme

Su le suddite cose, e il caldo e il gielo

Con ingegno sottil pesi e misuri?

O come, armato la pupilla inferma

Di veggenti cristalli, al ciel li appunta

Con alto ardir, gli astri gelosi esplora,

E, penetrando un oceán di fiamme,

Strappa ai templi del Sol gli ardui misteri?

La terra, il mar, l'aria sonante, il cielo,

Tutto ha l'orma di lui, tutto gli cede

Riverente il governo. Un sol, sol uno

Maligno error nei regni suoi si ostina,

E quell'uno cadrà. Più forte io sento

Favellarmi l'amor; già di mortali

Forme il fantasma del cor mio si veste;

Ecco, il sento; ecco, il vedo. Oh! se a cotanto

Volo, per tanta via, per tanti affanni

L'uomo mortal contro a l'error si eresse,

Credi, non pur possibile e secura,

Ma vicina, imminente, agevol cosa

È la morte del Nume e il mio trïonfo!—

Disse, e giù per la china aspra e romita

Concitato avvïossi. Alto un saluto

Suonò l'antro profondo, e a lui d'intorno

Strana e gagliarda un'armonia si desta:

Ei viene, egli s'avanza;

Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;

Non firmamenti, o báratri,

Ma le tende de l'uom son la sua stanza.

Sorgete a lui d'intorno,

O sepolti ne l'ira; e voi, che fate

Traffico di terreni odî, dal vostro

Usurpato soggiorno

Levatevi! Tremate

Da la cortina dei venduti altari,

Voi, che potenti di menzogne, il foco

Del dissidio apprendete; e al reo costume

De le plebi insensate

Esca porgete, ed affilate acciari.

Raggio non ha di lume

La mente vostra, e non ha tetto o loco

Per voi la terra, abbenchè vasta. O fieri

Mastri d'insidie, o neri

Viventi covi di serpenti, o mostri

D'error pasciuti e d'uman sangue ingordi,

Ministri d'ira, apostoli d'errore,

A terra alfin; costui che viene è Amore!

Ei viene, egli s'avanza;

Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;

Non firmamenti, o báratri,

Ma le tende de l'uom son la sua stanza!

O derelitti e miseri

Figli devoti a povertà, reietti

Da splendidi banchetti,

Servi cenciosi a la spezzata gleba,

Che fertile e ridente,

Il molle ozio nutrìca

Di fastosa Ignoranza;

A voi dura e nemica

Madrigna, invidiosa

Pur d'un vil tozzo bruno

Che pugna duramente

Con l'affilato dente

Pria che sfami il plebeo fianco digiuno;

Schiavi, in piè, tutti in piè; quanti pur siete

Da le arene di Libia a la restía

Cuba, asilo di schiavi, e qual pur sia

Sotto al flagello de l'assiduo sole,

Crudo signore anch'esso,

Il color vostro e il crin. Schiavi, in piè tutti!

Parla cotal parola

Costui che vien, per cui,

De l'opre e degli affanni

Santificati a la feconda scola,

L'alma e la destra amica

Di provvida fatica,

Porger potranno tutti

De la finor vietata arbore ai frutti!

Ei viene, egli si avanza;

Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi!

Non firmamenti, o báratri

Ma le tende de l'uom son la sua stanza.

Voi, che in abietto e vile

Ozio distesi, il turpe viver molle

Annoverate dal fuggir de l'ore,

Schiavi imbelli del core

Vostro e d'altrui, larve patrizie, all'opra!

Tal giudice v'è sopra,

Che a nulla mai quanto a l'oprar perdona.

Nè del ceruleo sangue

Vi gioverà l'inclita stilla, o il caro

Peso di scrigno avaro,

Solo a capricci di lussuria aperto;

Nè, meno ignobil merto,

Le illustri opre dei padri: egro ed imbelle

Nipote da gagliardi avi discende,

Qual da la salma d'un illustre antico

Discende il vil lombrìco.

Industre ed ingegnosa

Gente, ai travagli del pensiero avvezza

Come ad opra di man, combatte ed osa

Assidua ed animosa,

Ed a mezzo il cammin mai non assonna.

Da le vulgari ed ime

Sedi s'inalza a mal contesa altezza,

E, rampogna sublime

Cui l'ozio ingombra e l'ignoranza opprime,

Sa ciò che vale, e di sè stessa è donna!

Tal suonava d'intorno al Pellegrino

Meravigliosa un'armonia, fra tanto

Che, incoronato di superba luce,

Sul superbo suo capo il Sol splendea.

Lucifero

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