Читать книгу Vita mondana - Memini - Страница 5
II.
ОглавлениеDiana era sola, nella sua vasta e bella camera da letto. — Sedeva al tavolino; su una seggiola poco discosta stava la sua valigia già fatta e già chiusa. La Contessa non recava seco che lo stretto necessario, il suo scrigno di fanciulla e pochi oggetti, esclusivamente suoi. S'era tolte dalle dita i ricchi anelli, dalle orecchie i grossi solitari donateli per le nozze. Non voleva nulla di lui. Di fronte a lei stava uno specchio ed ella guardava ogni tanto, come attratta da un fascino, la pallida faccia di quella sciagurata che, in un collo splendore dei celebri giojelli, stava per lasciarsi dietro, nella casa abbandonata, la intatta luce del suo passato, lo splendore della sua reputazione di donna onesta. Il suo volto pareva quello di una condannata, visto così nello specchio, nell'incerto chiarore del giorno che finiva anticipatamente, abbujato da una minaccia di temporale.
Pensò un istante se dovesse scrivere a suo marito. — Ma che dirgli? Accattare un pretesto? Muovergli dei rimproveri? No, tutto era inutile... tutto era un'aggravante dell'oltraggio! — Meglio, di gran lunga scomparire così, in silenzio. — E non solo per lui, ma per tutti.
Allora, ella pensò a sua madre.
Urtandosi a quell'immagine, il pensiero di Diana si smarrì, in un'agonia di spasimo. Ella ebbe il ricordo, rapido, vivo come una luce di lampo, dei giorni passati con sua madre, del suo amore, dei suoi precetti, del suo esempio. Vide quella bella testa bianca, immacolata, di vecchia e di signora, sentì l'intollerabile peso dello sguardo materno, sì amoroso e sì austero. Grosse goccie di sudore le irrigarono le tempie, ed ella strinse le mani tremanti, con una mossa forsennata.
Pensò alle sorelline... pensò a ciò che direbbero, quando fosse noto anche ad esse...
Si contorse, nell'eccesso dell'ambascia che invadeva e disse ad alta voce, come un'insensata: È impossibile.
Ma subito, le corse al pensiero che impossibile pure era il vivere senza Alberto, impossibile il ritrarsi dall'estremo partito cui l'era stato giuocoforza l'appigliarsi. Che fare, ora che lo amava, ora che aveva risolto di esser sua?
La vita sua non doveva forse appartenergli?
Doveva ella abbracciare l'altro partito, quello della colpa, quale ha corso nella società... la colpa plateale, sicura, ignobile, protetta dall'ignoranza del marito? Due tradimenti anzichè uno solo, il buon nome scroccato, l'impunità del giornaliero adulterio, quello che nulla toglie, nulla altera nell'esistenza di una donna?...
No... oh... non scender sì basso, non questo estremo fra i gradini dell'avvilimento, non questo vigliacco sistema d'impunità degradante! Ell'era già troppo caduta col cuore e col pensiero, per poter fermarsi sulla china, per poter tornare indietro, bisognava ora andare avanti così, ciecamente, tragicamente sino alla fine!
Pure... gran Dio! sua madre! Ebbe un nuovo sussulto spasmodico. — Ma disse stolidamente: Che farci? Si sentì impietrire e non pensò più ad alcuno, nemmeno ad Alberto, per non odiarlo!
Le fu recata la lucerna accesa, ma non appena fu sola, Diana abbassò il lucignolo, sì fattamente che non le tornò più possibile il distinguer bene gli oggetti famigliari, le fotografie incorniciate che si agglomeravano dovunque. Pure, le sentì ancora troppo vicine, si allontanò. Si recò sul balcone e stette inerte, senza pensiero, di fronte alla sera che calava, tormentata dal temporale in preparazione. Un venticello caldo, afoso, errava all'impazzata pel giardino e investendo il porticato, sollevava come uno spione i cortinaggi delle tende, rincorrendo sulla lucentezza marmorea del pavimento le foglie che vi aveva già spinte a suo diporto. L'immobilità delle cose circostanti era rotta ogni tanto da una specie di galvanismo fugace, inquieto, ingrato come un mal essere. Pure, nel boschetto lontano, una capinera trillava qualcosa di amoroso e di gajo. Tacque; quando venne la notte.
Verso le otto un facchino della prossima stazione venne alla villa. Recava un telegramma per la Contessa.
Essa lo aprì e lesse:
Morletta, ore 5 pomeridiane
Rezzano-Brianza.
Contessa Rezzano.
Perdoni, Illus.ma Signora Contessa, ma la prego di venir subito. Il Signor Conte è qui, sta malissimo e non sappiamo cosa fare.
La riverisco.
Luigi Lozza.
Per un istante Diana rimase come intontita.
Luigi Lozza, il fattore della villa della Morletta... E Leone era alla Morletta... Stava male! Moriva forse. Lui? Ma come... perchè? Era ammalato... ferito?... Le aveva scritto da Cecina venti giorni prima... stava benissimo, allora!
Per un momento, tutto, nel cervello di Diana fu confusione e disordine, un cozzo vertiginoso d'incertezze. Leone stava male... Bisognava dunque andar subito, telegrafare a Luigi Lozza, alla mamma — partire, scrivere. E Alberto... la promessa... l'amore?...
Sì compresse forte le tempia, frenò l'irruenza dei suoi pensieri, si sforzò a calmarsi ed a farsi un'idea precisa del dovere immediato. Vi pervenne, dopo un certo tempo. Rilesse, più calma, il dispaccio. — Poi, sedette allo scrittojo, mise il telegramma in una busta che sigillò e sulla quale scrisse distintamente: Marchese Alberto Mentana. — Suonò poscia e al domestico sopraggiunto impartì due ordini.
Di far recapitare quella lettera al suo destino nelle prime ore della domane.
Di far attaccare il coupè pel momento voluto onde condurla alla stazione per il prossimo treno serale, quello delle dieci. — Erano ormai vicine le nove e la trottata richiedeva mezz'ora di tempo.
La notte si fè buja, tempestosa e la piova cominciava a cadere quando l'oscurità della via, si vide corsa dalla luce fuggente di due fanali accesi. I cavalli avevano presa una rapida andatura. La signora aveva specialmente raccomandato al cocchiere di farla giungere in tempo per la corsa. E nell'interno della carrozza, Diana abbandonata sui cuscini, cogli occhi spalancati nel bujo, tentava di non pensare a nulla, di non ricordarsi di nulla, di non chiedere a se stessa che significasse tutto ciò, da che la salvasse quel telegramma.
Giunse in tempo e partì colla corsa delle dieci.
* * *
Nel lasciare la villa, il giorno prima e dopo quella brusca spiegazione con Diana, Alberto era, come abbiamo detto, fortemente in dubbio sull'epiteto che meglio lo avrebbe definito in quel momento. — Ma non lo fu certo la mattina susseguente, quando lesse il telegramma inviatogli da Diana. — Si morse forte le labbra e con mirabile candore di apprezzamenti si diè dell'imbecille; sonoramente!
Una collera brutale si fe strada in cuor suo, assieme al convincimento di aver giocata male, sbadatamente, la sua partita. Pensò all'occasione, ch'era venuta tante volte a cercar di lui e ch'egli non aveva mai afferrata. Non comprendeva più sè stesso, ora, nè la sua pietà cavalleresca, davanti a quel bizzarro intervento del destino che gliene strappava di mano, bruscamente, il compenso. Strano ma vero; egli era ora adiratissimo con Diana, la rendeva quasi responsale dell'accaduto, avrebbe voluto poterle fare scontare ad un tempo il disappunto acerbissimo dell'oggi ed il folle sacrifizio che la imperiosa determinazione di lei aveva imposto all'affascinata volontà di lui. — Ah! se gli capitava ancora fra le mani... colei!...
Non si arrestò col pensiero al vantaggio della folle impresa evitata, egli che aveva pure esitato ad acconsentirvi, sotto il fuoco stesso dagli occhi di Diana. — Ora non sentiva che la stizza rabbiosa del colpo fallito, l'aggiornamento della conclusione, fors'anche mal sicura, ormai. Battè il piede sul suolo.
Ah no... questo no... Ora ella gli sfuggiva e ben gli stava. Ma lo amava, questo era certo, egli aveva l'amore dalla sua. E la seconda volta; quella poi.
Gli occhi gli scintillarono in fronte, per l'intima energia dell'ingenerosa risoluzione.
Fece sfare il suo baule e rimase tranquillamente in casa, pensando al modo di aver notizie dirette ed immediate del suo carissimo amico, il conte Leone Rezzano.
* * *
La Morletta, una vecchia e trascurata villa di pianura, dove i Rezzano non solevano passare che una ventina di giorni d'autunno, profilava nella scialba luce del mattino, le linee della sua tozza architettura, quando una carrozzella, proveniente dalla prossima stazione si fermò davanti al portone socchiuso. — La casa pareva disabitata, le imposte erano chiuse. Il vetturino scese ed ajutò a scendere dall'interno, la signora che aveva condotta. Poi risalì in serpa e partì. La contessa Diana si guardò attorno, stanca del viaggio, sbigottita da quel silenzio, nell'attesa vaga d'esser presso a subire una grande scossa. Si spinse sotto l'atrio deserto, sotto il porticato, non trovò nessuno. Salì lo scalone lentamente, con un tremore crescente, che le rendeva difficile il passo. Sul pianerottolo s'incontrò con una contadina ch'ella non conosceva e che vedendola rimase a bocca aperta. La Contessa le si rivolse, trattenendola con un gesto imperioso.
— Ebbene?... chiese con angoscia profonda.
La donna spalancò i suoi stupidi occhi grigi.
— Io non so niente, rispose, sono forestiera, sono la sposa del fattore nuovo. Mi hanno chiamata per dare una mano in cucina. Andrò a domandare alla signora che è arrivata stanotte.
Diana ebbe un amaro sorriso.
— Ah!... una signora! No... chiama piuttosto il Luigi Lozza. Lo conosci?
L'altra accennò di sì.
— Bene, digli che...
Diana non prosegui. Un urlo formidabile giunto dall'appartamento interno echeggiò nella sonora vastità dello scalone.
— Oh Signore! sciamò la donna, lo sente?..-È lui, il signor Conte!
E scappò via, lasciando la Contessa sola, atterrita.
A quel primo tenne dietro una serie di urli potenti rabbiosi, l'espressione estrema di uno strazio fisico, manifestato da un uomo vigoroso ed intollerante. Ella ascoltava, inchiodata al suo posto dallo spavento e dal dubbio. Forse subiva un'operazione... forse era impazzito!...
L'uscio di fianco s'aperse a un tratto con impeto e la signora giunta nella notte corse verso Diana. — La signora era: sua madre.
Diana la guardò, colla pupilla dilatata, con un'interrogazione suprema dello sguardo. — No... no, disse la contessa Galli. Artrite — Dolorosissima, ma nessun pericolo.
Diana si accasciò alquanto su sè stessa. I suoi nervi, dopo la tensione di tante ore ebbero un subito rilassamento.
— Come sei pallida! disse amorosamente sua madre. — Poverina, hai viaggiato tutta la notte e con quello spavento! Figurati! Lozza ha mandato un telegramma anche a casa mia, dubitando che tu potessi esser meco. Son venuta subito col dottore. Qui avevano perso la testa, sentendolo fare quei strilli... Ma ti ripeto, sta di buon animo, non è che un attacco di artrite. Gli prese ieri, a un tratto. Sai... quelle benedette caccie in palude. Hai mangiato qualcosa, tu? Vieni, scaldati, riposati...
Diana si lasciò andare un istante, con un completo abbandono, sul petto materno. Le grida tacevano.
— Vieni, insistè dolcemente la contessa Galli.
Diana sollevò il capo, emise un profondo sospiro, poi disse quietamente: andiamo.
Leone tornava a strillare come un dannato.
Ma ella sapeva, ora, che suo marito non morrebbe.