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III.

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Un mese intiero alla Morletta, con sua madre e col marito ammalato. Venti giorni e venti notti di quegli accessi saltuari che lo facevano gridare come un ossesso e bestemmiare come un turco. Venti giorni di atmosfera soffocante in una camera chiusa, di silenzi cauti nelle fugaci ore del sonno di lui di attento studio dell'orologio, per non lasciar passare l'ora del salicilato o della veratrina, venti giorni di stretta vigilanza sui misteri della cucina e dispensa. Ma tutto ciò tornava facile a Diana.

Ell'era mirabilmente atta al disimpegno di quanto havvi di preciso, di determinato in un dovere od in una situazione. Quel tanto di suora di carità che la donna o quasi ogni donna, alberga in un cantuccio anche celato del cuore, s'era subito destato in Diana e per un momento, giganteggiando nell'anormalità stessa delle circostanze, aveva tutto assorbito nell'animo suo. — E fu quasi una tregua nelle mortali ambasce che la agitavano — Quel povero essere immobile, dimagrato, stecchito nel suo letto, che soffriva come un cane, non poteva muovere un dito e aveva d'uopo per nutrirsi che lo imboccassero, assumeva per Diana un aspetto inatteso e degno di pietà. Le pareva quasi un suo bambino, piccolo ed ammalato. E nel segreto dell'animo suo, con quel misterioso bisogno di espiazione che tortura e solleva a un tempo il cuore della donna, quando essa ha l'intuizione del bene che non può fare e del male che non dovrebbe fare, ella era istancabile nelle sue cure di infermiera, vi si dedicava con un ardore, una intensità di abnegazione senza pari, era veramente atta alla pratica del dovere verso una persona che soffre. — Povera donna!... soffriva tanto anch'ella, senza urlare!... Sua madre la secondava benissimo nella pia bisogna, cercando a volte di moderare quell'ardore di sacrifizio, meravigliandone a volta, traendone però buon augurio per l'esaudimento del suo più vivo desiderio, quello cioè di una completa riconciliazione fra sua figlia e suo genero.

Senonchè, all'acuta se non completa esperienza della contessa Galli non erano sfuggiti certi indizî che tradivano talvolta, in sua figlia, una preoccupazione propria e segreta, che colla malattia del marito non aveva nulla di comune. Certi scatti involontarî, certi sussulti nervosi, certi rossori subitanei e senza causa apparente, certi accasciamenti molli della persona, certi sguardi erranti dapprima e che si smarrivano poscia, arcanamente, verso un orizzonte lontano... Oh!... cos'era tutto ciò. Tentò di scrutare lontanamente l'animo della figlia, ma s'imbattè in una specie d'impenetrabilità, nuova affatto in Diana e che alla contessa Galli non piacque punto... Pensò a un'infinità di cose, poi le dispiacque di averci pensato. E se non fosse nulla? Se fossero ubbie le sue? Madre e figlia occupavano la stessa stanza, non si lasciavano mai, passavano intera la giornata nella camera di Leone. Nulla, assolutamente nulla, pareva giustificare nella mente della contessa Galli il vago sospetto concepito, un presentimento tutto materno di sventure intime che minacciavano sua figlia, di pericoli indefiniti, latenti che non era prudente accennare, per non suscitare una diffidenza che avrebbe potuto deludere la vigilanza. La madre pensava alla pace della propria gioventù, pace minacciata pure ai suoi tempi, ma vagamente, da lungi, salvata da una maternità faticosa ed assorbente. Ah!... se Diana avesse figli!...

Qui la buona Signora sospirava forte. Era la sua idea fissa, quella di diventar nonna.

A volte, invece, rimproverava a sè stessa quella sorda inquietudine sul conto di Diana. Ma che!... Diana era sua figlia... aveva dei principî così solidi, aveva ricevuta una educazione sì solida, sì austera! Ubbie! Diana sarebbe sempre la sua Diana!

Ora, tutto sarebbe andato forse a seconda dei voti della buona Contessa, se le cose si fossero prolungate all'infinito, nell'attuale loro andamento, colla madre e la figlia costrette al capezzale di Leone, e questi costretto come una mummia nella sua fasciatura, coi suoi versacci da condannato ad ogni crisi, colle sue sofferenze e colla sua spossatezza di malato. Ma le cose, invece, mutavano celeramente; l'artrite era vinta, gli accessi si facevano più rari e meno intensi, il dottore e il salicilato avevan fatto miracoli. Leone si sgranchiva, ricuperava ogni giorno un po' della sua forza.

Sentiva, con gioia inesprimibile di guarire, e di tornar lui... Il bimbo docile ed inerte veniva meno gradatamente, e invece sua si destava l'uomo, tornava, indocile, intollerante, padrone di se stesso e padrone di casa... Leone parlava ora molto, chiassosamente e nelle sue parole sopratutto finiva di morire il povero piccino infermo che Diana aveva cullato nelle braccia della sua fantastica maternità. Pure c'era un mutamento, ma un mutamento inatteso, terribile per lei. Leone si ridestava alla vita e con lui si ridestava un essere ch'ella aveva quasi scordato e creduto di poter scordare, si ridestava il marito. Leone guariva ed era più gentile, più premuroso per lei di quanto nol fosse mai stato. Dimostrava alla moglie una chiassosa gratitudine, conciliante, piena di buon umore. I suoi pensieri erano evidentemente modificati dalla circostanza, si foggiavano ad una specie di nuovo apprezzamento della famiglia, della vita coniugale, si volgevano verso un avvenire più normale del tempo trascorso. La malattia e le sofferenze avevano avuto un eccellente risultato pel morale di Leone, le sue idee s'erano alquanto modificate, egli non era cattivo in fondo e le cure di Diana non lo avevano lasciato indifferente. Ciò non sarebbe forse bastato per un mutamento quale avveniva nell'animo o meglio nella fantasia di quell'uomo, se la gratitudine non si fosse avvalorata in lui da uno di quei bizzarri capricci che si destano talvolta, a un tratto per una persona alla quale non s'era attribuito dapprima il potere di destarli. Sua moglie gli appariva sotto un aspetto nuovo, ed attraente. Sorprendeva in sè stesso una specie di ammirazione per lei, la facoltà di subire un fascino che non aveva sino ad allora avvertito. Le pareva mutata, con un'espressione più profonda, più calda, più appassionata. Quella specie di seconda vita che le tempeste intime del cuore impartiscono alla donna, avevano dato anche all'aspetto di Diana una specie di rilievo qualcosa irradiava, qualcosa misteriosamente da lei. Leone era tutto lieto della sua grande scoperta, si trovava in un certo modo il Cristoforo Colombo di sua moglie. Quando ella era sola in camera, egli fingeva talvolta di dormire, per poi tener gli occhi socchiusi e guardarla da lungi, come studiandola, nella sua stuzzicante novità di attrattativa.

Ella sentiva confusamente tutto ciò, l'osservazione dal quale era oggetto le arrecava un senso disgustosissimo di turbamento, un'irritazione disperata e ribelle. S'avvide ch'egli preferiva di gran lunga le sue alle cure della contessa Galli; piegandosi a prendere una medicina disgustosa, Leone attribuiva unicamente a sua moglie il merito della propria docilità! lo faceva soltanto per far piacere a Diana. — Una volta, mentre essa gli porgeva una tazza di stillato, le loro dita s'erano intrecciate attorno alla porcellana ed egli, con una leggera pressione, aveva per così dire, sottolineato quel contatto di un secondo. Ma quel secondo era bastato a rammentarle un caso consimile, a proposito di Alberto e di una tazza di the. Una trasfigurazione era passata sul suo volto, accompagnata da un violento rossore, nè tutto ciò era rimasto inosservato da Leone.

Ma non se ne inquietò, se ne compiacque anzi, in cuor suo e parve non avvertire la reazione di più sostenuta freddezza che Diana fe' tener dietro a quel muto incidente. — Leone conosceva molto le donne; non forse altrettanto la donna.

La convalescenza progrediva benone. Il conte di Rezzano s'alzava, moveva qualche passo e non si opponeva per nulla all'annunciata partenza di sua suocera.

Diana invece la combatteva con tutte le forze.

Supplicava, scongiurava... coprendo di baci quel caro vecchio volto... No, mamma, non andar via... rimani.

La contessa Galli si difendeva, commossa da quell'insistenza, non senza una vaga inquietudine di quel visibile terrore della solitudine, che si tradiva in Diana. Invano cercava dimostrarle la necessità di quella partenza, già più volte posposta, accampava la necessità di attendere alla propria casa, le due sorelle erano sole da un mese colla governante... gli affari... insomma, era impossibile!

Una volta Diana, nell'ardore delle sue istanze si lasciò sfuggire un: non lasciarmi, sì spaventato, sì angoscioso che la contessa Galli ne rimase davvero impensierita. Pensò che se non si batteva il ferro, subito, ora che era caldo, chissà quando sarebbe tornata l'occasione.

— Non ti lascio sola, cara Diana, le disse teneramente, ti lascio con tuo marito.

Diana si strinse le mani, con un gesto nervoso.

— Ma sai... sclamò... sai pure...

— Lo so... pur troppo... Ma non è possibile che abbia sempre a durare così.

Diana ebbe un brivido.

— Mamma, disse. Ma tu vorresti?...

Si arrestò, mordendosi a sangue le labbra.

— Vorrei solo questo, continuò la madre con grande dolcezza, che tu ti convincessi del quanto sia deplorevole, contraria alla normalità delle cose l'attuale vostra posizione.

— Non son io che l'ho voluta, ribattè Diana seccamente.

— Infatti. Ma sei la prima a subirne tutti gli inconvenienti.

Appoggiò alquanto sulla parola tutti, senza però cercarne gli effetti sul volto di Diana.

Procedeva lentamente, con grande cautela, sentendosi al buio e pur paventando la luce.

Diana tacque; come se non avesse più nulla a dire. Mandò un lungo sospiro, del quale la madre si allietò sinceramente. Un principio di rinunzia, forse, al tenace risentimento.

Ma Diana aveva sospirato, senza saperlo e solo per lo sconforto di non poter fare intendere la vera causa dei suoi terrori. Più volte avrebbe voluto confessarsi alla Contessa. Ma non osava, atterrita dalla severità dei loro comuni principî, dall'austerità della vita ch'ella aveva sempre condotto, dall'orgoglio di pura esistenza ch'ella sapeva riposto in lei da sua madre. Temeva di arrecarle un colpo troppo crudele, lasciandole vedere quanto ella fosse già calata nell'abisso. Temeva di udirsi a condannare, di vedersi aborrita e respinta.

Errore! Dio solo sa quanto può intendere e perdonare chi, pur lottando, non soggiacque! Ma Diana era giovane ed ignorava questo anche perchè aveva, in tutto, delle idee troppo logiche e per conseguenza, estreme.

Un giorno, sola in giardino, aveva veduto alzarsi dietro una siepe la pallida e tormentata faccia di Alberto. Non s'erano parlati, ma in quella rapida apparizione essa aveva trovata la conferma dell'immutato ed esigente amore di lui. No!... egli era sempre determinato, era quale le era apparso a Rezzano, nell'ultimo istante. — Aspettava.

E così; ella si sentiva presa tra due fuochi.

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