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CAPITOLO TRE

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Luna lottava. Con ogni briciolo di energia che riuscì a trovare in sé, cercava di combattere contro l’immobilità che le scorreva nel corpo, rendendola lenta, facendola fermare. Si trovava nel mezzo di Sedona, al centro di un gruppo di gente controllata, e la sua mentre gridava nello sforzo di tentare di impedirsi di diventare come loro.

Era come se il suo corpo si stesse trasformando in pietra, oppure… no, era più come se i suoi arti si stessero addormentando mentre lei all’interno era ancora sveglia. Non sentiva le punte delle dita, ma continuò a lottare. Si sentiva scivolare nello stato controllato, però, diventando sempre più prigioniera del proprio corpo a ogni secondo che passava. Era come se fosse in trappola dietro a un vetro, la sua personalità e la sua capacità di controllarsi trasformati in qualcosa da mettere in mostra in un museo costituito dalla sua carne e dalle sue ossa.

Il mondo stesso le appariva come se stesse guardando attraverso un vetro stranamente filtrato, con i colori che mutavano in modo tale che tutto ciò che Luna osservava aveva una strana opacità lattiginosa, e nuove tinte apparivano al limitare del suo campo visivo. Luna non aveva bisogno di uno specchio per sapere che le sue pupille doveva essere di un bianco vivo ormai, e odiava quella condizione.

Continuerò a lottare, disse a se stessa. Non mi arrenderò. Kevin ha bisogno di me.

Nonostante la sua determinazione, era difficile ignorare il fatto che le sue braccia e le sue gambe non ne volessero sapere di fare ciò che lei ordinava loro. Luna se ne stava semplicemente ferma lì, proprio come tutti gli altri che le stavano attorno a Sedona, immobile come una marionetta inutilizzata, incapace di fare nulla di più che sbattere le palpebre e respirare.

Si sforzò di fare di più. Si concentrò sul dito mignolo della mano destra, imponendogli di raddrizzarsi. Parve muoversi dolorosamente piano, ma si mosse. Si mosse! Cercò di muovere l’anulare, concentrandosi su ogni giuntura, su ogni muscolo…

Gridò interiormente quando vide che non succedeva nulla.

Almeno Kevin era scappato. Luna lo aveva visto sgattaiolare in mezzo ai ranghi dei controllati e salire su una delle navi. Aveva visto lui e Chloe risucchiati all’interno, e questo l’aveva fatta preoccupare ancor più rispetto a quanto stava succedendo a lei.

Devi lottare, ripeté a se stessa. Kevin è incastrato su una nave spaziale aliena senza di te. Sai che si metterà nei guai da solo, e non di certo in guai divertenti.

Ovviamente Kevin non era da solo, ma quel pensiero non migliorava le cose. Non era che Luna odiasse Chloe o niente del genere, ma era piuttosto evidente che Kevin le piaceva e… beh… piaceva anche a lei. Era strano come questa cosa fosse più facile da ammettere ora che la sua mente era occupata ad essere controllata dagli alieni, ma era così. Forse perché sapeva che nessuno lo avrebbe scoperto.

Aveva cercato di farglielo capire un sacco di volte in passato, anche se non era mai sembrato arrivarci. Forse era una cosa dei maschi, o forse era solo una cosa da Kevin: abile nel capire i messaggi che venivano da un’altra galassia, ma privo delle stesse qualità davanti a lei. E ora si trovava dentro a una navicella aliena insieme a Chloe, e anche se non erano esattamente soli, Luna era decisamente convinta che gli alieni non si potessero contare. Anche se non fosse successo niente, Luna non era comunque sicura che Chloe fosse la persona giusta per portare Kevin indietro sano e salvo. Certo, aveva dato una mano ad aiutare anche lei sulla barca, ed era capace di accendere una macchina con i cavi, ma non era proprio la stessa cosa che dirottare una navicella spaziale. E Luna non era sicura che non sarebbe andata nel panico quando le cose fossero girate per il verso sbagliato.

Poi le cose girarono per il verso sbagliato, e Luna poté vederlo chiaramente.

Un momento la nave madre aliena si trovava sospesa come una luna in cielo, l’attimo dopo il cielo attorno ad essa si increspò e lampeggiò, come se lo spazio fosse uno stagno dove qualcuno aveva gettato un sasso. La nave madre iniziò ad allontanarsi, la sua ombra che attraversava lentamente il cielo. Ci fu un momento in cui lo spazio in cui si trovava parve avvolgersi attorno ad essa, e poi era sparita, spostandosi tanto velocemente che per Luna fu impossibile seguirla.

Per un breve momento la speranza si accese in lei. Era finita? Kevin era salito sulla piccola navicella al di sopra di Sedona, e quella era salita fino alla navicella madre, ed entrambe erano sparite. Kevin aveva trovato un modo di mettere fine a tutto questo? Lui e Chloe li avevano salvati tutti?

Luna tentò di muovere un braccio, sperando più di ogni cosa di poterlo fare, ma non accadde nulla. Non era cambiato niente.

Il guaito di un cane accanto a lei colse la sua attenzione. Lì c’era Bobby, il cane da pastore, che ora le stava spingendo il naso contro la gamba in un modo che avrebbe anche potuto farla cadere in condizioni normali, prima che i controllati le soffiassero in faccia il vapore. Ma in quel momento, Luna rimase invece solida come la pietra, immobile e incapace di spostarsi, non potendo neanche reagire quando lui le annusò la mano leccandola con la grossa lingua bagnata.

Bravo, pensò Luna, e cercò di dirlo, senza però riuscire a tirare fuori il suono dalla gola. Non poteva neanche accarezzarlo, e questo le fece capire quanto controllo gli alieni avessero ormai su di lei. Bobby la spinse ancora con il naso, poi si allontanò di corsa come ad aspettarsi che lei lo seguisse. Quando vide che non aveva ottenuto alcuna reazione, si distese piagnucolando e guardandola con occhi tristi.

Mi spiace, Bobby, pensò Luna, ma non poteva comunque dirglielo.

Non era l’unica cosa per cui si sentiva dispiaciuta. Attorno a lei poté vedere i motociclisti di Capopolvere fermi come tutti gli altri. Vedeva Orso che spiccava con la sua imponenza sul resto del gruppo, tutto il senso di forza e comando eliminato dalla sua trasformazione. Vide poco più in là Lupetto che la fissava con sguardo vuoto, mentre prima si era dimostrato così sicuro di sé e addirittura interessato a lei.

Siete ancora là dentro? si chiese dalla prigione della propria mente. Tutti coloro che erano stati trasformati si trovavano in trappola in quel modo? Erano lì seduti dietro al bianco candido delle loro pupille, inorriditi mentre gli alieni controllavano ogni movimento che facevano? Luna non sapeva se sperare che Lupetto non dovesse soffrire tutto questo, o invece sì, perché almeno avrebbe voluto dire che era ancora presente, e che almeno c’era una minima possibilità di riportarlo indietro.

Quale possibilità? pensò tra sé e sé. Che speranza c’era per tutti loro? Nessuno era tornato indietro da quella condizione fino ad ora. Gli alieni avevano trasformato la maggior parte del mondo, e la gente che veniva trasformata restava trasformata. Non era come amare la band sbagliata, non era una cosa che si poteva esaurire se la si trascinava troppo a lungo.

Ora Luna poteva sentire dei rumori provenire dal fondo della propria mente. Riconobbe le interferenze e gli scatti, i suoni statici e i ronzii, perché li aveva sentiti ormai tantissime volte, quando Kevin traduceva i segnali alieni. Luna poté sentirli come se fosse la loro lingua, anche se non aveva idea di cosa significasse.

Poteva non saperlo, ma il suo corpo parve comprendere. Luna sentì che iniziava a muoversi, mettendosi in formazione con le altre persone, come una sorta di unità militare. Non sapeva chi stesse dando loro gli ordini, dato che la nave aliena principale se n’era andata. Forse qualcuno degli alieni era rimasto a terra.

Non aveva importanza: chiunque le stesse dando degli ordini, Luna si trovò ad obbedire. Iniziò a marciare insieme agli altri, sparpagliandosi in mezzo alle macerie di Sedona, iniziando a sollevare detriti e a entrare nelle case.

A Luna pareva di osservare la scena da lontano, guardandosi mentre sollevava rocce e tirava via pezzi di legno a mani nude. Si vedeva al lavoro insieme a Lupetto e agli altri, tutti impegnati a ripulire la città con la meticolosità di formiche che tagliano delle foglie o di avvoltoi che dilaniano la carcasse di un animale.

Sentì Bobby che abbaiava ancora e se lo ritrovò di nuovo al fianco. Il cane guaiva e le correva attorno come a poterla distrarre da ciò che stava facendo. Le leccò ancora la mano, poi strinse i denti dolcemente attorno al suo braccio. Non lo fece con forza, ma più come avrebbe fatto con un cucciolo ribelle per rimetterlo in riga.

Bobby era forte e probabilmente pesava quasi quanto lei, ma Luna andò dritta avanti come se non fosse neanche lì. Continuò a lavorare, raccogliendo materiali e impilandoli in mucchi, dividendoli con l’efficienza di una macchina.

Luna vide tagli e graffi che iniziavano ad apparire sulle sue braccia per lo sforzo di spostare i materiali, ma non sentì alcun dolore. I suoi arti erano insensibili come se li avesse lasciati per un’ora immersi nel ghiaccio, il dolore isolato da strati di controllo alieno.

Luna ora poteva sentire quel controllo mentre Bobby continuava ad abbaiare e correrle attorno. Poteva percepire ciò che volevano che lei facesse, e lottò per ribellarsi, la piccola parte di lei che ancora era cosciente, inorridita dalla situazione, anche se il resto di lei continuava a raccogliere un’altra roccia.

No! ordinò a se stessa. Non lo faccio! Non lo faccio!

Lottò contro gli impulsi con ogni fibra del suo essere, tirando contro le proprie braccia con tutta la forza di volontà che prima aveva avuto tanto successo contro ogni cosa, dalle istruzioni dei suoi genitori al tumulto dell’oceano. Ma era troppo, come tentare di tenere indietro a mani nude il peso di una valanga. Con un grido interiore di disperazione, Luna sentì che la valanga le si riversava addosso.

Si girò e lanciò la pietra contro Bobby, piangendo mentre lo faceva.

Il cane guaì, poi si allontanò piagnucolando e zoppicando leggermente da una zampa. Luna lo vide ritirarsi al limitare degli edifici ai quali stavano lavorando, sdraiarsi e guardarla con occhi disperati che corrispondevano a ciò che lei stessa provava in quel momento.

Ma quello che Luna provava non aveva importanza, non di fronte alle istruzioni degli alieni. Non importava quanto la sua mente fosse schiacciata oltre i confini della gabbia che la costringeva: la prigione del suo corpo continuava a lavorare, sollevando e strappando, separando materiali e impilandoli pronti per la raccolta, anche se la navicella sopra a Sedona ora era andata via.

Cercò di contare i minuti che passavano, cercò di tenere traccia del tempo che stava scorrendo, ma non era semplice farlo. Il suo corpo manteneva i suoi occhi fissi sul lavoro che stava facendo, non sulla posizione del sole, e se era stanca o aveva fame, non lo sentiva. Nei più profondi recessi della sua mente, Luna ora capiva come facessero i controllati a essere tanto veloci e forti: non si curavano del dolore o della stanchezza che avrebbe fermato la maggior parte della gente comune. Laddove la maggior parte delle persone si fermavano per aver raggiunto i propri limiti, i controllati erano spinti per tutto il tempo oltre quegli stessi limiti dagli alieni che li comandavano.

Che ci comandano, si corresse Luna.

Non voleva pensare a se stessa come a una di loro, ma non era sicura di come distrarsi da tutto ciò. Non poteva chiudere gli occhi per isolare tutto fuori. Il più che poteva fare era tentare di restare aggrappata ai ricordi della sua vita prima di questo: stare seduta sulla riva del lago con Kevin quando le aveva detto della sua malattia, andare a scuola e… e…

Si aggrappò a un ricordo, pensando a un giorno in cui avrebbe dovuto incontrare Kevin dopo scuola. Avevano programmato di andare in una pizzeria all’angolo, poco distante da casa loro. Poteva ricordare la sensazione, come era stato camminare per la loro città, passando per un posto che era loro e basta, un luogo di cui nessuno sapeva, dietro a una delle recinzioni di legno che circondavano una vecchia casa dove nessuno viveva da anni.

Andare lì significava arrampicarsi su un vecchio albero che teneva libero un passaggio in mezzo a una catasta di vecchie cianfrusaglie, poi correre sulle tavole di un basso tetto, mettendo i piedi nei punti giusti per evitare di caderci attraverso, e nel frattempo controllando per tutto il tempo di non farsi vedere da nessuno che potesse gridare loro dietro per essere in un posto dove non avrebbero dovuto stare.

In altre parole, era esattamente il genere di cose che Luna adorava fare. Aveva percorso le tavole con il genere di velocità e determinazione che probabilmente avrebbero fatto sospirare i suoi genitori se l’avessero vista. Mentre correva si era trovata a pensare a Kevin, chiedendosi se oggi sarebbe stato il giorno in cui si sarebbe presentato chiedendole se poteva baciarla.

Forse no: era capace di dimostrarsi piuttosto ignaro delle cose a volte.

Aveva attraversato i giardini, arrivando al punto in cui lei e Kevin dovevano incontrarsi. Aveva sentito un rumore venire da dietro la recinzione, e aveva visto Kevin con un paio di altri ragazzi mai visti prima.

“Cosa ci fai qua dietro?” chiese uno dei due. “Nascosto in modo che nessuno possa trovarti?”

“Non mi sto nascondendo,” insistette Kevin, e Luna immaginò che fosse la cosa peggiore che avesse potuto fare.

“Stai dicendo che sono un bugiardo?” gli chiese il ragazzo. Diede una spinta a Kevin, mandandolo addosso a un muro. “Mi stai dando del bugiardo?”

Luna era scivolata nel passaggio in mezzo alla recinzione. “Sì,” aveva risposto. “Sto dicendo che sei un bugiardo, e un bullo, e se mi dai un paio di secondi, probabilmente mi verranno in mente un sacco di altre cose antipatiche con cui chiamarti.”

Il ragazzo si era girato verso di lei. “Farai meglio ad andartene di corsa. Questa è una faccenda tra me e lui.”

“E il tuo amichetto, non dimenticartelo,” aveva risposto Luna.

“Fai la furba solo perché pensi che non le darei a una ragazza! Beh…”

Luna gli aveva dato un pugno sul naso, soprattutto perché si stava stancando ad aspettare che quello sbruffone facesse qualcosa. Il ragazzo aveva ringhiato e si era messo a rincorrerla. Ma lei era scattata via velocissima.

Non lo aveva ricondotto verso dove era venuta, perché quella era una sua strada, ma conosceva tanti altri posti. Per puro divertimento era passata in mezzo a un giardino dove c’era sempre la piscina piena, e aveva sentito uno splash alle proprie spalle quando uno dei ragazzi non era riuscito a fermarsi in tempo. Da lì Luna si era arrampicata su uno dei tetti vicini, poi aveva proseguito verso il parco, entrando in un giardino dove viveva un grosso cane rabbioso, attenta a camminare solo negli spazi che erano fuori dal raggio della sua catena. Un ringhio e un grido di paura dietro di lei le avevano fatto capire che anche il secondo ragazzo era finito in trappola.

“Ti prenderò!” le aveva gridato.

Luna si era messa a ridere. “Però dovrai spiegare alla gente come sono riuscita a darti un pugno sul naso e a passarla liscia!”

Era tornata di corsa verso Kevin, che la stava aspettando con la sicurezza di qualcuno che aveva già visto quel giochetto.

“Sai, avresti potuto prenderlo,” gli disse, cercando di apparire duro.

Luna riuscì a non ridere. “Ma è più divertente così. Andiamo, puoi pagarmi la pizza per averti salvato.”

“Ma non mi hai salvato. Avrei potuto prenderlo…”

***

Luna sorrise al ricordo, o lo avrebbe fatto se fosse stata capace di muovere la faccia. Cercò di pensare al nome del bullo, perché era certa di conoscerlo. Ma quale bullo? A cosa stava pensando un secondo fa? Il fatto di non poterlo ricordare la fece fermare inorridita. Ci stava pensando solo un momento fa, e ora era sparito, come… come…

Luna cercò di afferrare i ricordi, ci provò davvero. Sapeva di avere dei ricordi, un’intera vita di memorie. Aveva amici, e una vita, e dei genitori… ovviamente aveva dei genitori, quindi perché non riusciva a ricordare i loro volti? Forse non aveva dei genitori. Forse tutto questo era solo un gioco malato. Forse lei era sempre stata così, ed era solo in qualche modo difettosa, convinta di essere stata diversa come distrazione dal lavoro che gli alieni volevano farle…

No, pensò Luna con forza. Io sono io. Sono Luna. Mi hanno trasformata loro, e ho dei veri ricordi… da qualche parte.

Però non era sicura di dove fossero. Ogni volta che tentava di afferrare quello che sembrava essere l’inizio di un ricordo, quello le scivolava via in una grande nebbia di pensieri che parevano consumare ogni parte di lei. Luna cercò di trascinarsi fuori da quella nebbia, ma quella avanzava sempre più attorno alla propria coscienza, riempiendo ogni cosa, portando via piccoli pezzi di ricordi, di parole, di personalità.

All’improvviso vide qualcosa. Era semplicemente tanto diverso dal resto da risvegliarla, anche se solo per un secondo.

C’era un uomo che si stava avvicinando. Avanzava senza paura. Un uomo vero. Non controllato.

Come poteva essere?

Laddove Luna e gli altri si muovevano con sincronia quasi meccanica, lui avanzava a piccoli scatti furtivi, tenendo in mano quella che sembrava una pistola.

Non sembrava un soldato però. Assomigliava più a un pirata incrociato con un professore. Aveva i capelli spettinati e arruffati, una mezza dozzina di orecchini su un orecchio e gli inizi di una barba. Indossava una giacca in tweed e una camicia con dei jeans e scarponcini da montagna. Non indossava una maschera, e la cosa non aveva per niente senso.

Luna si spostò andandogli incontro, le mani che si allungavano per afferrarlo, tanto veloce che lui non poté neanche saltare indietro. O forse era semplicemente che non voleva neppure provarci. Anche se lui era un adulto e lei solo una ragazzina, Luna aveva sufficiente forza da tenerlo fermo mentre la sua bocca si apriva sempre più e una grande nuvola di vapore le usciva dalla gola. Sentendosi quasi in colpa, Luna soffiò il vapore verso l’uomo, avvolgendolo in una nube tanto densa da farlo tossire.

Luna fece un passo indietro. Era evidente che gli alieni che la controllavano stavano aspettando la trasformazione. L’uomo rimase fermo, sollevando la pistola che teneva in mano, e Luna provò un’ondata di paura. Magari non avrebbe provato dolore, ma era piuttosto sicura che se qualcuno le avesse causato sufficienti danni, sarebbe potuta comunque morire. Per un momento si trovò a pensare che il vapore che aveva esalato si impossessasse di lui prima che potesse sparare. Non voleva morire. Poi si sentì in colpa per averlo anche solo pensato. Non avrebbe dovuto augurare a nessuno una cosa del genere.

Ma la pistola non sparò.

Ne uscì invece una nuvola di vapore verde-blu che si riversò nei suoi polmoni a ciascuno respiro. Lei fece per allungare le mani e deviare il getto della pistola, e probabilmente per fare a lui lo stesso, ma accadde una stranezza quando le sue braccia si erano sollevate solo di metà.

Luna si fermò.

Con un movimento unico rimase immobile sul posto, il battito cardiaco che si faceva sempre più forte. Sentì il mondo che le ruotava attorno.

Cadde involontariamente in ginocchio. Sentì la pelle che si sbucciava contro il terreno duro, lo sentì sul serio, e la sensazione si presentò simile a quando il sangue riprende a scorrere in una gamba o in un braccio dopo che sono stati intorpiditi. Faceva male, e Luna gridò.

Non ci poteva credere.

Era tornata.

Era di nuovo se stessa. Non era più controllata.

Scavò nei propri ricordi per accertarsi che fossero lì, che non fossero andati perduti per sempre. Immaginò il volto di Kevin, e i suoi genitori come erano stati nel primo compleanno che poteva ricordare. Fece un sospiro di sollievo, e non solo per se stessa. Significava che la gente che era stata trasformata non era perduta.

Avrebbe voluto gridare di gioia. Abbracciare quell’uomo e non lasciarlo andare più.

Lo fissò meravigliata.

Lui le sorrise curioso, in modo quasi accademico.

“Cavolo,” disse, “sembri rispondere molto più velocemente degli altri soggetti con cui ho provato. Oh, perdonami, che maniere. Mi chiamo Ignazio Gable. Il vapore che hai appena respirato è un vaccino che ho creato per controbattere agli effetti del controllo alieno. Dovresti avere a breve il pieno controllo di te. Ora immagino che avrai un sacco di domande su cosa stia succedendo, ma non siamo esattamente nel posto giusto per chiacchierare, qui. Quindi, a meno che non vogliamo farci ammazzare tutti e due, ti suggerisco di venire con me.”

Luna sbatté le palpebre, stupefatta, e seguì il suo sguardo, vedendo un sacco di gente controllata che si avvicinava a loro.

“ORA!” gridò l’uomo.

I controllati iniziarono a calare su di loro in gruppo. Luna li guardò avvicinarsi nel tentativo di afferrarli. L’uomo li spruzzò con la pistola, ma per gli altri non parve funzionare.

Luna corse in avanti, lanciandosi nella folla e scivolando negli spazi liberi, approfittando della sua piccola statura, passando sotto le braccia e tra le gambe, afferrando il braccio di Ignazio senza lasciarlo più andare.

Luna scorse Lupetto e Orso, e il resto dei motociclisti. Quindi afferrò la pistola e ruotò su se stessa.

“Cosa stai facendo?” gridò Ignazio allarmato.

Lei spruzzò una nuvola di vapore che iniziò a rallentare i controllati che la circondavano, arrivando a Lupetto e a Orso e a tutti gli altri.

“Andiamo,” disse tenendo il dito sul grilletto. “Cambiate!”

Luna vide Lupetto sbattere le palpebre alla luce del sole, allungando le mani e fissandole.

Poi si guardò attorno fino a che vide Bobby nascosto all’ombra di un edificio e tese una mano verso di lui.

E poi si girò insieme agli altri e si mise a correre.

E non si fermò.

l’Ascesa

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