Читать книгу l’Ascesa - Морган Райс, Morgan Rice - Страница 9

CAPITOLO UNO

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Kevin fissava inorridito la piccola navicella che trascinava lui e Chloe all’interno, sentendosi completamente impotente mentre entrambi salivano nel fascio di luce. Penzolavano sospesi nell’aria, ruotando inermi su loro stessi mentre la navicella li tirava su.

Era stato così certo di poter fermare gli alieni usando il virus che avevano preso dalle fosse di catrame, ma gli alieni avevano rimandato indietro la fiala vuota, quasi con disprezzo.

Ma quello non era il peggio. La cosa peggiore era che Luna non c’era più. L’avevano trasformata in una di loro, e questo faceva male a Kevin, ben più di quanto avrebbe mai creduto possibile.

Chloe gridava accanto a lui mentre salivano, roteando nell’aria come se non ci fosse più alcuna cognizione di sopra e sotto. Kevin poteva percepire la sua paura, ma anche la rabbia.

Il metallo si chiuse attorno a loro ed entrambi caddero sul pavimento della piccola navicella che li aveva risucchiati. Kevin si sforzò di mettersi in piedi, preparandosi e in parte aspettandosi di essere attaccato da qualche forza aliena.

Invece si trovò nel mezzo di una grande stanza rotonda con le pareti bianche. C’era una sorta di portellone circolare sul pavimento che sembrava potersi aprire e richiudere come l’obiettivo di una macchina fotografica. Poi nient’altro.

Chloe si avvicinò a una delle pareti e vi picchiò contro un pugno.

“Kevin, cosa facciamo adesso?”

Kevin avrebbe voluto avere una risposta. Ma dopo tutto quello che era successo là sotto, non pensava di poter più avere risposte in generale.

“Non lo so,” disse.

Chloe colpì la parete un’altra volta e il colpo risuonò sordo all’interno.

“Chloe, questo non…”

Improvvisamente si trovarono sospesi nell’aria. La parete era ora un vetro trasparente che faceva vedere chiaramente a Kevin la città di Sedona che si allontanava sotto di lui, e la grossa navicella sopra di loro, verso la quale si stavano dirigendo.

Da quella distanza ravvicinata, Kevin poteva vedere la porta – molto simile all’antro di una caverna – aperta per accoglierli, permettendo alla navicella di entrare in quello che doveva essere un hangar. Si sentì il fruscio di qualcosa quando vi passarono attraverso, un qualche scudo o membrana che si trovava lì per mantenere l’atmosfera al suo posto.

“Incredibile,” disse Chloe sussultando.

Kevin non poteva non essere d’accordo. L’hangar era tanto grande da poter contenere decine di navicelle, tutte connesse a delle passerelle. Anche la loro navicella si attaccò a una di esse.

Si fermarono di scatto e una sezione della parete scivolò lateralmente, rivelando una porta aperta.

Kevin e Chloe si fissarono tra loro. Perché nessuno andava loro incontro? Perché nessun attacco?

“Quindi vogliono che usciamo?” chiese Chloe. “Perché non ci hanno ancora uccisi?”

Kevin si stava chiedendo le stesse cose.

“Forse è una trappola,” disse.

Chloe si mise a piangere.

Kevin le posò una mano sul braccio. Sapeva quanto la situazione potesse peggiorare, e si trovava combattuto tra i sentimenti di preoccupazione per Chloe e dubbio per ciò che sarebbe potuto succedere loro. Perché erano soli? Perché non c’erano degli alieni ad aspettarli, come avrebbero fatto dei poliziotti o dei soldati?

“Dobbiamo uscire?” chiese Kevin. “O restare qui?”

Chloe lo guardò.

“Nessuna delle due opzioni mi sembra sicura,” disse.

Con sorpresa di Kevin, Chloe andò verso l’apertura, e lui la seguì. Ma improvvisamente si fermò, andando a sbattere dritta contro qualcosa. Era un’illusione: una parete trasparente che le impediva di andare oltre, pur consentendole di guardare fuori.

Poi la piccola navicella si mise nuovamente in movimento, lentamente, in mezzo all’enorme hangar.

Kevin si portò accanto a Chloe e guardò meravigliato insieme a lei. L’hangar era enorme e con i contorni arrotondati, le pareti che sembravano pulsare di potere. Ma oltre a file e file di navicelle, lo spazio era vuoto.

Non c’era gente catturata, niente macchinari in funzione né alieni.

“Dove sono tutti?” chiese Chloe, dando voce ai suoi pensieri.

Kevin non rispose, perché era troppo impegnato a guardare verso la Terra. Sedona era sotto di loro, apparentemente molto vicina, ma allo stesso tempo penosamente lontana.

“Perché non stiamo precipitando verso il basso?” si chiese a voce alta.

Chloe lo guardò accigliata, si diede un’occhiata attorno e poi scrollò le spalle. “Non lo so. Magari la gravità funziona in modo diversi qui. Sono contenta che non stiamo cadendo, comunque.”

Anche Kevin era contento di questo, perché sarebbe stato davvero un bel volo. Gli ci volle un po’ per rendersi conto che sembrava che si stessero allontanando sempre più a ogni minuto che passava, retrocedendo poco alla volta, gli edifici che si facevano più piccoli, fino a che Kevin non poté più distinguerli.

“Ci stiamo ancora muovendo!” disse. “Stiamo andando verso lo spazio!”

Nonostante tutto, nonostante gli orrori che avevano inflitto al mondo e al pericolo in cui probabilmente ora si trovavano, nonostante il fatto che non erano riusciti a distruggere gli alieni, Kevin doveva ammettere di sentirsi in parte emozionato. L’idea di andare effettivamente nello spazio era quasi troppo incredibile da credere.

“Sarebbe una figata, se non fosse per il dove stiamo andando,” sottolineò Chloe.

Kevin poteva sentire la paura nelle sue parole, e in parte la provava pure lui. Se stavano andando verso l’alto, allora c’era solo un posto dove potevano essere diretti, e sicuramente era un posto pericoloso per tutti e due. La nave madre era sospesa sopra di loro, la sua superficie rocciosa punteggiata da torri che somigliavano a punte, ma quasi del tutto vuota per il resto.

Faceva paura, ma poteva anche darsi che fosse la loro migliore opportunità di riuscire effettivamente a fare qualcosa per tutta quella situazione.

“So che hai paura,” disse Kevin. “Ma non c’è nulla che possiamo fare per fermare questa cosa. E guarda l’aspetto positivo: non siamo riusciti a fermarli sulla terra, ma magari qui ci riusciremo.”

Chloe ridacchiò sarcastica. “Come?”

Kevin scrollò le spalle. Ancora non lo sapeva. Doveva esserci un modo. Magari c’era la possibilità di bloccare le cose che gli alieni stavano facendo. Magari c’erano modi per depistarli, o lottare contro di loro, o addirittura ucciderli.

“Dobbiamo provare,” disse Kevin.

Non poteva fare a meno di pensare a Luna. Ciò che le era successo era molto peggio che essere trasportato all’interno di una qualche navicella aliena.

Rimasero lì in silenzio, guardando la Terra che diventava sempre più piccola sotto di loro. Presto fu delle dimensioni di un’anguria, poi di una palla da baseball, poi di una biglia in mezzo al cielo notturno.

Kevin si girò e guardò la navicella madre. Non si era reso conto prima di quanto fosse grande il mondo alieno, e fu solo quando il mezzo virò e si spostò nello spazio che ebbe una reale idea di quanto fosse enorme.

“È proprio un mondo,” disse Kevin, incapace di trattenere la meraviglia dalla voce.”

“Questo lo sapevamo,” disse Chloe. Era lassù in cielo.”

“Ma proprio un mondo…”

C’era una differenza tra vedere qualcosa in lontananza ed esserci davanti. Come con la luna, Kevin avrebbe potuto coprire la navicella madre con il palmo della mano da terra, ma ora che si trovavano lì, essa si dispiegava lunghissima in ogni direzione. Sulla superficie c’erano delle strutture, anche se per la maggior parte appariva desolata e vuota, solo con le torrette giganti che spuntavano come spine di un porcospino. C’erano anche delle aperture che sembravano fauci, tanto grandi che anche una navicella come quella in cui si trovavano avrebbe potuto passarci. Kevin non poteva immaginare cosa avesse potuto scavare aperture come quelle su quel mondo, ma ora aveva cose più importanti a cui pensare.

“Penso che stiamo per entrare,” disse Kevin. E non intendeva solo in un mondo, ma all’interno di esso, oltre il guscio esterno della sua superficie.

Chloe non sembrava per niente felice di fronte a quella prospettiva. “Saremo in trappola. Non troveremo mai un modo per uscire.”

“Invece sì,” la rassicurò Kevin.

Doveva crederlo. L’alternativa era pensare che stavano andando incontro alla loro morte, mentre la navicella che li trasportava saliva all’interno della superficie del mondo…

… entrandoci.

Kevin fissava la scena. L’interno della navicella madre era come un guscio vuoto, e dentro c’era tutto ciò che Kevin avrebbe pensato di vedere sulla sua superficie. Oceani e masse di terra, veicoli che andavano avanti e indietro e città così grandi da occupare ogni centimetro di terreno a disposizione, trasformando l’intera grande navicella in un gigante alveare brulicante di attività. Dei pinnacoli si ergevano da diversi punti della grande città, dorati e luccicanti, come palazzi che si stagliavano in mezzo al resto. Un’enorme sfera oro-rossiccia pulsava al centro del pianeta, emanando luce e calore.

A Kevin parve di vedere delle figure in basso, ma erano troppo lontane per distinguerne i dettagli.

“Alieni,” disse Chloe, guardando a sua volta. “Non gente controllata da loro, non messaggi, non le loro voci… alieni.”

Kevin sapeva cosa intendesse dire. Per tutto questo tempo, avevano avuto solo degli accenni dell’esistenza degli alieni, avevano visto solo gli effetti di ciò che potevano fare. Ora si trovavano nel mondo degli alieni, e ce n’era così tanto.

Sentirono il rumore dell’atterraggio quando la navicella su cui viaggiavano andava a posarsi sul terreno, dando loro completa visuale su una città in cui creature di ogni forma e dimensione camminavano a strane angolazioni, apparentemente messe trasversalmente o con la testa all’ingiù, contro ogni legge della gravità. O forse avevano loro stesse il controllo della gravità, così che ogni posizione poteva risultare per loro quella corretta.

Questa volta la porta di aprì davvero. Kevin poté sentire la leggera brezza n viso, tiepida e mite, pregna di un odore mai sentito.

La cosa che lo sorprese di più, però, era ciò che li aspettava dall’altra parte.

Un terzetto di figure era lì in piedi, tre individui pronti ad accoglierlo.

Erano quasi identici, cosa che agli occhi di Kevin pareva quasi impossibile in quel posto. Erano alti e senza capelli, con la pelle pallida e occhi che gli ricordavano quelli delle vespe, eccetto per il fatto che erano di colore bianco candido. Indossavano delle lunghe tuniche sopra a una tuta da ginnastica chiara, e sembravano avere addosso un assortimento di dispositivi di metallo.

Quello che si trovava al centro parlò. Le sue parole arrivarono in inglese da un traduttore che aveva al braccio, ma Kevin non aveva bisogno di dover tradurre quel monotono e piatto discorso. Lo fece il suo cervello per lui.

“Benvenuto, Kevin McKenzie. Ti stavamo aspettando.”

l’Ascesa

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