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CAPITOLO CINQUE

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Luna era… Luna era. Doveva cercare di ricordarselo. Doveva ricordare che lei esisteva, ed era reale, e non era solo… solo… il ricordo e le parole le stavano scivolando via anche se lei e il resto dei… i Sopravvissuti, ecco, stavano andando verso le fabbriche che avevano scelto come posto dove avrebbero trovato con maggiore probabilità quello di cui avevano bisogno.

Luna era furiosa all’interno della gabbia, tirava le sbarre d’acciaio come se le sue mani potessero essere in grado di strapparle. Ora vedeva il sangue su quelle sbarre, e non ricordava da dove venisse. Era per i suoi attacchi al metallo o era qualcos’altro? Cercava di trattenersi, ma non aveva alcun controllo sul proprio corpo. Gli alieni che la comandavano volevano che lei trovasse un modo per uscire da lì, per uccidere, senza pensare a quanto questo potesse nel frattempo danneggiarla.

“Tieni duro, Luna,” disse Ignazio. Anche lui sembrava preoccupato ora. “Troveremo un modo per elaborare la cura. Ti riporteremo a quello che eri prima. Tornerai te stessa.”

Ma non era a se stessa che Luna pensava adesso. Stava pensando a Kevin. Kevin era l’unico ricordo al quale lei si riuscisse a tenere, come uno scalatore si sarebbe tenuto a una roccia per paura di precipitare. Stava aggrappata alla sua immagine, ma ora anche i ricordi di lui stavano iniziando a sbiadirsi, sempre più sbrindellati ai confini, come un… come un… non ricordava neanche cosa. Ricordava di aver viaggiato con lui per il paese. Ricordava i momenti divertenti prima che tutto questo avesse inizio, quando erano due amici, ma anche tante di quelle cose avevano cominciato a scivolarle via. Ad ogni modo Luna si teneva stretta a Kevin con tutta la forza possibile, e così facendo le parve di poter trattenere anche parte del resto. Riconosceva il cane Bobby che correva in mezzo al gruppo, il più vicino possibile a lei. Ora non stava ringhiando, ma forse era perché capiva che in quella condizione non poteva fare del male a nessuno.

Si stavano avvicinando alle fabbriche adesso, e Luna vide gli altri che si guardavano attorno con quel genere di ovvia cautela che veniva dalle troppe brutte esperienze vissute. Erano così tanti adesso, praticamente un esercito, e una parte di Luna disse a se stessa che avrebbe dovuto trasformarli in cose come lei. Soffiò fuori altro vapore contro di loro, sebbene non sortisse alcun effetto, grazie alla cura.

Alcuni di loro la guardavano con paura mentre camminavano, come se si aspettassero che lei facesse loro del male da un momento all’altro. Alcuni sfiorarono le armi che avevano, insicuri se usarle o meno. Ricordava una di quelle persone, ricordava che si chiamava Lupetto, ma in quel momento non ricordava nient’altro di lui, né capiva perché le facesse così male che lui in particolare tenesse la mano stretta sull’impugnatura della pistola.

“Pare che questo posto sia stato sede di qualche battaglia,” disse Ignazio, rivolgendosi a Leon. “Sei sicuro che troveremo qui quello che ci serve per elaborare la cura?”

Leon rispose con una scrollata di spalle, che non fu per niente confortante per Luna. “Non sono sicuro di niente. Si sono sentiti rumori di battaglia nella zona industriale, e i trasformati potrebbero aver saccheggiato il posto. Non sappiamo cosa ci sia qui.”

Luna non sapeva cosa pensare al riguardo. In verità, riusciva a malapena a pensare, arrivata a questo punto. Nonostante le riserve di Leon, il gruppo avanzò comunque con cautela tra i resti degli edifici, guardandosi attorno come se fossero alla ricerca di eventuali tracce di nemici. L’intero luogo sembrava un cimitero con quelle carcasse di enormi creature di metallo, porzioni di pareti danneggiate o addirittura crollate nel corso dei combattimenti che si dovevano essere svolti lì.

La trascinarono nella sua gabbia su ruote fino a un punto dove si trovava l’insegna di una società chimica, che penzolava in un angolo e sembrava poter cadere a terra da un momento all’altro. Entrarono, e ovunque Luna guardasse c’erano vasche e contenitori, alcuni tanto grandi da essere attraversate da passerelle di metallo perforato. Alcune vasche sembravano vuote, il contenuto tolto intenzionalmente, o colato da delle perdite o semplicemente evaporato, ma altre contenevano prodotto chimici che si muovevano e ribollivano qua e là in un modo che prometteva morte a qualsiasi sfortunato ci cadesse dentro. Il suolo era cosparso di detriti ed era difficile camminarci sopra. C’erano travi che sembravano essere cadute dal soffitto e scatole sparpagliate qua e là che sembravano essere state aperte e rovistate per controllarne il contenuto.

I Sopravvissuti si sparpagliarono attorno a Luna e iniziarono a perquisire la fabbrica, muovendosi tra le pile di macerie e prendendo ciò che era rimasto, presumibilmente nella speranza che una delle scatole contenesse qualcosa di utile.

“Cosa stiamo cercando?” chiese uno di loro.

Fu Barnaby a rispondere. “Ci serviranno macchinari per la lavorazione dei prodotti chimici, in modo da assemblarli e trasformarli in una qualche forma utilizzabile. Cercate bene.”

Tutto ciò che Luna poteva fare era aspettare e sperare, e l’attesa era odiosa. Parte di lei la odiava perché significava che non avrebbe potuto uccidere la gente che le stava attorno, ma sapeva che quella parte non era realmente lei, ma solo la parte che era controllata. La più grossa preoccupazione era che più tempo passava e più difficile era ricordare. Non poteva aspettare, perché non c’era tempo per aspettare.

“Qui!” gridò Leon da dietro un mucchio di cianfrusaglie. C’era una nota di speranza nella sua voce, ma Luna non osò condividerla in quel momento. “Barnaby, Ignazio, venite a vedere questo.”

Luna vide i due scomparire dietro al mucchio. I secondi passarono, poi i minuti.

“Portate Luna,” gridò Ignazio, e la sua speranza parve ancora più solida e presente nella voce, perché lui poteva per certo sapere che era quello che stavano cercando.

Il Ritorno

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