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CAPITOLO CINQUE

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“Quindi ci troviamo nell’Antica Grecia,” disse Walter. “E adesso?”

Esther si guardò attorno, schermandosi gli occhi per il sole accecante. “Dovremmo andare verso la città,” disse.

I ragazzi furono d’accordo con lei e tutti insieme si diressero verso il punto da cui era arrivata la biga, seguendo i solchi che aveva lasciato nel terreno.

C’erano molte strutture interessanti in città. Templi fatti di enormi blocchi di pietra. Giganteschi teatri aperti dalla forma circolare con spettacoli drammatici in pieno svolgimento all’interno. Da un vicino stadio provenivano un sacco di rumore e grida. Videro un castello con enormi colonne e un grandissimo ponte levatoio che doveva essere alto almeno quindici metri. Passarono accanto a una grande struttura quadrata costituita da diverse colonne che sostenevano un tetto e che a Esther sembrava un palazzo. Del resto i Greci erano famosi per il loro stile architettonico, e vedere tutto di persona era quasi ipnotico.

Arrivarono a un piccolo ma trafficato mercato, pieno di bancarelle di legno che vendevano tanti tipi diversi di cibo, come arance fresche e bottiglie di olio d’oliva. Tra le bancarelle erano appese delle stoffe che fornivano l’ombra necessaria.

“È davvero notevole,” commentò Simon.

“Sarà anche notevole,” disse Walter. “Ma la gente del posto non sembra tanto amichevole.

Esther si guardò attorno. Walter aveva ragione. Le persone li guardavano con cautela e sospetto.

Esther rabbrividì, sentendosi pervadere da una sensazione di incombente pericolo.

“Dobbiamo trovare dei vestiti per mimetizzarci meglio,” disse, improvvisamente consapevole che aveva ancora indosso la camicia da notte dell’ospedale, e che avrebbe voluto veramente vedere com’era fatto il retro di quell’indumento.

“Come facciamo?” chiese Simon con tono canzonatorio mettendosi le mani sui fianchi. “Non abbiamo denaro per comprare dei vestiti.”

Esther si morse il labbro costernata. Non avevano soldi, aveva ragione. Ma di certo non potevano continuare ad andare in giro vestiti così. Walter aveva indosso una maglietta con un personaggio dei fumetti degli anni Ottanta sul davanti, disegnato con colori sgargianti, e un paio di scarpe da ginnastica bianche. Simon aveva un gilet di tweed marrone e un paio di pantaloni della stessa guisa. Ed Esther indossava la sua camicia da notte azzurrina dell’ospedale. Erano ben lungi dal non dare nell’occhio. Ma rubare era sbagliato e lei lo sapeva bene. Doveva esserci un altro sistema.

“Guardate, di qua,” disse, indicando un mucchio di spazzatura.

Si avvicinarono tutti. Sembravano esserci vasellame rotto, cibo marcio, piante morte, rami d’albero e altri tipi di vegetazione. Ma la cosa più importante per loro era che c’era anche una gamma di abiti stracciati, stoffe, toghe, sandali e cose simili. Anche se i vestiti erano evidentemente molto sporchi e lisi, era sempre molto meglio di ciò che avevano indosso ora.

“Tombola!” gridò Esther.

Simon sembrava disgustato. “Vi aspettate davvero che mi metta a rovistare in un mucchio di spazzatura?”

Esther incrociò le braccia. “Hai idee migliori?”

Simon parve abbacchiato. Arricciando il naso si avvicinò al cumulo di immondizie e iniziò a spostare cautamente gli oggetti di lato. Walter nel frattempo ci si buttò senza problemi e si trovò a tempo di record una toga e un paio di sandali. Indossò tutto e sorrise soddisfatto.

“Quanto fico vi sembro adesso?” disse, il sorriso in volto e le mani sui fianchi. “Lasciando perdere le macchie, ovviamente.”

Esther si mise su un’altra toga. “Cioè, è un po’ grande,” disse, guardando le fasce di stoffa che ora la avvolgevano. “E ad essere onesti assomiglia molto alla mia camicia dell’ospedale! Ma mi piace. Più o meno.”

Soprattutto, sapeva di stare molto meglio con quella toga che con il vecchio e puzzolente abito di ospedale, che così avrebbe dato meno nell’occhio e si sarebbe quindi meglio confusa con il resto.

In quel momento Simon emerse da dietro il mucchio. Aveva ancora un’espressione del tutto disgustata in volto. Era riuscito a trovare solo un piccolo pezzo di stoffa che si era avvolto attorno alla vita come un gonnellino. L’unica cosa che portava sul busto era una cintura fatta di corda, che si era messo attorno alla spalla destra e che gli attraversava diagonalmente il petto.

Walter scoppiò a ridere. Addirittura Esther, di solito così seria e contenuta, ridacchiò un poco.

Simon fece una smorfia. “Mi scotterò di sicuro con questo. Sarà meglio trovare dell’ombra. E velocemente.”

Ma Esther strinse i denti determinata. Non era dell’umore giusto per stare ad ascoltare le lamentele di Simon riguardo alle scottature da esposizione al sole.

“Ci troviamo in missione,” gli ricordò. “Una missione molto importante per salvare la Scuola degli Indovini. Così importante che il professor Ametisto ci ha divisi in due squadre.” Sentì un nodo che le si formava nella gola al pensiero di Oliver, al fatto che lui si trovava da qualche altra parte nell’universo, in un tempo e in uno spazio completamente diversi. “Quindi piantala di lamentarti.”

Simon sospirò. “Sì, mi sa che hai ragione. La missione è molto più importante di quanto stupido io sembri e del fatto che la mia pelle estremamente chiara si scotti facilmente facendomi assomigliare a un’aragosta. Un’aragosta nuda.”

“Grazie,” rispose Esther, scegliendo di ignorare il suo sarcasmo. “Ora la missione deve avere inizio. Troviamo lo Scettro di Fuoco e salviamo la Scuola degli Indovini.”

Lo Scettro di Fuoco

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