Читать книгу La vecchia casa - Neera - Страница 4
ОглавлениеLA VECCHIA CASA
La nebbia che fino allora aveva tenuta la città prigioniera ne' suoi veli sembrava cedere agli sforzi di un pallido sole di novembre. Milano usciva nel trionfo di una opaca e tranquilla bellezza di contro al cielo grigio, uniforme, dolcemente pastoso, sul quale le spire salienti dai numerosi fumaioli segnavano alcune strisce appena più scure e i tetti, i campanili, i frontoni delle chiese smussavano tutto ciò che vi era di troppo acuto nei loro angoli, abbracciati, quasi cullati dalla grande morbidezza dell'aria e del cielo.
Quel delizioso passaggio della stagione, quando il caldo è lontano e il freddo non molesta ancora, dava rilievo alla generale intonazione di compostezza e di calma. Una luce smorta coloriva dolcemente le cose. Se nel centro della città l'andirivieni affrettato della folla e le mostre appariscenti dei negozî rompevano la gamma monotona del grigio, nei quartieri deserti, giù per i navigli, la sinfonia del colore neutro si sbizzarriva sui lunghi muri degli orti e dei conventi, al di sopra dei quali alcuni radi ciuffi di platano e di castagno rameggiavano flosci, tinti di un giallo moribondo.
In una via fra le più antiche dell'antica città, saliva rasentando il muro, con passo fra timido e pauroso, un fanciullo; ma forse non tanto fanciullo come poteva sembrare a primo aspetto con quelle membra gracili strette in abiti rattrappiti, col viso pallido e sofferente delle giovani creature in cui la sensibilità sovrabbonda. Tra lui e l'ambiente e il cielo non ancora completamente snebbiato correva un intimo accordo di malinconia rassegnata, piuttosto sognante che dolorosa, piuttosto organica che dipendente da circostanze esterne.
Saliva, il fanciullo, guardando da lontano innanzi a sè chi gli stesse per venire incontro sul sentiero e voltava pure tratto tratto rapidamente il capo per assicurarsi di chi lo seguiva alle spalle. Vestiva un abito grigio troppo corto, un cappello a cencio sotto il quale il viso piccolo e delicato scompariva tutto, e teneva sotto il braccio pochi libri stretti fra due assicelle. Giunto a mezza via si fermò un momento, con una mossa istintiva adombrata di timidità insieme e di fierezza.
Il ginnasio, che egli aveva abbandonato fra una lezione e l'altra, gli stava dietro a molta distanza e nessun professore si era trovato sulla sua strada. Una visione terrorizzante gli gelò è vero per un istante il sangue nelle vene, poichè aveva scorto, sotto un portone, la schiena obliqua di un uomo magro e segaligno vestito di nero, ma un secondo sguardo lo rassicurò, per cui riprese la strada ripetendo a sè stesso con convincimento: “Non è lui!„
Dopo pochi passi, voltando l'angolo, si trovò dinanzi alla chiesa di Sant'Ambrogio e tornò a fermarsi; non più sbigottito questa volta nè tremante, ovvero tremante ancora, ma di commozione nuova che sembrava stringergli il cuore dentro una morsa.
Il vecchio tempio era parato a lutto: una gran striscia nera ondulava sulla porta dell'atrio e più lungi, al di là del cortile, altre striscie nere orlate di frangia d'oro velavano a mezzo l'entrata del tempio. Egli doveva saperlo, lo sapeva; tuttavia la realtà di quel lutto apparsagli d'improvviso sembrò rinnovargli il dolore. L'incredulità vaga che si impossessa della mente al primo annunzio di morte di una persona cara mutavasi in certezza davanti alla materiale prova, alla bandiera della morte sventolante sulla casa di Dio.
Un rispetto sacro rese ancora più pallide le guancie del fanciullo. Avanzò a piccoli passi tenendo gli occhi fissi sul cartello che fronteggiava l'entrata, smanioso eppur pauroso di leggere ciò che vi stava scritto. I caratteri gli sembravano confusi; non voleva incominciare dal principio; avrebbe desiderato conoscerli in un lampo di intuizione, non essere obbligato a decifrarli parola per parola. Gli pungevano le pupille, gli saltellavano davanti come piccole fiamme. Finalmente si fregò gli occhi, e lesse:
A
Gentile Lamberti
CHE FU ANIMA FIAMMA PENSIERO
CUI LA MATERIA NON GRAVÒ
MAI
LE FIGLIE IMPLORANO LIEVE LA TERRA
NELLA DIMORA ULTIMA
ASPETTANDO
XIII NOV. MDCC....
Ma l'impressione che ricevette fu meno dolorosa di quanto aveva temuto; insieme ad una commozione profonda che gli fece salire un gruppo alla gola sentì pure una specie di conforto grandioso, una elevazione del cuore alla immortalità vaga e sognante. Le tre parole anima fiamma pensiero gli rendevano vivo e vero ciò che era stato Gentile Lamberti; gli lasciavano intravedere la possibilità di sopravvivere a sè stessi in un mondo invisibile dove le anime si sposano fuori d'ogni rito e popolano la terra di tutto quanto palpita sovr'essa nella luce del pensiero.
Abituato alla solitudine e ad una lunga disciplina di vita interna, il fanciullo aveva la preparazione dovuta per ricevere l'impressione augusta del grande mistero. L'uomo di cui si celebrava in quel giorno il funerale era stato, nella sua scolorita esistenza di orfanello, l'apparizione più luminosa. Avvicinandolo, egli aveva sempre supposto che fosse differente da tutti gli altri uomini ed aveva provato il segreto desiderio di essergli figlio o parente per un inesplicabile bisogno di comunione colle idee e coi sentimenti da lui espressi. Quante volte, per parte de' suoi superiori, anche de' suoi maestri, la sensibilità del fanciullo era stata ferita, quasi offesa, quasi derisa, e da Gentile Lamberti mai!
— Gentile Lamberti, — ripetè, affascinato da quel nome che non vestiva più alcuna apparenza umana, che non corrispondeva più al timbro di una voce, al lampo di uno sguardo, che non aveva più significato al mondo, un nome che nessuno più portava — un nome morto — poche sillabe accozzate insieme, un suono senza senso — nulla dunque! — No, — disse ancora collo sforzo di una volontà latente che voleva reagire a qualunque costo, — un uomo simile non muore. Non sapeva donde gli venisse quella fede che gli dava tanto coraggio in mezzo allo schianto, quella energia nuova uscente per la prima volta dal suo gracile petto, nata quasi dal suo stesso dolore, ma la accolse largamente, la lasciò cadere a guisa di rugiada nella sua anima e se ne imbevve fino alla dolcezza.
Entrò allora nel tempio che era deserto. All'estremità della navata maggiore, davanti al vecchio altare dove un bassorilievo dorato risalta sullo sfondo di una tinta turchiniccia stridula e primitiva, era stato rizzato il catafalco. Lo scaccino girava ancora torno torno accomodando le pieghe del drappo nero; due banchi parati a lutto lo fiancheggiavano da una parte e dall'altra; alti candelabri tenevano gli angoli. Il fanciullo vedeva forse tutto ciò, ma non guardava, non capiva. — Il funerale è per le quattro — disse lo scaccino rispondendo a una donna che era apparsa dietro a un pilastro — e per quanto le parole fossero pronunciate a bassa voce, il loro suono si diffuse sinistro e cupo sotto la vôlta del tempio, sì che il fanciullo le udì e ne ebbe un sussulto. Anche questo egli sapeva, ma sentirlo dire da un altro gli parve brutale.
Sedette su un banco vicino al catafalco che si pose allora a guardare con intensità, accarezzandone coll'occhio ogni minuto particolare di colore e di forma, divagando di sensazione in sensazione, di idea in idea, secondo una particolare attitudine della sua immaginazione avvezza a prestare anima e vita a tutti gli oggetti che lo circondavano.
Così risalendo senza accorgersene dal suo dolore al suo affetto ed alla causa che li aveva generati entrambi, rivide sè stesso quando, pochi anni prima, era venuto a Milano dalla lontana provincia, senza che fosse stata versata una lagrima per la sua partenza, nè che una carezza lo avesse accolto all'arrivo. Orfano, allevato per pietà da parenti poco prossimi e troppo poveri per potergli essere di aiuto, affidato da ultimo alla sorveglianza meschina di un altro parente sconosciuto che lo tiranneggiava, i soli sorrisi, il solo conforto, le sole parole alte e buone gli erano venute da Gentile Lamberti. Come avrebbe potuto dimenticarlo? Rivedeva la casa ospitale dove soleva passare quasi tutte le sue ore di libertà, tanto vicino alle sue aspirazioni quanto sentivasene lontano nella casa dei parenti, ed era con tenerezza somma, con una vera commozione che rammentava l'indulgenza illuminata e paterna di Gentile Lamberti e le infinite volte che l'autorità incontestata di lui gli aveva mitigati i castighi.
— Il funerale non è che per le quattro — susurrò lo scaccino passando lo strofinaccio della polvere sul banco dove sedeva il fanciullo.
Questi si alzò, un po' rosso, come se fosse stato colto in fallo, e prese a fare il giro degli altari lentamente. I dipinti lo attiravano in particolar modo e quando scoperse nella navata a destra dell'altar maggiore un piccolo Gesù che predicava ai dottori si fermò a lungo, immobile, la mente piena di visioni.
Intanto l'orologio della chiesa suonò le ore.
Qualche persona entrava tratto tratto, dava un'occhiata ai preparativi, scambiava poche parole a bassa voce col custode ed usciva. Il fanciullo, per nulla impaziente, compì il giro degli altari e tornato all'aperto nel cortile lo continuò sotto l'atrio, attratto dapprima dai massicci sepolcri di pietra sul coperchio dei quali posava esitando la mano — una piccola mano nervosa che tremava — fermato poi dai frammenti di affresco che balzavano fuori sulle muraglie, bizzarri e misteriosi nelle loro linee spezzate, nei loro colori di ombre. Uno dei sepolcri, collocato a altezza d'uomo, mascherava tutto il corpo di un santo lasciando scoperti i soli piedi, e quei piedi mozzati lo impressionavano come se fossero stati vivi. Era strano che gli sembrassero veramente piedi e non pitture di piedi; ma le sue sensazioni erano sempre così, profonde e violente.
Una delicata testa femminile, sfumata più che dipinta, gli diede all'occhio una grande dolcezza. Nell'attitudine e nel soave abbandono dell'omero ella sembrava stringersi al seno un bambinello. Contemplò a lungo questo dipinto, sentendosi rimestare in fondo all'anima un tumulto di desiderî e di sogni confusi e ancora la memoria di Gentile Lamberti venne a commuoverlo. Ricordava: era una sera non remota ed egli gemeva sull'arida grammatica che l'inflessibilità del suo mentore gli aveva resa completamente odiosa. Il signor Pompeo, rotando gli occhi nel viso segaligno, gli prediceva tutti gli orrori ai quali sarebbe andato incontro colla sua negligenza, soggiungendo che da uno scolaro al quale mancavano nientemeno che intelletto, memoria e volontà non c'era da aspettarsi niente di buono. — Io credo — aveva detto allora Gentile Lamberti — che lei dimentichi la qualità generativa d'ogni cosa bella. Questo fanciullo sente. — Oh! — aveva risposto il signor Pompeo scandolezzato — quale professione gli insegnerò io mai a base di sentire? — e dopo qualche istante di silenzio Gentile Lamberti replicò: — Perchè non sarebbe egli poeta?
Questo brano di conversazione tornava ora nei ricordi del fanciullo che rapito quasi egualmente da una visione di dolore e da una visione di bellezza si chiedeva trepidante: Sarò io poeta?
Non era ambizioso; il miraggio della gloria e della fortuna non lo tentava. Non era nemmeno uno spirito pratico, per cui facendosi la domanda: sarò io poeta? più che cercare una soluzione al problema del suo avvenire, ripeteva per intimo bisogno di dolcezza quelle parole misteriose che aveva udito pronunciare dalla persona a lui tanto cara, sembrandogli, se avesse potuto diventare poeta, di interpretarne il desiderio. Disgraziatamente fra le due assicelle che tenevano serrati i suoi quaderni di scuola si trovava un penso di letteratura ed egli ricordò con una certa mortificazione come non potesse ritenere più di cinquanta versi. Abbassò il capo contrito, non vinto però.
L'onda delle sensazioni continuava ad incalzarsi nella sua mente acerba ma tenace. Sentiva che il mondo e la vita non sono solamente quello che ognuno dice: che nell'ampio mondo fatto per tutti c'erano dei piccoli mondi occulti e chiusi dove non si poteva penetrare in folla. Colpito da quella rara e squisita sensazione che si intende col nome di rispetto egli misurava sempre più il passo, contemplando i preziosi ruderi che lo circondavano con una simpatia calda e rattenuta che sembrava toglierli dai secolari riposi e infondere un palpito ad ogni frammento di granito, ad ogni evanescente profilo. Egli non sapeva nulla della storia di quel tempio e di quel cortile, nè che fossero considerati come opera d'arte, nè che i forestieri accorressero a visitarli. L'eroica figura del vescovo Ambrogio, che egli non aveva ancora studiata nei suoi corsi ginnasiali, non gli suggeriva nulla davanti a quel monumento della di lui grandezza: ignorava che orde di popolo acclamante avessero invaso gli intercolonni quando gli imperatori venivano a farsi cingere dall'arcivescovo la corona ferrea e che la voce popolare riguardasse la porta maggiore del tempio come la stessa da Ambrogio chiusa in faccia a Teodosio. Nulla sapeva di quanto l'arida dottrina insegna; ma egli udiva la voce delle pietre, egli vedeva trasudare dai marmi le lagrime di dolori passati rinnovati sempre, egli sentiva palpitare silenziosamente l'anima delle cose all'unissono coll'anima sua in una vibrante armonia di tristezza e di luce. Egli amava nel mondo visibile l'invisibile mistero ed a quello tendeva con inconscia sicurezza.
Già la nebbia che si era sollevata nelle ore meridiane ricominciava a cadere lentamente. Il fanciullo argomentò che l'ora attesa non dovesse essere lungi: infatti recatosi sul piazzale e guardando in su verso le vie fuggenti a nord riconobbe in una massa bruna che si andava man mano ingrossando le prime file del corteo funebre. Contemporaneamente alcuni curiosi giunti alla spicciolata da diverse parti entrarono a prender posto sotto l'atrio e lungo i colonnati.
Il fanciullo rimase sulla piazza portandosi verso l'angolo della via che fronteggia il tempio e tenendovisi nascosto in modo che la sola testa sporgesse in fuori a guardare il corteo che si avanzava, dapprima incerto per la molta lontananza e per il velo di nebbia che si stava svolgendo sulla città, poi distinto nel lugubre drappello dei necrofori, nei rocchetti bianchi del clero sopra cui ondeggiava la croce dai pallidi riflessi d'argento, finalmente il carro in un nimbo di fiori. Ecco! Il fanciullo si aggrappò al muro, strisciandovi sopra la faccia con uno spasimo improvviso. Gentile Lamberti gli passava davanti morto. Morto! Sbarrò gli occhi, meravigliato di non vederci più; sentì il muro bagnato sotto la sua guancia e si accorse di piangere....
Quando tornò a vedere, il carro aveva svoltato verso la chiesa seguito dai parenti, dagli amici, dalle rappresentanze cittadine. Molte persone che avevano conosciuto anche per poco l'uomo insigne che non era più, molti di coloro che senza averlo conosciuto personalmente onoravano in lui la rara concordanza fra l'ingegno e il carattere venivano in seguito e ad ogni svolto di via altri se ne aggiungevano; altri, trovandosi sul passaggio della salma venerata, interrompevano la loro corsa di affari o per curiosità o per simpatia o per poterne parlare in casa e ripeterlo agli amici. L'interminabile sfilata si perdeva colle carrozze del seguito in tutte le vie adiacenti.
Allora il fanciullo abbandonò il suo posto di osservazione e guizzando inavvertito in mezzo alla folla ripassò il cortile, rientrò nella chiesa stipata di gente dove gli fu impossibile avanzare, per cui rifugiatosi in una cappella si addossò a un pilastro ed ivi stette aspettando che fosse compiuta la cerimonia religiosa. Alzandosi però sulla punta dei piedi e colla vista che aveva acutissima intento a scrutare quella massa di teste denudate e raccolte vide la testa medusina del signor Pompeo, in prima fila, rigidamente piantato davanti alla luce di un finestrone perchè ognuno potesse sapere che egli era là. Da quel punto la maggior preoccupazione dello scolaro fu quella di schivare il temuto pedagogo che lo credeva a scuola, e appena terminate le preghiere, quando la folla colle sue onde di mare agitato si mosse riversandosi verso le porte del tempio, egli, facendosi piccino, scivolando silenzioso, si confuse cogli ultimi, cogli umili, indifferente alla inferiorità del posto che occupava, pago di accompagnare l'uomo amato con tutto l'ardore, con tutto l'entusiasmo del suo cuore giovane.
La nebbia intanto, la strana, fantastica nebbia del novembre milanese, continuava a cadere molle e muta. Sulla piazza di Sant'Ambrogio, nel lungo viale sotto gli alberi, ogni forma perdendo la precisione del contorno si ingigantiva in una ciclopica visione di masse indecise salienti a toccare il cielo: e talora sembravano palazzi inaccessibili, soggiorno di genî e di fate; tal altra prendevano l'aspetto di monti iperborei sorti improvvisamente a restringere i confini della terra. In mezzo ad essi la linea del corteo funebre, svolgendosi con ondulamenti di serpe, procedeva a guisa d'ombra nera tremolante nella vasta ombra grigia immobile. Parve al fanciullo che Gentile Lamberti movesse così verso il doloroso mistero accompagnato da fantasmi velati, quasi sospinto da forze invisibili in quelle tenebre che si facevano di istante in istante più fitte, verso la gran tenebra ignota. Le ombre incalzavano le ombre, nel silenzio tragico delle vie che si inabissavano paurosamente davanti allo sguardo, davanti al passo, come se una voragine le inghiottisse.
Avvinto da un fascino che un vago inesprimibile terrore rendeva più intenso, il fanciullo si stringeva al gruppo delle persone che lo precedevano: solo un tratto che egli fosse rimasto indietro si sarebbe smarrito irremissibilmente. Camminando con quel suo passo leggero e timido fissava con ostinazione quasi magnetica le torcie accese che rompevano l'oscurità con piccoli punti gialli intorno ai quali il riflesso roseo della fiamma, venendo a contatto colla nebbia, tracciava una zona delicatissima di color violetto morente in una gradazione quasi inafferrabile di verde pallido, poi di grigio, poi di grigio più intenso, che mescendosi alle irradiazioni delle torcie vicine spargeva nella nebbia un chiarore madreperlaceo di un effetto misterioso. Tutti i preparativi del funerale, la chiesa addobbata a lutto, il catafalco, i fiori, la folla, ognuna delle cose stabilite e fisse, ognuna delle materiate manifestazioni umane scomparve dalla sua memoria. Un mondo ignoto sorgeva per lui da quelle tenebre stranamente iridate: mondo di larve rompenti l'ostacolo con petti virili, singhiozzanti con femminei seni: mondo di lagrime portate a vagare lungi dagli occhi che le avevano spremute, lungi dalle mani che le avevano terse, erranti in cerca di altri occhi a cui appendersi, di altre mani da irrorare: ed egli le beveva, quelle lagrime, avidamente, nell'aria umida e densa che gli palpitava sul viso un soffio gelido di morte.
A un tratto non vide più nulla; non la massa incerta delle persone che lo precedevano, non i punti luminosi delle torcie, nemmeno la più lontana rifrazione delle fiamme, nulla! La muraglia nera della notte gli stava davanti terribilmente muta.
Ciò che aveva paventato accadeva. Il corteo funebre che si era andato di continuo assottigliando si tolse ai suoi occhi, improvvisamente divorato da un più fitto strato di nebbia. Egli si trovò solo, perduto nelle tenebre.
Mosse alcuni passi nella stessa direzione, con una forza di volontà disperata che gli faceva sbarrare gli occhi e tendere le palme in attitudine di respingere un nemico; ma il nemico opponeva la sua molle resistenza di fantasma imponderabile, lo serrava e lo soffocava nelle sue braccia di velo, impassibile, penetrante, silenzioso. Non uno spiraglio di luce si offriva a' suoi sguardi, non un suono colpiva il suo orecchio ansioso. Nel breve cerchio della sua persona un crepuscolo violaceo rinnovato di passo in passo, pari a una lanterna portata da una mano invisibile, gli tracciava misteriosamente il cammino. Si fermò cercando di indovinare in qual punto della città si trovasse. Invano. Da una parte e dall'altra l'invincibile muraglia lo respingeva.
Così, abbattuto, avvilito, sbagliando ogni tratto, retrocesse sulle sue proprie orme e quasi riprendendo il possesso della realtà man mano che si avvicinava ai luoghi noti pensò al precettore che doveva attenderlo, al castigo che lo aspettava, e una tristezza infantile sprigionandosi dal suo gracile petto gli serrò la gola con un singulto.
Quando potè ritrovarsi nella sua contrada, davanti alla porta della sua abitazione, esitò un istante; poi riunendo tutto il coraggio entrò di corsa; salì l'ampio scalone signorile che arrestavasi al primo piano e stava per slanciarsi sulla piccola e buia scala del suo precettore, allorchè la voce fessa del signor Pompeo risuonò altamente in uno scoppio di collera ed egli stesso apparve sulla soglia dell'appartamento del primo piano che un domestico gli aveva spalancata. Il fanciullo ebbe appena il tempo di gettarsi in un canto, rannicchiandosi contro la parete; il signor Pompeo si fermò volgendosi verso una persona che gli stava alle spalle:
— Quel ragazzo — disse con accento duro — ha bisogno di una lezione.
Una voce soavissima, una voce di donna angelicata benchè tremante fra le lagrime, pregò con indicibile commozione:
— Non oggi! non oggi!
E temendo forse che la parola non bastasse, l'incognita aggiunse il gesto supplice delle mani congiunte verso l'uomo che già aveva varcata la soglia, seguendolo per ottenerne una promessa di clemenza. Fu allora che ella scorse il fanciullo rattrappito e tremante nell'angolo della scala.
— Flavio! Poverino, che fai qui?
Se lo attirò fra le braccia dolcemente materne e trovandolo intirizzito ne strinse il volto contro il proprio petto con un movimento rapido e lieve, ripetendo: — Poverino!
Flavio si sentì salvato.