Читать книгу La vecchia casa - Neera - Страница 5

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Non molto ampia, modesta, coll'intonaco di un bigio caldo che le dava un aspetto vivente quasi di persona, la casa che i Lamberti abitavano da oltre mezzo secolo riuniva tutti i caratteri delle vecchie case, signorili senza sfarzo, costruite con quel sentimento dell'interno che faceva disprezzare ogni pompa, che teneva la porta non più alta del necessario ma discretamente larga perchè la carrozza padronale vi potesse entrare comodamente e che si accontentava di due piani ampiamente soleggiati. Il primo proprietario — un cadetto di nobile famiglia — vi aveva conferito, ad onta dei mezzi limitati, il suggello di distinzione della sua razza e tale suggello si era conservato inalterato attraverso le peripezie delle successioni.

La piccola casa nella via deserta, nel quartiere eccentrico, non aveva destato le cupidigie dei nuovi arricchiti; nessuno aveva mai pensato che si potesse trasformarla in un piramidale palazzo moderno e così come si trovava, senza caloriferi, senza alcuna delle moderne ricercatezze, nessuna signora elegante avrebbe voluto abitarvi.

Era passata per tal modo chetamente di eredità in eredità a gente dignitosa ed oscura che non ne aveva alterato un solo aspetto, lasciando che il grosso fico spadroneggiasse nell'angolo del cortile, che l'erba crescesse fra il rado acciottolato, che una patina nera incrostasse i riccioloni barocchi della scala d'onore e del terrazzo sul quale tutte le piante possibili crescevano a primavera invadendo muri, finestre, embrici, con una prepotenza secolare che era diventata diritto. Le gronde ai tetti, foggiate in forma di draghi che vuotavano a torrentelli nella strada le pioggie raccolte, erano scomparse solamente in seguito al divieto formale del municipio, non senza aver tentato qualche resistenza. Sembrava che tutta la casa, tutto ciò che vi apparteneva, fosse tenuto insieme da un legame invisibile ma tenace che non voleva cedere alla invasione dei tempi nuovi. I proprietari stessi non erano riusciti ad appiccicarvi il loro nome; in tutta la parrocchia di Sant'Ambrogio si diceva la casa del marchese senz'altro. La casa del marchese da pochi anni appena era anche conosciuta col nome di casa dei Lamberti, quantunque i Lamberti non ne fossero proprietari, ma era questo un miracolo di Gentile Lamberti che solo era apparso degno di sostituire il suo nome venerato ad uno tradizionale che durava da secoli.

Già fin dall'esterno, in una rigonfiatura del muro che alterava la linea della facciata insistendo in quel carattere di vitalità così suggestivo e bizzarro, il disegno della casa si presentava con una assoluta indipendenza di criteri. La porta, collocata non nel mezzo della facciata ma da un lato di essa, era sorretta da pilastri piatti di granito che si riunivano alla sommità abbracciando un piccolo scudo dove assai confusamente si intravedevano le traccie di uno stemma. Entrando sotto il breve portico, che una pusterla di legno ingraticciata spartiva a metà, erano visibili ed assai bene conservati i dipinti del soffitto a cassettoni dove il pittore aveva anticipato le chiocciole e gli svolazzi che lo scultore doveva ripetere nelle balaustre della scala, diffondendo l'impressione speciale di morbidezza, di tepore, quasi di carezza e di abbraccio che è il più grande fascino del barocco puro.

Al di là della pusterla qualunque richiamo al movimento cittadino cessava. Si pensava involontariamente al numero infinito di conventi che stavano addossati un tempo in quelle contrade, al mistero di tante vite rinchiuse, scomparse per sempre, e guardando il piccolo portico dalle snelle colonnine che girava per due lati del cortile, la fuggevole visione delle suore oranti faceva passare un soffio di misticismo sulla calda impressione lasciata dalla architettura secentista. Ma era un misticismo dolce, sereno, che diventava quasi gaio quando la bella stagione vestiva di verde tutte le pareti e dal terrazzo la glicine, il caprifoglio, i gerani mandavano ondate di profumi nel cortile.

I due muri non occupati dal portico, essendo molto bassi, lasciavano scorgere una sfilata di orti, di piccoli giardini ingenui e primitivi dove la zappa entrava di rado e che contribuivano a conservare l'illusione della solitudine.

Costruita per una famiglia patrizia la casa aveva un solo appartamento che meritasse veramente questa denominazione: ad esso metteva capo l'ampia scala di stile barocco. Tuttavia alcune stanze del secondo piano erano state adattate per uso del signor Pompeo e dalla parte opposta, dove era la scaletta di servizio, gli ultimi proprietari avevano pure trovato modo di collocare un vecchio pensionato con sua sorella. Ma era tutto. Si trovava per tal guisa accresciuta l'intimità della casa dove poche persone entravano — sempre le stesse — dove da anni ed anni le finestre dei Lamberti si aprivano giocondamente lasciando passare i canti e le risa delle fanciulle, dove il vecchio pensionato, da un piccolo balcone, veniva a scaldare i suoi reumi al sole mentre la sorella appendeva la gabbia del passero solitario; dove il signor Pompeo, attraversando il portico, sbirciava tutte le mattine il cielo facendo pronostici per la giornata; dove Flavio aveva passate tante ore grigie sui propri cómpiti, tante ore azzurre nel salotto dei Lamberti.

Ogni primavera, innanzi che il fico mettesse le fronde, il portinaio saliva con una scala a mano a verificare lo stato dei rami; poi tendeva dei fili di ferro affinchè la glicine che cadeva abbondantissima dal terrazzo non andasse dispersa; egli la obbligava a vestire il muro nel posto lasciato libero dal fico. Una ventina di vasi schierati in bell'ordine e sempre in un dato modo dovevano completare l'assetto estivo del cortile. Il buon uomo vi seminava invariabilmente del basilico e delle violacciocche. Più tardi, quando il sollione di luglio e di agosto sferzava le pianticelle, egli le raccoglieva durante le ore calde sotto il portico, e il ripetersi metodico di tutte queste occupazioni, lo scrupolo di conservare ogni cosa nello stato e nella forma abituale, dava luogo a un ordine monastico in perfetta armonia coll'ambiente. Siccome poi il portinaio era solo, nessuna ciancia di donna, nessun vociare di bimbo rompevano l'alta quiete del cortile. Era così che l'erba cresceva in mezzo ai sassi immacolata, che il fico conservava i suoi frutti fino all'estrema maturanza, che i vasi dei fiori non erano mai spostati di un millimetro, che la patina del tempo si era distesa sui muri, sulle colonne, sui riccioloni della scala e del terrazzo creando effetti impensati di chiaroscuro, mentre dalla parete a tramontana, vestita al piede di una leggera muffa verdastra, salivano le macchie del salnitro con ramificazioni bizzarre, somiglianti ad antichi graffiti che i secoli avessero un po' corrosi.

Un largo sprazzo di cielo proteggeva questa perfetta solitudine. Oltre gli orti, oltre i giardini, appena quando gli alberi erano privi di foglie si poteva scorgere l'alto muro di un convento sul quale stava dipinta una meridiana.

Il lutto che era piombato terribile e repentino sulla casa felice ne palliava momentaneamente il giocondo aspetto. La persistenza della nebbia faceva pensare ad un velo che la morte stessa, passando, vi avesse distesa; cortile, portico, terrazzo, tutto affondava nel tenue mistero. Ma nella camera dove Gentile Lamberti era morto il dolore si era veramente rifugiato più muto, più profondo, non larva o simbolo, ma persona viva.

In quella camera così piena ancora di lui, delle sue abitudini, delle sue memorie, Anna, la maggiore figlia, veniva come ad un tempio — sentendo del tempio la grandezza e la soavità insieme — consolandosi in ciò che per molti è strazio insopportabile: la rievocazione. Ella non comprendeva affatto i conforti che le andavano susurrando, per la maggior parte appoggiati sull'azione del tempo che doveva guarire la sua ferita, che gliela farebbero quasi dimenticare. Non voleva dimenticare. Al contrario, se vi era pensiero dolce per lei in fondo al suo dolore era appunto la sicurezza del ricordo perenne, di un legame ininterrotto collo spirito di colui che ella sentiva ancora vibrare intensamente dentro di sè. Suo padre non era stato solamente l'autore de' suoi giorni, la persona che le tradizioni, l'abitudine, l'interesse insegnano a obbedire e ad amare. Carne della sua carne e sangue del suo sangue ella era sopratutto per una perfetta somiglianza di anime la continuazione del di lui pensiero, l'essenza rinnovata di quell'Io morale che una semplice accidentalità della materia non poteva distruggere. Era la di lui coscienza, era il di lui amore, era ciò che egli aveva voluto che fosse, ciò che doveva rimanere.

Nessuna debolezza si mesceva all'alto sentimento della perdita che aveva fatta, ma piuttosto un ardore concentrato, come se dai più oscuri segreti del suo essere germogliasse il seme del potente albero caduto. Veniva tutti i giorni, dacchè era morto, a passare lunghe ore nella camera di suo padre; le sembrava di vederlo e di parlargli ancora; le sembrava — oh! ma in modo strano — di sentire il tocco leggero e penetrante delle sue mani, quelle mani un po' magre, ma più che magre tenui, le quali scottavano sempre nel palmo. E la sua voce udiva, la sua voce che chiamava: Anna! Questo nome, breve e lucente come una lama snudata, la faceva trasalire ancora nella memoria di lui con un fremito di orgoglio.

Quante volte, seduti là, sul piccolo divano in mezzo alle due finestre, egli aveva parlato della nobiltà della natura umana sollevando l'animo della fanciulla alla comprensione dei sentimenti generosi, mostrandoli non a guisa di eccezioni ma come la sola norma di una vita degna. Era, del resto, il retaggio che i Lamberti si erano sempre trasmessi di generazione in generazione con una fedeltà che aveva conferito loro una specie di aristocrazia morale. Legati alla vita più calda e più palpitante del loro paese, il nome dei Lamberti si incontrava dovunque, sia nelle ansie tragiche della dominazione straniera preparatrice di indimenticabili eroismi, sia nei periodi di calma, quando all'azione violenta dei rivoltosi succedeva l'irradiamento sereno delle contemplazioni intellettuali, uno di loro si trovava sempre collegato alle imprese più simpatiche e più generose. L'aureola popolare (nel significato alto della parola), quell'aureola che viene decretata da migliaia di cuori commossi e riverenti, aveva raggiato troppo fulgida sulla fronte di Gentile Lamberti perchè la sua dipartita non dovesse lasciare un vuoto angoscioso nella figlia che di lui solo era vissuta fino allora, ammiratrice entusiasta fino alla venerazione.

Desolata in mezzo alla gente, sola anche cogli amici che erano tanto diversi da lei, sentendo ad ogni istante per la forza fatale dei confronti l'immensità della sua disgrazia, Anna si ritemprava in quella camera satura delle idee, dei sentimenti, degli appassionati entusiasmi, delle delicate fantasie, delle ricerche amorose e profonde che da vent'anni formavano il nucleo di quella che era stata una esistenza in due.

Nella stessa camera si aggirava ancora la piccola figura elegante della nonna spiritualizzata nel ricordo; e della di lei dimora erano rimasti alcuni pastelli deliziosi appoggiati alla tappezzeria di un rosso cupo, il piccolo divano fra le due finestre, uno stipo tutto a cassettini, verniciato di chiaro, che sorrideva da un angolo come se avesse conservato nelle sue rotondità lucenti e fiorite la serena filosofia della vecchia signora.

Tanto era ininterrotta in quella famiglia la catena d'amore che gli antenati rivivevano coi giovani nipoti, avendo trasmesso a loro i gusti, le abitudini, certi atteggiamenti, certi motti. Tre generazioni erano nate sotto quei soffitti a volta fasciati di una tenera zona cilestrina, tra quelle pareti che gli usci interrompevano con una larga volata di imposte dipinte a nastri azzurri, a ghirlande di fiori sospese fra stipiti dorati, cui sovrastavano pitture a tempera di soggetto ridente. Ogni posto, ogni cantuccio raccontava una storia. Vecchi e bambini avevano pianto e avevano riso, avevano amato, gioito, sofferto, pensato, sognato, nella casa tranquilla, nelle signorili stanze ampie, illuminate, dove il riflesso dei giardini sottostanti faceva salire una gradazione delicata di verde che smorzava l'eccesso della luce. La felicità — una felicità alta e severa fatta di pensiero — palpitava in ogni linea, in ogni profilo; era così profondamente radicata nella casa benedetta che osava sprigionarsi anche dalla gravezza del lutto. Anna non vedeva nè la giornata grigia, nè la camera deserta, nè il posto vuoto. Nella sua anima ardente la vita era eterna.

Giaceva sulla scrivania di suo padre un libro aperto, lasciato aperto da lui nelle ultime ore. Il libro era collocato un po' di traverso (si ricordava benissimo), egli stesso lo aveva allontanato colla mano in un momento di stanchezza, ma senza chiuderlo, come se sperasse di poterne continuare in breve la lettura. Un segno rosso sul margine attrasse particolarmente l'attenzione di Anna: suo padre doveva averlo tracciato nella estrema attività del pensiero, poche ore prima di morire. Questa certezza le fece chinare il capo ansiosamente sul volume. Lesse: “Io non amo inzaccherarmi le vesti col fango delle vie. Io voglio in puri abiti di festa attendere il giorno dell'avvenire„.

Due lagrime cocenti le bruciarono gli occhi, caddero, si posarono sulla pagina segnata. Quelle erano le ultime parole meditate da suo padre!

Presa da una indicibile commozione, non udì la voce della piccola sorella che la chiamava dal corridoio. Solamente al leggero rumore dell'uscio che si apriva volse il capo.

— Flavio ha voluto venire....

I due fanciulli entrarono: Elvira davanti, poi Flavio, timido, cogli occhi che chiedevano scusa.

— Ha voluto venire! — ripetè Elvira, dando un'occhiata sdegnosa alle traccie che le scarpe di Flavio lasciavano sul tappeto.

— Hai fatto bene — disse Anna tentando di sorridere al fanciullo: ma davanti a quella faccina mesta sentì che non era necessario fingere e riprese, senza nascondere nulla del proprio affanno: — Dovevate chiamarmi, vi avrei raggiunti di là.

— Se ti dico che è lui che ha voluto venire!...

Flavio girava il suo cappello fra le dita, incapace di parlare, vedendo confusamente ogni cosa, con un gran nodo nella strozza, un po' ferito dall'insistere che faceva Elvira sulla domanda ch'egli aveva appena posata con grande timidezza.

— Che sciocco! — mormorò Elvira scappando nel corridoio.

Anna non udì precisamente le parole della sorella; guardò il fanciullo e fu colpita dall'espressione disfatta del suo volto.

— Tu volevi vedere la sua camera, nevvero?

Un lampo di riconoscenza per essere stato compreso brillò nello sguardo del fanciullo. Ancora non disse nulla, ma fece qualche passo verso la sua protettrice. Ella gli prese le mani, attirandolo, mormorando con passione:

— Lo amavi dunque molto?

— Oh! — rispose il fanciullo.

Null'altro. Per un istante le loro mani rimasero avvinte. Si guardarono profondamente, disperatamente, in fondo alle pupille. Avrebbero creduto di udir battere i loro cuori!

— Flavio — disse Anna ad un tratto — tu sei ancora giovane, non puoi comprendere chi fosse veramente colui che abbiamo perduto.

— Io lo so — rispose Flavio con molta semplicità.

Anna prese allora a considerare il pallido volto del suo amico, si ricordò che era meno fanciullo di quanto potesse far credere il suo aspetto; vide ad ogni modo nella piega dolorosa delle labbra le traccie di una sensibilità superiore agli anni e la bontà colla quale lo aveva sempre trattato assunse, in quel medesimo istante, un grado di simpatia più elevata che glielo fece riguardare come fratello. Di tutte le persone che avevano pianta la morte di Gentile Lamberti nessuna le era parsa, come quel fanciullo, vicina a lei, al suo modo di amare e di sentire.

Con uno slancio improvviso dove la passione dolorosa si vestì di una ineffabile dolcezza ella disse:

— Guarda!

L'occhio suo guidò Flavio verso il libro aperto, mentre coll'indice additava le parole segnate.

Il fanciullo lesse in silenzio. Anna che lo osservava vide le sue labbra tremare e le sue guancie, che erano già pallide, farsi trasparenti. Tutta presa d'ardore, Anna rilesse a voce quasi alta: “Io non amo inzaccherarmi le vesti col fango delle vie. Io voglio in puri abiti di festa attendere il giorno dell'avvenire„.

Senza rendersene esatto conto Flavio sentiva vagamente di ricevere una particolare distinzione, quasi una prova di fiducia e di tenerezza che da parte di quella donna superiore andava a risvegliare le corde più riposte del suo orgoglio d'uomo. Il fanciullo timido, avvilito, incompreso, il fanciullo di cui nessuno prendeva cura se non per abusare della di lui debolezza, saliva allora il primo gradino della dignità virile, e chi lo guidava, sorreggendolo, era un dolce viso femmineo, era una voce a lui ben nota per altri soavi ricordi. Solamente la sera prima Anna, in un momento di abbandono pietoso, se lo era stretto contro il seno. Tornavagli in quel punto vivissima la sensazione di tepore e di morbidezza risentita nella carezza fuggevole. Standosene egli un po' curvo sul libro vedeva Anna, ritta, più alta di lui, sorgere al suo fianco e disegnarsi contro la luce della finestra in una linea elegante di stelo che l'abito di un rosso vivo sembrava bagnare di sangue. Penetrato di un intimo calore, con una baldanza insolita e nuova, disse:

— Anch'io voglio fare così.

— Perchè è così che si ama — completò Anna.

Rimasero entrambi ad ascoltare il suono delle loro voci, cadente grave nella camera come se un voto solenne fosse stato pronunciato.

Fu Elvira che li trasse dal sogno. Ella, rientrando, arrestò gli occhi sull'abito rosso di Anna a cui la luce immediata della finestra dava un particolare risalto.

— Bisognerà bene ordinare gli abiti di lutto.

Pronunciò queste parole colla sua calma di bimba saggia, con quel criterio pratico e positivo che le attirava sempre l'ammirazione del signor Pompeo.

Anna frenò un moto istintivo di ripugnanza, lasciando cadere gli sguardi sulle sue maniche.

— Gli piaceva tanto quest'abito!

Si volse a Flavio persuasa che egli la comprenderebbe.

— Mi pare, spogliandolo, di spogliare un ricordo suo, di allontanarlo maggiormente dalla mia vita; mentre vorrei continuare in tutto e per tutto, sempre, come se egli mi guardasse ancora. Perchè cambiare la veste che egli amava, la veste consacrata dalle sue carezze?

Elvira soggiunse con un leggiero allarme:

— Il lutto lo portano tutti però. Che direbbe la gente?

— Oh — fece Anna rassegnata — lo metteremo anche noi, non dubitare.

Una malinconica amarezza trapelò dal suo accento. Flavio la fissava cogli occhi sbarrati, non osando parlare, così pallido e immobile che si vedevano palpitare le sue narici come l'ala di un uccello prigioniero; mentre in lei cresceva la sensazione di tedio che le veniva così spesso dalla presenza della sorella, che cercava di combattere con tutte le forze, ma che rinasceva sorda, implacabile, da sorgenti oscure e profonde che sfuggivano a qualsiasi ricerca.

Anche ora (Elvira erasi appoggiata alla scrivania tenendo la mano distesa sul piano levigato, toccando il libro che Gentile Lamberti aveva lasciato aperto in quel medesimo posto) Anna tremava quasi stesse per assistere ad una profanazione. Quella mano ferma e già forte nel suo incompleto sviluppo di bambina, quella mano che sapeva tracciare pagine di una calligrafia perfetta, quella mano così diversa, così straniera, là dove ella aveva veduto per l'ultima volta la mano diafana e scottante di suo padre, le dava una stretta al cuore che nessun ragionamento avrebbe saputo spiegare. Per vincersi e per dominare una sensazione che ripugnava alla sua alta rettitudine si accostò alla sorella passandole un braccio intorno al collo.

Non era suo dovere di amarla, ora più che mai, poichè erano rimaste sole nel mondo? Ella aveva precisamente l'età di Elvira quando la loro madre, sciogliendosi dalla vita, volgeva a lei in particolare la preghiera di sostituirla presso la neonata. Ed ecco, dieci anni erano già trascorsi senza che il vincolo ideale si stringesse. Ingannati dalla gentilezza dei modi tutti dicevano: Come si amano le due sorelle! Ma Anna sapeva bene che non era vero. Col braccio stretto intorno al collo di Elvira ne andava ricercando i baci con ansia affannosa, mormorando:

— Dobbiamo amarci, dobbiamo amarci.

E dal fondo delle sue viscere intanto l'occulto ribrezzo smentiva le parole affettuose.

La vecchia casa

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