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Prefazione
ОглавлениеQuando si parla di cultura Americana inevitabilmente si cammina sul sangue di uno sterminio. Un eccidio di massa che è perdurato per ben tre secoli, partendo dal sud e culminando nel nord, iniziato nelle Americhe di Colombo intorno al 1500 coi Conquistadores Spagnoli e abbracciando infine tutta l’Europa.
L’America dei primi tempi era sicuramente un paese duro, spaccato a metà tra le grandi praterie, le assolate piantagioni e le città nascenti, in un clima ingrato e sconosciuto dove chi c’era avrebbe preferito non esserci, e chi c’è rimasto spesso si è perduto. I primi colonizzatori erano fuorilegge, ladri, stupratori e mercenari, abbacinati dal miraggio dell’oro che sembrava galleggiare nei fiumi dorati, e dove gli scassinatori di banche erano considerati un èlite.
Inglesi, ma anche Irlandesi, Olandesi, Spagnoli, Portoghesi, Norvegesi, Svedesi, Francesi e Italiani, che arrivavano in quella terra selvaggia con l’unico scopo di possederla. Gente della peggior specie che non si fermava davanti a niente, neanche all’omicidio. Gli Indigeni del luogo, i cosiddetti Pellerossa, sparsi per tutto il territorio in centinaia di tribù e idiomi diversi, furono sterminati, ingannati e spogliati della loro dignità, come prima era avvenuto con gli indigeni delle Americhe del sud. Condannati alla fame e spogliati di tutto, i Nativi morivano, portando nella tomba anche la loro atavica cultura. E questa aberrazione si fuse al traffico bisecolare degli schiavi Africani, colonna portante della neonata America.
La cultura Americana è nata così, in una mescolanza di sangue e di lingue che non ha paragone in nessuna parte del mondo, una eccezionalità della storia che non ha precedenti. I primi bianchi si erano ormai perduti: e se inizialmente era gentaglia che spadroneggiava su quelle terre desolate creandosi il proprio regno, quelli venuti dopo erano ex galeotti, contadini, operai e prostitute, povera gente che non sapeva dove andare per affrancarsi dalla fame e, complice il Governo Americano che li affascinava con la promessa della terra, sperava di trovare nel nuovo continente un posto in cui rifugiarsi. Fu così che popoli ed etnie completamente diversi tra loro e che in condizioni normali non si sarebbero mai sognati di frequentarsi, si trovarono a lavorare gomito a gomito per sopravvivere. E tutti, guardandosi attorno, non trovavano traccia del proprio passato, nessun appiglio a cui aggrapparsi, nessun ricordo da mantenere.
Era DAVVERO un nuovo mondo, pieno di idiomi, di fermenti, di novità e di esperienze, ma anche di emarginazione, di rabbia e di sangue che si fusero in una MUSICA bambina che racchiudeva TUTTO: il Blues.
Fu sulla matrice africana che s’innestarono le suggestioni europee: le ballads Inglesi, il folk Irlandese, i grandi compositori Italiani, il tango Argentino, la chitarra Spagnola e non ultima la magia Cubana, già pratica di mescolanze tra sacro e profano con la sua Santeria. E tutto venne a sua volta rielaborato e rimescolato al passo strascinato dei galeotti e al ritmo infernale della frusta nelle prigioni Statali, dove il Blues raggiunse vette di liricità assoluta poco prima di spegnersi. Un canto del cigno nel quale palpita tutta l’essenza della sua doppia anima: quella Nera e quella Bianca.
Questa è la sua storia, dalle origini alla sua morte, avvenuta in un’anonima stanza di una piantagione di cotone, quando Robert Johnson esalò da solo il suo ultimo respiro.
Dopo di allora l’oblio? No, certo. Perché il blues è storia. E’ la linfa vitale che scorre nelle vene del jazz, è la rabbia urlante del rock, è il ricordo sempiterno del linguaggio universale che ci accomuna tutti e dal quale dovremmo prendere esempio, per mantenere integra la nostra umanità.
E’ il battito del nostro cuore. E’ lì che si è nascosto il blues.
Patrizia Barrera, 2021