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Alle radici del Blues Le Origini

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Dura la vita per uno schiavo nero a cavallo tra la seconda metà dell’800 e l’inizio del nuovo secolo! Non che precedentemente fosse facile. Gli schiavi, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno sempre vissuto in condizioni disumane. Tuttavia in America la Guerra di Secessione non solo non aveva risolto il problema della schiavitù ma addirittura ne aveva creata un'altra, ancora più tremenda in quanto sommersa e istituzionalizzata. L’intera economia degli Stati del Sud si era basata per almeno due secoli sulla manovalanza degli schiavi i quali, tranne dovute eccezioni, si erano infine integrati nella realtà quotidiana costruendosi delle famiglie, e il rapporto col padrone bianco non era molto diverso da quello che OGGI l’intero universo industrializzato e fiorente stabilisce con gli extracomunitari, sottopagati e iper-sfruttati.

Finita la Guerra, immensi territori apparivano distrutti, le piantagioni bruciate e le proprietà confiscate: il Sud era in ginocchio e la povertà dilagava, tra i bianchi quanto tra i neri.

Ne va da sé che il capro espiatorio di tutta questa faccenda fossero appunto gli Afro-Americani, visti come la ragione prima della disperazione e della miseria collettiva. Benché gli stati del Nord li accogliessero benevolmente, sulla scia della politica del momento, pochissimi riuscivano ad abbandonare i luoghi natali: espatriare era una faccenda difficile, necessitavano soldi e viveri, e le famiglie abbondavano di donne e bambini che non potevano affrontare un pericoloso viaggio di intere settimane, con soli mezzi di fortuna! Accadde così che l’emigrazione interessò i pochi maschi che riuscirono a farlo, in genere padri di famiglia che speravano di sistemarsi al nord per poi chiamare presso di sé i propri cari. Un’utopia, un miraggio. Gli schiavi del sud superavano i 4 milioni di individui e il rapporto tra bianchi e neri era di un bianco ogni 50 neri: anche volendo, non ci sarebbe stato modo di sistemarli tutti. La maggioranza degli ex schiavi rimasero nelle terre poi messe all’asta dagli Stati dell’Unione e vendute al migliore offerente: vale a dire ai nordisti e a quei pochi sudisti che durante la guerra erano riusciti ad arricchirsi sulla pelle altrui. I neri, liberi e quindi abusivi a tutti gli effetti, furono tenuti come affittuari delle terre e, giacché non potevano pagarne l’affitto col denaro lo avrebbero fatto col lavoro. Ma non basta: su di loro fu caricato il pagamento del noleggio degli attrezzi agricoli, delle sementi e di tutto ciò che abbisognava per la cura delle nuove piantagioni. Debiti su a debiti che venivano saldati con l’accaparramento da parte del padrone del 70% dei frutti. Una nuova schiavitù che non aveva speranza di affrancarsi, in quanto perfettamente legalizzata: l'ex schiavo, malgrado non ancora cittadino Americano, godeva tuttavia di diritti civili pari a quelli degli altri uomini liberi e, come tutti, aveva il dovere di assumersi la responsabilità dei propri debiti. In questi casi, si sa, la Legge è sempre bianca. Ci si chiederà come sia possibile, almeno per consistenza numerica, che il nero non abbia deciso di ribellarsi, di affrancarsi da uno stato di cose che alla lunga lo avrebbe di certo annientato. La risposta risiede nella stessa natura dell’uomo di colore, capace di adattarsi e piegarsi come nessun altro, nella propria concezione della vita, nella sua ignoranza, nel forte credo religioso che lo avrebbe in seguito portato al vero riscatto e, purtroppo, alla nascita del Ku Klux Klan. Questa ignobile organizzazione nacque già nel 1865 per volere di ex ufficiali dell’esercito confederato come ”reazione e opposizione” al governo centrale, che si era completamente dimenticato delle vedove e degli orfani di guerra, concedendo però la libertà e il diritto di voto al nero, sgretolando in più le leggi segregazioniste che impedivano agli schiavi di espatriare. Fondatore fu il Generale Forrest, appellato poi Grande Mago recuperando se vogliamo l’odore di società segreta e massoneria. Gli infami individui spadroneggiavano per le piantagioni punendo i neri, colpevoli di essersi ribellati alla propria condizione ”naturale” di schiavitù. Picchetti di frontiera uccidevano senza controllo chi tentava di espatriare, e le violenze su donne e bambini ritornarono cose di tutti i giorni. Il Ku Klux Klan inoltre aveva pieno controllo sulla polizia locale, sui giudici e su una folta schiera di politici, a cui lo schiavismo faceva comodo. I pochi proprietari bianchi che osavano denunciare questo stato di cose al Governo Centrale venivano trattati alla stregua dei neri, soprattutto quando l’esercito dell’Unione abbandonò definitivamente il sud.


Bande del Ku Klux Klan metà 1800

La musica rimane per l’Afro-Americano l’unica ancora di salvezza: e lui se ne serve in duplice maniera. Da un lato la utilizza come riscatto morale, spirituale, gridandola in chiesa come l’appello di un’ anima tormentata al proprio Dio, a cui il dolore viene offerto come speranza di liberazione. Dall’altra, invece, si aggrappa al lato più oscuro dell’ anima Africana, si sposa al voodoo e alla magia nera e, utilizzando lo schema atavico del botta e risposta, diviene codice segreto di comunicazione tra gli individui. Il double talk (il doppio senso) già conosciuto al pubblico bianco nell’ambito dei MINSTRELS dove il nero diveniva parodia di se stesso, ORA assume un significato di comunicazione ad ampio raggio. Determinati vocaboli cominciarono ad acquisire significati occulti atti a favorire le riunioni collettive, informare delle condizioni di vita di chi espatriava e perfino a rivelare i luoghi in cui si nascondevano i neri ribelli. Piuttosto che di Musica si può quindi parlare di ”pratiche” musicali che tra il 1865 e il 1871 assunsero significato fondamentale per il cambiamento della società Afro-Americana.

Le primissime canzoni del nero liberato che utilizzano il double talk per esprimere la condizione sociale in cui viveva, senza timore di venire maltrattato per ciò che cantava, aveva lo stile delle vecchie ballate medioevali anglosassoni, ma con un sapore del tutto Africano. Tali canzoni ci sono arrivate già epurate del loro significato occulto, ma è possibile ancora trovarne qua e là alcune tracce: parlo di UNCLE RABBIT, oppure THE GREY GOOSE, in cui il bestiario umano veniva ”nascosto” in quello animale; ma mi riferisco soprattutto alle bellissime JOHN HENRY, BOLLWEAVILLE, STEWBALL e altre dello stesso periodo.

Abbandonato il banjo, divenuto ormai trofeo del Country, l’ex schiavo rivolge il proprio dolore e il proprio senso di solitudine alla chitarra e all’ armonica, strumenti semplici, economici e in grado di ricalcare l’abitudine Africana del botta e risposta. Ben presto quindi la ”ballata” lascia il posto ad un modo del tutto nuovo di interpretare la musica del silenzio, della disgregazione e dell’alienazione sociale. Un semplicissimo giro di DO, che poteva eseguire anche un bambino, accompagnava discretamente la vera arma della comunicazione tra ex schiavi: la voce e il suo delirio.

Molti degli Stati del Sud affermano di essere la patria del Blues. Tuttavia oggi è certo che la vera anima della musica che cambiò il mondo abbia visto i natali sul Delta del Mississippi, quelle fertili zone a ridosso dell’Arkansas e che ospitavano immani piantagioni di tabacco e cotone. Qui trovavano rifugio centinaia e centinaia di ex schiavi, che vi lavoravano 15 ore al giorno, mischiati alla feccia della popolazione bianca, quella fetta poverissima di immigrati provenienti per lo più dall’ Irlanda e che nessuno voleva assumere. All’epoca neri, zingari, Irlandesi e (ahimè) Italiani erano invisi alla civilissima società Americana, che li appellava ”straccioni, ubriaconi e rissosi ominidi di Oltreoceano”. Separati dagli altri i Cinesi, che comunque costituivano una comunità a sé, già oppressa dalla loro brutalissima Mafia. Negli Stati del Nord, se gli andava bene, tutta questa gente veniva confinata in ghetti dal nome grazioso, tipo Little Italy o China Town, o quartieri come il Bronx, dove ci si uccideva per nulla e dove prostituzione, alcool e assassinio era la semplice quotidianità. Chi voleva sperare di sopravvivere in queste realtà doveva soccombere e piegarsi ai soprusi di ogni genere, oppure auto-confinarsi negli Stati del sud, dove le immani opere di bonifica, costruzione di ferrovie, spaludamento di fiumi e piantagioni reclutavano continuamente gente. Qui la vita era un inferno: la malaria, il colera, le malattie polmonari, la sifilide mietevano vittime, la paga era irrisoria e il cibo uno schifo. L’alcool veniva fabbricato con le bucce di patate, l’ età media delle prostitute era di 12 anni e la speranza di vita non superava i 35. Tuttavia fortissimo era il senso di comunità, di aiuto reciproco tra diseredati e, per forza di cose, nulli erano gli ostacoli di natura razziale. Strimpellare due note e cantare le proprie disgrazie divenne una grande valvola di sfogo e tutti, senza eccezione alcuna, se ne servivano. In questi luoghi abbandonati da Dio la religione e la spiritualità contavano poco, e il blues di queste zone si riempie di carnalità, di depravazione, di rancore verso il potere e di speranza di ribellione. E, poiché Dio era assente, rimaneva comunque Satana. Attingendo a piene mani al proprio retaggio Africano, alla cultura animista, al rito del voodoo e di tutto il grande calderone di superstizioni, riti pagani e invocazioni agli spiriti superiori mischiati insieme, nacque una musica che era contemporaneamente un inno di ribellione e un grido di dolore. Accadde che bianco e nero non solo ”cantarono” ma ”partorirono” insieme una nuova lingua, di impatto così immediato e di tale facilità musicale che si allargò a macchia d’olio con la forza di un uragano. La fine dell’800 vede così uno sdoppiamento tra la società dei derelitti: da un lato chi abitava nelle città, frequentava la Chiesa e attingeva la propria forza di sopravvivenza dalla consapevolezza che gli uomini erano tutti uguali al cospetto di Dio; dall’altra i veri bluesman, gli emarginati tra gli emarginati, che vivevano in una realtà a parte e che Dio non solo non lo conoscevano affatto, ma neanche lo avrebbero voluto. Poiché se Dio esiste COME può non volgere gli occhi sulla sofferenza umana?

La spaccatura diviene evidente quando si affronta il contenuto delle blues songs. Accadde che la società nera "emancipata“, quella che svolgeva lavori umili ma integrati nella società bianca

(i facchini, gli scaricatori di porto, gli operai di bassa lega ma anche le donne delle pulizie, le cuoche, le balie, le serve) cominciò a servirsi del blues per narrare ad altri la propria quotidianità, un esperimento che riusciva ad inserirci la famiglia, l’amore, i fatti della propria vita e - perché no? - anche Dio. Canzoni alla portata di tutti, definite spesso Urban songs, diffuse da una folta schiera di uomini sia bianchi che neri che vivevano come zingari, viaggiavano clandestini sui treni e si sfamavano facendo lavoretti qua e là, narrando poi in musica le proprie avventure. Alla fine dell’800, quindi, si può dire che esistevano DUE tipi di blues, nettamente diverse tra loro e la cui linea di demarcazione era rappresentata dalla classe sociale di appartenenza. Da un lato un Blues popolare e decisamente ”annacquato“, pubblicizzato dalle varie organizzazioni di bianchi che ne avevano compreso il grande potere commerciale .Dall’altro il blues delle paludi, dei derelitti con la D maiuscola, che cantavano la rabbia dello schiavo nei confronti del padrone bianco e che, mischiando Satana nelle proprie canzoni, risultano invisi ai bianchi quanto ai neri. Un blues carnale e prepotente lasciato, insieme ai propri autori brutti, sporchi e cattivi, nel completo oblio fino alla sua riscoperta artistica alla fine degli anni ’50. Chiaramente di quest’ ultimo ”verace” blues non esistono registrazioni dell’epoca.


Sulle rive del Mississippi, 1870

I due blues ebbero sorti diverse: tra il 1870 e il 1890 il folk nero iniziò a diffondersi per le campagne grazie a dei teatrini improvvisati su carrozzoni ambulanti, gestiti da bianchi o da neri emancipati che si autodefinivano dottori o guaritori. Essi vendevano pozioni miracolose ( in genere erbe mischiate all’ alcool o ancora più spesso acqua e alcool) per curare ogni male i quali, per attirare più pubblico, obbligavano i propri lavoranti neri ad esibirsi in canzoni improvvisate strimpellate sulla chitarra o con l’armonica, che narravano di una semplice e fantasiosa quotidianità. Canzoni che, rivolgendosi a un pubblico eterogeneo ma che richiamava molti bianchi, era volutamente adattato ed epurato da significati oscuri. I primi artisti erano ex braccianti agricoli i quali, per mangiare, si piegavano anche alle regole dei Minstrels Show, accettando quindi di divenire parodia di se stessi. In seguito furono preferiti gli ex galeotti, i quali potevano attingere alle cosiddette Midnight Special, brani molto suggestivi nati in prigione e che erano musicalmente più articolati. In breve, a questi rurali artisti ne furono aggiunti altri: giocolieri, ballerine, maghi, che resero i carrozzoni una vera attrazione, tale da definirli Varietà neri. I primi ad organizzare un teatro stabile di questo tipo di blues furono due Italiani, i Fratelli Barrasso. Essi inaugurarono il loro locale a Memphis nel 1907,dando alla luce Il TOBA, una delle più schiaviste e famigerate Organizzazioni che si arricchirono letteralmente sulla pelle degli artisti neri, a cui veniva concesso solo di che vivere stentatamente. Un mercato in cui giravano fior di quattrini e che ben presto destò l’interesse delle prime grandi Case discografiche, le quali registrarono negli anni ’20 delle canzoni ”su misura” scritte da compositori specializzati come William Handy, il quale in breve sfornò 4 grandi successi. ST.LOUIS BLUES (1914), MEMPHIS BLUES e BEALE STREET BLUES (1917) e la famosa HARLEM BLUES (1923). Furono proprio le case discografiche ad appellare questo genere di musica nera “BLUES” (triste, malinconico), per distinguerlo dai Minstrels ancora abbastanza diffusi. Un grande giro d’affari, ma soprattutto un fortunato impatto emotivo che andava OLTRE la condizione sociale e le barriere di stampo razziale. Un pubblico gremito affollava i teatri dove si esibivano le Grandi Stelle del Blues, quelle pochissime cantanti nere che, grazie alla propria voce e alla capacità empatica di entrare direttamente nel cuore di tutti, riuscirono ad affrancarsi dalla povertà, entrando contemporaneamente nella Storia. Un successo economico e uno status sociale invidiabile raggiunti a caro prezzo: angherie inaudite e abusi sessuali di cui le stesse protagoniste non accettarono mai di parlare.

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