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Guarino a Firenze. (1410-1414)

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33. Guarino pertanto nel marzo 1410 andò a Firenze, dove iniziò la sua lunga e famosa carriera didattica. Ivi trovò buona accoglienza e schietti amici e valenti scolari. Antonio Corbinelli gli offrì la propria casa, nella quale Guarino divise col suo ospite liberale «gli studi, i pensieri, il vitto, il sonno, i discorsi». Un amico sincero ebbe nell'«ottimo e generoso» Palla Strozzi, con cui lavorava in comune. Era in buoni rapporti con Angelo Corbinelli, «esemplare come uomo di stato e come educatore dei propri figliuoli;» con Paolo Fortini cancelliere della repubblica; con Roberto Rossi traduttore di Aristotele; con Antonio Aretino già magistrato a Vicenza, con Biagio dei Guasconi, con Girolamo Barbadoro, con la famiglia Boninsegni, col monaco Ambrogio Camaldolese. Tra i suoi migliori scolari di Firenze vanno ricordati i due Corbinelli e Giovanni Toscanella.

34. Oltre di questi amici c'erano in Firenze alcuni veronesi, come Luigi Cattaneo, che fu in Firenze giudice della mercanzia nel 1411, e il Giuliari, suo segretario. Nella metà poi del 1413 la vita letteraria a Firenze si dovette maggiormente animare per la presenza della corte di Giovanni XXIII; sebbene egli non potesse entrare in città, dove entrarono però quelli del suo seguito. Qui rivide Guarino tutti gli amici che aveva imparato a conoscere in Bologna e rivide anche il venerato suo maestro Crisolora.

35. Con la società letteraria del resto che si raccoglieva intorno al pontefice negli anni che la curia stette a Roma (1411-1413) Guarino era da Firenze in continua corrispondenza, specialmente col Crisolora. Il Crisolora, venuto la prima volta a Roma con Giovanni XXIII nel giugno del 1411, rimasto ammirato della grande metropoli dell'Occidente, approfittando dei suoi ozi scrisse una dissertazione dove mise Roma a raffronto con Costantinopoli, la grande metropoli dell'Oriente, e ne mandò una copia a Guarino. Guarino gli rispose ringraziandolo e facendo le sue lodi.

36. Oltre che con la società letteraria a Roma, Guarino entrò per mezzo di un suo vecchio amico in relazione con quella di Rimini, che metteva capo al marchese Carlo Malatesta, «eroe della penna e della spada»; con lui Guarino avviò scambio di libri.

37. Ma molto più vivi sono i rapporti di Guarino coi tre centri letterari del Veneto: Verona, Padova, Venezia. I due veronesi Guglielmo della Pigna e Luigi Cattaneo lo tenevano in relazione con la società di Verona. Il Cattaneo studiava legge a Padova. A Padova regnavano allora Gasparino Barzizza bergamasco e un condiscepolo di Guarino, Ogniben Scola padovano, intorno ai quali si raccoglieva tutta l'attività letteraria. Lo Scola specialmente era di una grande versatilità e, si direbbe, elasticità. Corrispondeva col Bruni e con lo Zabarella, che erano presso la curia papale, e con Antonio Capodiferro; coi veronesi Giovanni Nogarola, Paolo Maffei, Luigi Cattaneo, il Giuliari; coi veneziani Giovanni Micheli, Niccolò Contarini, Marco Lippomano, Pietro Donati, allora (1412) protonotario e più tardi arcivescovo di Creta, e coi due Barbaro, Francesco e Ermolao, zio e nipote: Francesco giovinetto di ottime speranze, Ermolao poco più che bambino d'ingegno precoce.

38. Con questa società gaia, mobile, studiosa aveva strettissimi legami Guarino. Erano suoi amici tutti, che aveva avuto occasione di conoscere o a Venezia o a Padova prima di andare a Costantinopoli o nel ritorno; alcuni erano suoi confidenti, il protonotario Donati e i fratelli portoghesi Alfonso e Valesio, alunni del Barzizza. Ed egli si piace di rappresentare umoristicamente quella società padovana. «Ai pranzi di Pietro Donati non s'imbandisce Cicerone, Fabio e Macrobio, ma Alessandro, Perdicca e i sacerdoti Galli. A Padova si adora per patrono il dio Bacco, a cui si fa festa tutti i giorni. E gli iniziati del dio cominciano sin dal mattino a chiamare a raccolta con certe facce rubiconde, con certi nasi maestosi e bitorzoluti, con certi occhi lagrimosi! Ivi mattina giorno e sera sempre orgia. Altro che il ginnasio di Socrate e l'accademia di Platone! in illis namque disputari solitum aiunt, in his vero nostris dispotari, immo trispotari quaterque potari frequens patriae mos est.... Academici de uno, de vero, de motu disserunt, hi nostri de vino, de mero, de potu dispotant.

39. Questa società però attraversò un brutto momento. Negli anni 1411 e 1412 le città venete Udine, Venezia, Verona furono funestate da una terribile invasione di Ungheri; Padova, Vicenza, Verona vennero conquistate e saccheggiate. Lo Studio di Padova si chiuse, il Barzizza si rifugiò a Ferrara, lo Scola a Verona e di là a Cremona, i giovani patrizi veneziani a Venezia. Guarino soffrì molto per i danni toccati alla sua amata Verona; e fosse per questo o per non so quali altri motivi, l'anno 1412 gli passò molto triste. «Tutti i favori della sorte mi si mutano in contrarietà; i pensieri, le deliberazioni sortiscono l'effetto opposto. Le mie più belle e più fondate speranze mi sguisciano di mano come serpenti. Fa una bellissima giornata? Mi metto in viaggio e giù acqua e grandine a rovesci: tutto mi succede al contrario dei miei desideri. Sicchè eccomi qui errante e ramingo mutar luogo ma non fortuna». E finisce invidiando all'amico Scola, a cui scriveva così sconfortato, la costanza nelle avversità e l'anima veramente stoica.

40. Par di vedere in Guarino come scossa e pericolante la sua posizione di professore a Firenze; altrimenti non si saprebbero spiegare quelle sue querimonie. Che egli avesse in quella città incontrate molte e potenti amicizie, si è veduto; bastino i nomi di Antonio Corbinelli, Roberto Rossi, Palla Strozzi, tutte persone autorevoli e a lui sinceramente affezionate. Ma è anche certo che vi deve aver trovato non poche ostilità. Se ne sente l'eco, un po' lontana ma abbastanza viva ancora, in una lettera posteriore di alcuni anni. «Io chiamo in testimonio Dio e i suoi santi, che nel tempo che io fui a Firenze non sorse, direi, giorno, che io non fossi tormentato da brighe, da insulti, da litigi. Vi è in codesta setta malvagia tanta smania, anzi avarizia di gloria, non di quella vera, ma di quella effimera e apparente, che pur di conseguirla non hanno alcun riguardo alla riputazione altrui. Onde non lodano nessuno se non con frasi mozze e soggiungendo sempre: — Si aspetta che faccia meglio per l'avvenire. — Se ti sentono lodare uno, se ne hanno a male, brontolano, fanno i visacci e, come se la lode data agli altri andasse a scapito della propria, invidiano i lodati e mordono i lodatori. Di qui animosità tra loro, odio contro gli altri. Queste non sono amicizie ma cospirazioni». Conchiude: at vero paucorum improbitas plus ad nocendum quam plurimorum amor, modestia ad iuvandum pollet, praesertim cum fragile patrocinium haberi soleat ubi apud huiusmodi ingenia per innocentiam victitare studeas.

41. A chi alluda qui Guarino, non si sa, toltone Lorenzo Benvenuti. Si capisce bene che la vita di un uomo si intreccia con quella di altri che sono illustri, di altri che sono oscuri; e di persone oscure si tratta qui senza dubbio. Ma non era oscuro al contrario un altro fiorentino, che osteggiò accanitamente il nostro Guarino: quello stesso che lo chiamò allo Studio di Firenze e che fu poi forse causa di farnelo partire, intendo il Niccoli.

42. Sul Niccoli i contemporanei e specialmente i suoi nemici, come il Bruni e il Filelfo, non lasciarono sfuggirsi occasione di dire tutto il male possibile e caddero in esagerazioni. Ma dall'ammettere le esagerazioni al negare ogni fede alle loro, sia pur passionate, asserzioni, ci corre un bel tratto. Fu sparsa dal Filelfo la notizia che il Crisolora, Guarino, l'Aurispa, chiamati a Firenze dal Niccoli, furono poi da lui stesso o per invidia o per ingenita malvagità mandati via. Per l'Aurispa l'accusa è falsa, ma per il Crisolora, della cui partenza da Firenze si adducono altri motivi, non è falsa interamente, giacchè il Bruni in una lettera al Niccoli parla chiaro di animosità di costui contro il Crisolora. Quanto a Guarino poi l'accusa è vera almeno per metà; non sarà stato il Niccoli la sola causa per cui Guarino abbandonò Firenze, ma una delle principali senza dubbio.

43. Il Niccoli aveva delle buone qualità; e un amatore degli studi classici gli perdona molto, perchè molto ha fatto in vantaggio di essi, specialmente col raccogliere e copiare manoscritti. Guarino nella sua invettiva contro il Niccoli è un po' troppo crudele, quando mettendolo in canzonatura lo riduce alle proporzioni di un asino carico di libri. Già il raccogliere codici e materiali era merito non piccolo per quei tempi di preparazione. Ma lasciando ciò, era forse il Niccoli null'altro che un semplice e dozzinale copista? Egli studiava e discuteva la forma delle lettere, facendo così opera utile, perchè su questa via egli fu condotto senza accorgersi a trattare questioni ortografiche. L'ortografia non è disciplina oziosa e lo mostrarono tutti quegli umanisti, che se ne occuparono di proposito, dal severo Barzizza al geniale Poliziano, non escluso Guarino stesso, che compose più tardi un trattato sui dittonghi latini e uno sugli spiriti greci: del resto nell'emendamento dei testi chissà quante volte egli non avrà discusso seriamente questioni di ortografia. Il Niccoli aggiunse due elementi nuovi a queste ricerche: il confronto delle forme latine con le corrispondenti greche e il sussidio delle lapidi, le quali non soffrono le alterazioni, a cui vanno soggetti i manoscritti.

44. Dove Guarino ha ragione è nella pittura che fa del carattere morale del Niccoli. Il Niccoli era in verità uomo moralmente meschino, che dava molto appiglio alla satira e alla caricatura. Quel vantarsi di saper tutto e dar la baia agli altri, mentre poi egli si lasciava cogliere grossolanamente in fallo, era uno dei suoi capitali difetti. Suo difetto era pure una tal quale burbanza da superiore coi pari; talchè si è tentati a prestare intera fede a Guarino, dove racconta che il Niccoli gli domandò dei codici, spacciando nei crocchi che egli fosse suo schiavo. Altro suo difetto era l'invidia e deve esser vero il fatto narrato da Guarino, che venuto il Niccoli in gelosia di un condiscepolo, a cui era inferiore per ingegno, volesse obbligare lui, Guarino, a cacciarlo dalla scuola. Ma Guarino era uomo di carattere e non si sarebbe a niun costo piegato a servire così bassamente i fanciulleschi dispettucci del suo protettore. Guarino oppose energica resistenza; e il Niccoli lo cominciò a perseguitare prima nei circoli privatamente, poi pubblicamente con una lettera.

45. Guarino non recedette: ut conviciari et maledicere petulans superbumque arbitror, ita respondere et remaledicere civile fasque iudico; e rispose. Non possiamo dire se fosse più mordace la risposta o la provocazione; ma la mordacità guariniana non fa certamente torto alla tempra dell'uomo. Dopo tutto Guarino fu il provocato e quanto a nobiltà d'animo ne avea da vendere al Niccoli e a molti altri. Pongasi poi mente al concetto che Guarino si era formato dell'uomo di lettere e si vedrà che distanza da lui al Niccoli. Egli ebbe ragione di spargere il ridicolo sul Niccoli, che si rese schiavo degli sciocchi capricci e delle prepotenze di una druda; ebbe ragione di affermare, che il volgo non poteva non scandolezzarsi di un uomo, il quale delle lettere si facea scudo a peccare: perchè nel concetto di Guarino il letterato deve essere virtuoso, deve avere un alto valore morale, deve essere insomma un uomo superiore.

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