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CAPITOLO PRIMO
San Pietroburgo

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«Shaibu, shaibu», gridò Aleksej, mentre uno stridere di pattini sul ghiaccio faceva da sottofondo. Un colpo di mazza violento e il disco nero colpì rapido il suo bersaglio.

«Bravi!! Continuate così… ancora più veloci… pattinare e colpire forte».

«Aleksey… possiamo fermarci un attimo… siamo esausti» – replicò Nikita – completamente sudato sotto l’imbracatura da portiere di hockey. A guardarlo da lontano sembrava un marziano, con la maschera che gli copriva il viso ed i guantini troppo grandi per reggere il bastone. Doveva difendere la porta dagli attacchi ripetuti dei compagni di squadra, ma la sua mente era altrove, distratto com’era dal gruppetto di splendide ragazze che osservavano da bordo pista.

«Ragazzi venite qui al centro della pista… devo parlarvi» ordinò urlando Aleksej, intenzionato a farsi sentire da tutti i componenti della squadra, anche da quelli che erano più lontani. Tutti, all’unisono, si misero a pattinare velocemente e formarono un cerchio intorno al loro capitano.

«Che sia chiaro per tutti… ci restano solo poche settimane per il torneo di hockey interforze e… da quello che vedo… non siamo ancora pronti. Se i miei metodi di allenamento non vi vanno bene… allora lamentatevi con il Generale Govorov. Ma sapete già come andrà a finire… quindi niente storie e riprendete a pattinare alla svelta. Tu… Nikita… un rapporto da me al termine dell’allenamento».

«Sì… signor Maggiore» – mentre Nikita mettendosi sugli attenti faceva il saluto militare.

Anche con la maschera si poteva notare il suo sorriso e la leggera ironia con cui aveva pronunciato quella frase. Sapeva che poteva contare sulla grande amicizia che lo legava ad Aleksej e non lo preoccupava più di tanto doversi presentare un rapporto dal suo superiore. Nikita spesso aveva abusato di questa sua posizione privilegiata. Arrivava quasi sempre in ritardo agli aggiudicati ed era il primo a lamentarsi ea sotto la doccia.

Aleksej l'aveva preso a ben voler fin dal suo arrivo in Accademia e si era preso cura di lui. Era il più piccolo del gruppo ma aveva un carattere eccezionale, sempre di buon umore e con la battuta pronta in ogni circostanza. Tra l'altro era anche un ottimo portiere e Aleksej lo spronava sempre a migliorarsi. Credeva in lui. Raccontava a tutti che se si fosse impegnato sul serio aveva la stoffa per diventare il migliore portiere che l'Accademia avesse mai avuto negli ultimi dieci anni.

«Bene così… tutti a fare la doccia» – disse il Generale Govorov – soddisfatto per l’impegno mostrato in allenamento dai suoi ragazzi.

Li aveva osservati per tutto il tempo dagli spalti del Palazzo del Ghiaccio di San Pietroburgo.

«Avete solo trenta minuti» – proseguì con tono perentorio il Generale – il nostro bus ci aspetta nel parcheggio e non ammetto nessun ritardo».

Prima di dirigersi verso l’uscita della struttura prese Nikita per un braccio: «Per oggi basta con gli scherzi o neanche il tuo capitano potrà salvarti da una punizione esemplare!!». Subito dopo lanciò un sorriso di complicità verso il suo sottoposto: il Maggiore Aleksej Robertovic Marinetto.

Il cognome di Aleksej tradiva le sue evidenze origini italiane. Aveva già compiuto 25 anni e fin da bambino era stato scelto per frequentare l'Accademia Militare per cadetti di Orenburg, negli Urali meridionali, a circa 1.200 chilometri da Mosca. Era un'accademia molto prestigiosa alla quale venivano ammessi solo figli e nipoti della nomenclatura russa. Aleksej poteva vantare tale diritto in quanto suo nonno era un generale in pensione. Al tempo della vecchia Unione Sovietica era stato un esponente di rilievo del disciolto KGB, il servizio segreto russo.

Aleksej aveva fatto carriera con rapidità sorprendente fino a raggiungere il grado di Maggiore dell’esercito carriera con orgoglio ad amici e parenti. Da qualche anno era in pianta stabile presso l’Accademia Militare di San Pietroburgo, dove ricopriva il ruolo di capitano e assistente allenatore della squadra di hockey della scuola. Il suo capo e mentore, il Generale Aleksandr Nikolaevic Govorov, era stato membro della «squadra degli invincibili», la compagine che per anni aveva stravinto i giochi invernali di hockey per l’URSS. Solo una macchia indelebile aveva condizionato la sua incredibile carriera di hockeista, dalla quale non seppe più riprendersi e che segnò il suo ritiro dalle gare. Lo feriva ancora il ricordo di quei XIII Giochi Olimpici Invernali di Lake Placid (USA) dove la sua squadra fu battuta in semifinale dagli USA, all’epoca formata solo da studenti universitari e dilettanti. Fu uno scacco incredibile per la «squadra degli invincibili». Alla fine riuscirono comunque a vincere la medaglia d’argento ma per anni si parlò solo del «miracolo sul ghiaccio» da parte degli americani, con tanto di film hollywoodiani sul tema.


2


L’autobus era pronto sul piazzale, con il motore acceso, in attesa dell’arrivo dei cadetti. Tutti furono puntuali e salirono con ordine per sedersi nei posti loro assegnati, seguiti dagli sguardi severi del Maggiore Alexej e del Generale Govorov. L’ultimo ad arrivare fu Nikita che, come al solito, si prese uno scappellotto dal suo comandante. Fuori l’aria era ancora umida per la pioggia caduta incessantemente e tutti si misero ad osservare dai finestrini l’imminente tramonto del sole. Era uno spettacolo incredibile. La sfera arancione stava per arrendersi alle prime luci della sera e improvvisamente sparì con il suo bagliore dietro enormi palazzoni grigi. Govorov prese posto accanto al suo vice allenatore e dopo alcune parole di circostanza, sul morale della squadra e la preparazione atletica, improvvisamente si fece serio e cambiò tono alla conversazione.

«Aleksej… domani mattina alle 9.00 devi presentarti dal Comandante, Generale Sherbakov, per comunicazioni urgenti che ti riguardano. Mi è stato detto di riferirti questo messaggio di persona perché non volevano che passassi per la solita trafila burocratica».

Il Maggiore rimase per un attimo pensieroso e poi tentò di azzardare una richiesta: «Generale» – disse timidamente – «posso farle una domanda personale?».

«Certamente», rispose Govorov, «chiedi pure».

«Da bambino il nonno mi raccontava che quando si ricevono messaggi di questo tipo… alquanto insoliti… allora c’è da temere per la propria carriera o peggio… per la propria vita».

Il Generale scoppiò in una fragorosa risata che mise in imbarazzo Aleksej.

«Maggiore… può dire a suo nonno che i sistemi del KGB sono finiti ormai da tempo. Stia pur tranquillo… al massimo sarà trasferito ad altro incarico… forse addirittura a Mosca», replicò con tono pacato e sorridente. Il Generale sapeva molto di più di quello che diceva ma Aleksej non volle insistere; con la sua curiosità aveva già osato abbastanza. In fondo doveva aspettare solo poche ore per conoscere i particolari di quella strana convocazione avvenuta fuori dai canoni ufficiali.

In ogni caso un senso di agitazione lo assalì durante tutto il tragitto fino all’Accademia, anche se cercò di mascherare il disagio mantenendo il suo solito contegno. Desiderava non insospettire gli altri commilitoni e voleva evitare qualunque tipo di domanda. Inoltre non era il tipo di uomo che si lasciava andare a facili confidenze, nemmeno con i suoi amici più stretti e fidati. Cenarono alla mensa degli ufficiali e Nikita, come al solito, non fu parco di scherzi e battute.

Qualcuno aveva portato la chitarra e tutti insieme invitarono Aleksej a suonare un brano italiano, di quelli che la mamma gli aveva insegnato quand’era piccolo. «Sono un italiano… sono un italiano» gridavano a squarciagola e il Maggiore, pur di calmare quella massa indisciplinata, prese la chitarra tra le mani e cominciò a strimpellare il motivetto che tutti chiedevano a gran voce. Dopo aver ascoltato le parole del Generale Govorov non era dell’umore adatto, ma volle che la serata finisse nel modo previsto e non si tirò indietro.

Si alzò al termine di quella improvvisata «perfomance» e dopo essersi congedato dal gruppo, con passi decisi, si diresse verso il suo alloggio di servizio. Mentre la mente vagava in cerca di una spiegazione logica gli tornarono alla mente le parole del nonno Andrej. «Non fidarti dei militari… non fidarti mai dei tuoi colleghi… diffida di tutto e di tutti… lasciati sempre una via d’uscita… per quanto questa possa essere difficile e pericolosa».

Con un colpo secco chiuse dietro di sé la porta della stanza e, senza togliere l’uniforme, si sedette al centro del letto. Si sentiva veramente stanco, come se avesse perso tutte le energie, fisiche e mentali.

Delicatamente tirò fuori dal portafoglio alcune vecchie foto sbiadite: la prima mostrava suo nonno che, impettito nella divisa da generale, faceva bella mostra di tutte le medaglie che aveva meritato in tanti anni di onorato servizio presso il KGB. Era in pensione da diverso tempo e viveva in una bella casa vicino al centro di Mosca. Purtroppo da qualche anno era rimasto da solo. L’amata moglie Olga era morta prematuramente, colpita da un male incurabile che se l’era portata via all’improvviso. Per il Generale Andrej Vladimirovic Halikov quella era stata la missione più dolorosa e difficile della sua vita, dalla quale ne era uscito sconfitto.

Aveva dovuto arrendersi all’inevitabilità di quella perdita e si rammaricava di non essere riuscito a tener fede alla sua «promessa». Aveva giurato ad Olga che, una volta in pensione, avrebbero viaggiato insieme e fatto il giro del mondo. L’avrebbe portata in posti lontani e bellissimi, avrebbero visitato Madrid, Londra, Roma. In compagnia della moglie desiderava godersi in santa pace mostre, musei, parchi. Magari l’avrebbe portata al teatro della Scala di Milano o al Louvre di Parigi.

Erano i luoghi dove Andrej aveva portato a termine con successo le sue missioni più importanti. Era stata una brillante spia russa, probabilmente la più famosa all’interno del KGB. Molti lo ammiravano ancora, nonostante fosse da tempo in pensione. Anche nell’SVR, il nuovo servizio segreto russo, da molti era considerato una leggenda vivente.

Durante il periodo della guerra fredda aveva superato mille pericoli e difficoltà. Una volta era stato anche ferito seriamente ma non fu mai catturato e seppe cavarsela sempre egregiamente. Quello era stato il periodo più eccitante ed avventuroso della sua vita ma l’improvvisa morte della moglie gli aveva tolto ogni desiderio di vita. Era stato un colpo tremendo che lo aveva spezzato dentro e da allora non aveva avuto più la forza di reagire.

Aleksej, guardando quella foto, sentiva che anche suo nonno – il militare tutto d’un pezzo – in fondo aveva un’anima. Ebbe compassione per quel vecchio che non vedeva da così tanto tempo e fu tentato dal telefonare per chiedergli un consiglio. Ma abbandonò subito quell’idea. Ancora gli risuonavano nella testa le parole di sua mamma che aveva vietato a tutti i familiari, lui compreso, di recarsi a Mosca per partecipare alle esequie di nonna Olga, l’amata moglie del nonno.

Lui aveva obbedito, ma contro voglia.

Fu costretto a fare quella scelta ben sapendo che la mamma non gli avrebbe mai perdonato nessun atto di insubordinazione. Stranamente nessuno volle chiarire ad Aleksej i motivi di quella incomprensibile decisione e tutti in famiglia mantennero il segreto. Qualcosa di veramente terribile doveva essere successo tra padre e figlia, tanto grave da «costringere tutti» a restare a San Pietroburgo.

Spesso Aleksej aveva provato ad aprire l’argomento con la mamma ma aveva sempre ricevuto un brusco e netto rifiuto. Una volta aveva cercato di intenerirla dicendole: «Ma Olga è mia nonna… tua madre… sangue del tuo sangue… come puoi fare un atto così deplorevole. Non è da te. Tu che sei una donna giusta… sempre pronta ad aiutare tutti quelli che vengono a chiederti aiuto. Non capisco… perché non mi dici la verità? Perché questo segreto?».

Maria era stata sempre irremovibile con il figlio e l’ultima volta che avevano affrontato l’argomento gli aveva detto, perentoria: «Aleksej possiamo parlare apertamente di tutto quello che desideri ma… due argomenti sono tabù in questa casa… tuo nonno Andrej e tuo padre Roberto. Con questo l’argomento è chiuso e non desidero mai più tornarci sopra».


3


Aleksej mise con cura nell'armadio la sua divisa di Maggiore, facendo attenzione a non sgualcirla perché doveva essere perfetta per il giorno dopo, in presenza del Comandante dell'Accademia. Quindi si mise il pigiama e si stese sul letto. Incrociò le mani dietro la testa e cominciò a fissare il soffitto cercando di tornare con la memoria a quand'era bambino. Come sempre desiderava ricordare il viso di suo padre o, quanto meno, di riascoltare la sua voce. Ma niente.

Nonostante tutti gli sforzi, il nero più assorto si era impossessato del tempo in cui i genitori non avevano ancora insieme. In tutti i suoi venticinque anni aveva sempre sentito la mancanza del padre. Desiderava conoscere quell'uomo con tutte le sue forze per parlargli almeno una volta. Voleva sapere perché lo aveva abbandonato e non si era fatto più vedere e sentire negli ultimi venti anni.

Con il tempo il mistero della fuga del padre si era trasformato in un pesante fardello che gli opprimeva l'anima ed il cuore. La mamma si era sempre prodigata per quell'unico figlio maschio a cui non aveva fatto mancare mai nulla, a cui aveva dato sostegno e amore. Ma nonostante tutti i suoi ad Aleksej era sforzimper mancata una figura paterna e di aver vissuto in una famiglia a metà.

Peraltro Maria, dopo l'abbandono del marito, non si era più risposata e solo recentemente Aleksej aveva scoperto che la mamma non aveva mai divorziato da suo padre. All'anagrafe di San Pietroburgo risultavano ancora ufficializzati sposati. Intuiva che qualcosa di terribile doveva essere capitato alla sua famiglia e percepiva, in ogni caso, che i conti certamente non quadravano.

Innanzitutto si chiedeva come mai la mamma avesse trascorso tutti quegli anni da sola, sempre fedele al marito, come se ne aspettasse il ritorno e come se questo potesse accadere da un momento all'altro.

Aveva provato ad indagare per scoprire la verità ma fino a quel momento aveva trovato ben poco, se non un muro di assoluta omertà. Un giorno era passato a far visita alla mamma ma aveva trovato la casa deserta. Aveva approfittato dell'assenza di Maria per poter frugare in ogni angolo: nei cassetti, negli armadi, in bagno. Fu tutto inutile, non saltò fuori nulla, nemmeno una lettera o una foto che potesse giustificare il tradimento del padre e la fine del loro amore. L'abbandono improvviso di quell'uomo e il suo precipitoso rientro in Italia restavano un fitto mistero ancora irrisolto.

Ma Aleksej continuò imperterrito a non darsi per vinto. Era sicuro che, un giorno o l'altro, trovato i fili giusti e districato quella complicata matassa che continuava ad avvolgere la sua vita e quella della sua famiglia.

Si addormentò con questo pensiero.


4


«Buongiorno signor Generale… Maggiore Aleksej Marinetto a rapporto», e subito si udì nella stanza un colpo netto di tacchi che sbattevano l’uno contro l’altro sul pavimento.

«Riposo Maggiore… si accomodi pure sulla sedia», rispose il Generale Sherbakov, mentre lo fissava con aria severa.

«Immagino la sua sorpresa per questa convocazione inaspettata ma… le assicuro che non è nulla di grave».

Aleksej guardò il suo comandante con viva preoccupazione, aggrottando le sopracciglia così com’era solito fare nei momenti di tensione.

Ma non ebbe il tempo di aprire bocca perché il comandante Sherbakov lo incalzò repentinamente: «Si tenga pronto a partire per domani mattina alle 6.00… un’auto di servizio l’accompagnerà all’aeroporto civile Pulkovo dove prenderà l’aereo per Mosca».

Quindi gli porse un foglio e aggiunse: «Questa è la sua prenotazione. Dovrà viaggiare in abiti civili e non dovrà comunicare con nessuno, civile o militare che sia. Il suo trasferimento ha carattere di massima urgenza e riservatezza, per cui si attenga scrupolosamente agli ordini».

«Sì… signor Comandante», si affrettò a rispondere Aleksej, ancora incredulo per l’ordine di trasferimento appena ricevuto.

«Mosca… Mosca…”, ripeteva tra sé e sé, «ma cosa ci vado a fare a Mosca… lì non conosco nessuno… non capisco… vuoi vedere che dietro tutto questo c’è lo zampino di nonno Andrej?».

Si alzò di scatto dalla sedia e si rimise sull’attenti. Poi con l’espressione sempre più preoccupata si rivolse al Comandante: «Signor Generale posso chiedere qual è la destinazione finale? Presumo l’Accademia Militare di Mosca».

«Maggiore Marinetto…», replicò infastidito il Generale «si attenga ai suoi ordini e non faccia più domande. All’aeroporto Domodedovo di Mosca troverà qualcuno ad attenderla. Questo è tutto».

Aleksej si congedò dal suo Comandante e si diresse verso gli alloggi. Era il suo giorno libero e nessuno gli aveva ordinato di restare confinato in caserma ne aveva letto un ordine di servizio in tal senso. Aveva ricevuto solo l’ordine di presentarsi la mattina seguente in aeroporto e prendere il volo per Mosca. Nulla di più.

Quindi si cambiò e in abiti civili si diresse verso l’uscita. Presentò i propri documenti e il permesso di libera uscita alla guardia e in un attimo raggiunse la fermata della metropolitana. Prima di partire desiderava passare a salutare la mamma. Agli amici avrebbe pensato quella stessa sera, al rientro in Accademia. Doveva mantenere un atteggiamento di assoluta riservatezza e non rivelare a nessuno, neanche alla mamma, il giorno della partenza e la sua destinazione. Sapeva che Maria era una donna sveglia e doveva fare attenzione, anche una minima parola fuori posto avrebbe potuto insospettirla.

Durante il tragitto in metropolitana avrebbe pensato a cosa dirle. Magari poteva tirar fuori la scusa di una licenza e dire che sarebbe partito per una vacanza in compagnia della sua nuova «fiamma». Tutti in Accademia conoscevano le sue doti da «Casanova». Ne aveva cambiate così tante che l’annuncio di una nuova fidanzata non avrebbe sorpreso nessuno, quanto meno la mamma. Solo il prolungarsi della sua presenza a Mosca avrebbe potuto insospettire amici e parenti, ma per quel tempo sarebbe stato già lontano e al riparo da ogni domanda indiscreta. Quindi non aveva motivo di cui preoccuparsi.

Prese la linea due della metro e dopo poche fermate scese alla stazione di Park Pobedy. La casa della mamma non era lontana: doveva percorrere a piedi solo poche centinaia di metri. Arrivato in Via Kosmonatov si diresse verso il portone di ferro, di colore verde bottiglia, poi digitò il codice di accesso e questo si aprì col rumore di uno scatto metallico. Salì i gradini tre per volta, così come era solito fare fin da bambino. Aveva con sé le chiavi e non si premurò di bussare o di avvertire. Maria col tempo si era abituata a quelle sue «improvvisate» e non aveva mai protestato o reagito in malo modo. Era sempre felicissima di rivedere e abbracciare il suo amato figlio, il suo «piccolo Alex», come continuava ancora a chiamarlo.

Aprì la porta d’ingresso cercando di fare il minimo rumore e poi, con un colpo leggero della mano, spostò anche la seconda porta che dava accesso all’interno dell’appartamento. Si appoggiò delicatamente alla maniglia e infilò la testa nel piccolo spazio, tra la porta e il muro.

Prestò attenzione a qualunque suono provenisse dall’interno: desiderava fare una sorpresa alla mamma che all’improvviso se lo sarebbe trovato di fronte.

Aspettò alcuni secondi ma non udì alcun rumore.

Pensò che la mamma fosse uscita a fare la spesa, si tolse le scarpe e si diresse verso il soggiorno. Qui ebbe un sussulto. Una figura femminile sedeva sul divano, in silenzio, nella penombra della stanza. Sembrava quasi che pregasse. Aleksej, preoccupato ma non per questo impaurito, accese subito la luce.

«Mamma!!», esclamò con tono sorpreso, «ma cosa ci fai sul divano… in silenzio… al buio. Stai male? Dimmi… cosa succede?».

Maria girò lentamente lo sguardo verso il figlio ma, diversamente dal solito, non gli corse incontro per abbracciarlo e con le lacrime agli occhi gli disse: «Aleksej… siediti qui… vicino a me. Dobbiamo parlare. È giunto il momento che tu conosca tutta la verità sulla tua famiglia. Su tuo padre… tuo nonno… e tuo fratello».

«Mio fratello…?» replicò Aleksej come inebetito.

«Mamma ma cosa dici… io non ho fratelli… sono figlio unico». Guardò il viso di Maria e vide che le lacrime adesso le uscivano copiose, così come un fiume in piena, inarrestabile.

«Si Aleksej, tu hai un fratello… non sei figlio unico. Un fratello gemello che si chiama Luca».

Prese dalla tasca una vecchia fotografia sbiadita e la mise nelle mani del figlio.

«Guarda… qui avevate tre anni. Io e tuo padre Roberto ci siamo sempre amati e ci amiamo ancora. Ma a volte le circostanze della vita sono crudeli. Dovevamo fare una scelta. Anzi siamo stati costretti a farla e in tutto questo c’entra tuo nonno Andrej».

Con la foto nella mano destra, tremando, Aleksej cercò di riprendersi dallo shock. Ne scrutava ogni dettaglio. Adesso, finalmente, conosceva la verità. Guardò con attenzione il volto del padre Roberto e quello di suo fratello Luca. Li poteva quasi sentire, ne percepiva l’essenza; erano proprio lì, fermi, davanti ai suoi occhi. Rimase in silenzio per alcuni minuti ma poi sentì come di essersi svegliato da un lungo sonno e cominciò a tempestarla con mille domande.

«Mamma… come è possibile tutto questo? Perché mio padre ci ha abbandonato portandosi via mio fratello? Luca è a conoscenza che suo fratello gemello vive in Russia o anche per lui avete mantenuto questo segreto?».

Per Maria era tempo di dire tutta la verità. Le domande del figlio erano quelle a cui, da sempre, desiderava rispondere. Cercò di calmarsi e di rilassarsi e provò a raccontare la sua storia guardando il figlio negli occhi.

«Come sai tuo nonno è stato un Generale del KGB, i vecchi servizi segreti russi. Al tempo in cui nascesti ricopriva un incarico importante a Mosca. Un giorno si presentò qui a San Pietroburgo con nonna Olga, pieno di regali per i suoi due nipotini. Ci aveva espressamente chiesto di potervi conoscere personalmente e quella fu la prima e ultima volta che vedemmo tutta la famiglia riunita».

«Fu solo dopo pranzo che nonno Andrej rivelò il vero motivo di quella visita: doveva reclutare tuo padre Roberto per i servizi di intelligence russi. Gli promise che, se si fosse messo al servizio del KGB, avrebbe garantito a tutti noi una vita tranquilla e serena, piena di agi e di confort. Ci avrebbero fornito una casa a Sochi, in riva al mare, dove avremmo potuto trascorrere le vacanze estive».

«Conoscevo bene tuo nonno».

«Quelle non erano semplici richieste ma veri e propri ordini. Ma tuo padre rifiutò quella proposta, la riteneva oscena e insensata. Disse che non voleva tradire i suoi ideali… il suo Paese…, che non si sentiva comunista… che si trovava in Russia solo per amore della figlia e della famiglia. Volarono parole grosse. Alla fine tuo nonno Andrej se ne andò via sbattendo la porta e senza nemmeno salutarvi. Da quel momento ebbe termine la felicità per la nostra famiglia».

Maria fece una pausa, come a visualizzare meglio i suoi ricordi, e poi riprese.

«Con tuo padre litigammo quella stessa sera».

«Gli dissi che non avevamo scelta. Dovevamo collaborare con il KGB oppure la nostra vita sarebbe stata un inferno. Ma tuo padre fu irremovibile. Non volle sentire ragioni. Quando si fu calmato studiammo insieme una strategia, una via d’uscita. Dovevamo attenderci una immediata reazione da parte dei vertici del KGB, sicuramente ci avrebbero spedito tutti insieme in qualche campo di lavoro in Siberia. Dovevamo proteggervi. Capisci figlio mio… l’unica soluzione possibile era solo la fuga perché molto presto a tuo padre avrebbero revocato il visto».

«Quella sera preparammo i bagagli e ci recammo tutti insieme all’aeroporto ma era già troppo tardi: al controllo passaporti fummo fermati e identificati. L’ufficiale della dogana ci guardò con cipiglio e disse perentorio che solo tuo padre e un figlio potevano imbarcarsi sull’aereo per Roma. Io non avrei mai potuto lasciare la Russia. Aveva ordini tassativi al riguardo. Ci lasciò solo un minuto per pensare, diversamente ci avrebbe arrestati tutti. Io e tuo padre fummo costretti a decidere in fretta. Tu tenevi stretta la mia mano mentre Luca dormiva nelle braccia di Roberto. Fu il destino a scegliere per noi. Ci abbracciamo forte e ci baciammo come se quella fosse stata la nostra ultima volta. Ed in effetti così avvenne».

Maria tirò un sospiro di sollievo, come se si fosse liberata di un enorme macigno che la opprimeva da ormai da troppo tempo.

Aleksej, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, prese le mani di sua madre e le strinse nelle sue. Poi con dolcezza le disse:” Ora finalmente conosco tutta la verità. Ora capisco tutto. Ho un fratello identico a me. Incredibile… e tutto così assurdo… pazzesco. Ho sempre saputo che nascondevi un grande segreto sulla nostra famiglia, ma poi e poi mai avrei immaginato tutto questo».

Aleksej abbracciò forte la mamma e le mise la testa sul petto; poi cominciò a coccolarla, accarezzandole i lunghi e biondi capelli. Maria aveva quasi cinquant’anni ma nonostante l’età sembrava ancora giovane, con un bel fisico e un portamento regale. Spesso il figlio si divertiva a prenderla in giro e le diceva che da giovane avrebbe potuto fare la modella. La mamma stava al gioco e tutto si concludeva con una sonora risata.

Adesso erano lì, insieme, in silenzio, seduti sul divano, ognuno immerso nei propri pensieri, nei ricordi.

Maria guardava il figlio con tenerezza e quello sguardo infuse nuovo coraggio ad Aleksej.

Dolcemente le sollevò la testa dal petto per poterle parlare e confidare il suo segreto: «Mamma devo dirti anch’io una cosa importante. È una questione militare ma sò che di te mi posso fidare. Domani mattina presto prenderò un aereo per Mosca. Mi hanno trasferito, ma ancora non conosco l’esatta destinazione. Magari Mosca è solo una stazione di transito. Ho paura che mi mandino in qualche remota regione della Russia, forse oltre gli Urali o proprio in quella Siberia di cui tu e mio padre avevate così tanta paura.»

Un velo di tristezza calò sullo sguardo di Maria, come se invitasse il figlio a leggere nei suoi pensieri. Non aveva un‘espressione di sorpresa ma, al contrario, sembrava che conoscesse già tutto in anticipo. Quello sguardo non ammetteva fraintendimenti e Aleksej si rivolse alla mamma con un misto di agitazione e rassegnazione.

«Mamma… ma tu lo sapevi? Com’è possibile? Sono stato informato dal mio Comandante solo da poche ore».

«Caro Aleksej, sono pur sempre la figlia di un Generale del KGB. Cosa credi che non abbia anch’io le mie fonti d’informazione. Io ti ho sempre protetto e ti proteggerò sempre, ovunque tu sia…, ovunque tu vada. Ma non preoccuparti, la tua destinazione finale è Mosca e non la Siberia». Poi gli sorrise e con un cenno della mano fece segno al figlio di seguirla in cucina.

«Siediti che ti preparo il the con il miele. I tuoi biscotti preferiti li ho appena sfornati.»

Solo allora Aleksej annusò il forte odore dei biscotti provenire dal forno. Era un profumo che gli ricordava l’infanzia ma il trambusto di quella giornata sembrava che avesse spento all’improvviso il suo senso olfattivo. L’atmosfera in casa si era rasserenata ed entrambi continuarono a parlare, finalmente liberi dai segreti, uno accanto all’altro.

Russian Spy. Operazione Bruxelles

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