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5. Venere Ericina
ОглавлениеUn edificio degli Horti Sallustiani di cui s’incontra spesso menzione nella letteratura latina è il tempio di Venere Ericina. Questo tempio era, in un certo senso, una “dépendance” del più famoso tempio di Venere, quello sul monte Erice in Sicilia. A Roma dovevano esserci diversi templi dedicati a Venere nella zona degli Horti Sallustiani. Erano conosciuti sotto diversi nomi: “Venere degli Horti Sallustiani” e “Venere Ericina”; se, in realtà, questi nomi indicavano templi diversi non è chiaro. Nella storia degli horti si trova spesso come tema ricorrente un legame tra i templi di Venere e il culto di Flora, dea della fioritura. Come accade spesso nell’antica mitologia, le tradizioni di diversi culti vengono un po’ mescolate ed è oggi difficile capire quali elementi del culto appartenessero a quale dea. In ogni caso le prostitute consacrate alla dea appaiono come elemento chiave di ambedue i riti.
Nella pianta di Roma di Leonardo Bufalini del 1551 (Fig. 3) sono indicati i resti dell’edificio che ancora oggi si può vedere nel mezzo di piazza Sallustio e accanto l’iscrizione: Ludi Frolares (dovrebbe essere Florales) Meretricium nudarum, festa di Flora e delle nude prostitute. Lucio Mauro riporta nel 1556:
…si vede una valletta, che fu il circo di Flora, dove le corteggiane ignude celebravano i giuochi Florali.
A quel tempo si pensava ancora che in questa valle si trovasse un cosiddetto “circo di Flora” dove in passato si celebravano questi ludi. L’idea di una qualche struttura simile a un circo derivava forse dalla forma di questa valle sui cui lati lunghi si potevano ancora vedere i resti di terrazze e muri di sostegno (Fig. 6). Sulla festa di Flora che si celebrava dal 28 aprile al 3 maggio si trovano notizie nella letteratura latina: Valerio Massimo riporta che la rappresentazione delle prostitute in costume evitico scandalizzò il pudico Catone (il Giovane) che preferì allontanarsi dallo spettacolo per non imbarazzare i presenti. Solo dopo che Catone era andato via, la festa poté riprendere.
Fig. 6 – Il Circo di Flora, dalla pianta di Roma di Johannes Blaeu, 1663 (versione di Pierre Mortier, 1704). A. L’odierno “ninfeo” di Piazza Sallustio. – B. Mura di sostegno del Quirinale. – C. Scritta “Vestigi del Circo di Flora”. – D. I giardini di Villa Ludovisi.
Anche le celebrazioni per la Venere Ericina trovano diversi riscontri nella letteratura latina; molto nota era la festa che ricordava il giorno della consacrazione del tempio, il 23 aprile. Durante questa festa veniva servito il vino nuovo e, con la solita mescolanza di tradizioni, si parlava di questa festa anche come Vinalia. Ma c’è di peggio: per molti era questa una festa in onore di Giove. Ovidio cerca di dipanare un po’ la matassa nei suoi Fasti (un discorso poetico sul calendario romano): per il 23 aprile ci racconta una bella storia su Enea. Ma già bastano i primi versi per dare un’idea dell’atmosfera di questa celebrazione:
Voi fanciulle di facili costumi celebrate il potere di Venere, la dea favorisce i guadagni della vostra professione. Offrite incenso e pregate per il benvolere della gente, che siate affascinanti e capaci di brillante conversazione. Offrite alla dea il mirto e la menta che lei così ama e intrecciate rose nelle corone di giunchi. Ora è il tempo per accorrere a schiere al suo tempio vicino a Porta Collina che ha preso il suo nome dall’altura siciliana.
Il tempio della Venere Ericina era veramente nell’area degli horti? Se i giardini erano effettivamente appartenuti a Cesare prima di passare a Sallustio, non ci si dovrebbe meravigliare se Cesare avesse avuto una speciale venerazione per la dea, in fin dei conti la stirpe Giulia discendeva da Enea ed Enea era figlio di Venere. Per diversi secoli si è cercato di individuare la posizione di questo tempio: nel 1551 sul terreno di Gabriele Vacca negli Horti Sallustiani, che poi divenne proprietà dei Ludovisi, vennero alla luce resti di un edificio ovale con colonne di marmo giallo e alabastro. Il figlio, Flaminio, si ricordava nell’anno 1594 che in un fondo, dove si dice gl’Orti Salustiani suo padre
cavandoci trovò una gran fabbrica di forma ovata, con portico attorno ornato di Colonne gialle, longhe palmi diecidotto…
Fin nel secolo ventesimo si credeva che questo edificio fosse proprio il tempio di Venere Ericina (Fig. 7). Questi resti sono oggi scomparsi: il cardinale di Montepulciano acquistò le colonne per la sua cappella e fece rilavorare le parti di alabastro in lastre che regalò al re del Portogallo. Ma il regalo non arrivò mai a destinazione: in una tempesta le lastre affondarono insieme alla nave che le trasportava.
Fig. 7 – Pianta che si ritiene raffiguri la costruzione trovata nella Vigna Vacca.
Ancora nel 1888 l’archeologo Lanciani era convinto che l’edificio scoperto dal Vacca fosse il tempio di Venere Ericina o Venere degli Horti Sallustiani (anche se la pianta a cui si riferiva era di forma rotonda e non ovata!). Sulla localizzazione del tempio esistono ancora dubbi: i resti di terrazze e sale con colonne rinvenute sotto via Sicilia sul lato nord della valle potrebbero essere un indizio, anche perché in questa zona si trovarono diverse sculture che potrebbero essere in relazione con il culto di Venere, tra queste il famoso Trono Ludovisi con un bassorilievo della nascita di Venere (Fig. 8-8c). Quest’opera fu scoperta nell’estate del 1887 durante i lavori nella villa Ludovisi per la costruzione del nuovo quartiere. In questo caso, come in altri che vedremo, ci sono incertezze sull’esatto luogo del ritrovamento perché questo potrebbe determinare se la scultura apparteneva ai Boncompagni-Ludovisi o al comune: infatti Rodolfo Boncompagni-Ludovisi, la Società Generale Immobiliare e il comune avevano firmato un accordo secondo il quale la città avrebbe finanziato soltanto la costruzione delle arterie principali, via Boncompagni e via Veneto, tutto il resto doveva essere finanziato dagli altri due contraenti. Ma ciò significava anche che solo gli oggetti ritrovati sotto le due strade sarebbero appartenuti alla città.
Fig. 8 – Trono Ludovisi (dal lato posteriore), Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps
L’archeologo Carlo Ludovico Visconti descrive così la scoperta:
Un monumento singolarissimo, non meno per la forma che per le rappresentanze e per lo stile, è stato di recente diseppellito nella villa Ludovisi;….Si tratta di una specie di sponda o parapetto (peristomion) cavato in un sol pezzo di marmo, il quale si compone di una fronte, e di due lati….
Egli ringrazia i Boncompagni-Ludovisi che gli hanno permesso di pubblicare una foto nel Bullettino della commissione archeologica comunale di Roma e riporta che l’opera verrà esposta nella famosa collezione di Villa Ludovisi. Apparentemente Visconti riteneva che il “trono“ fosse stato trovato sotto il terreno per il quale erano responsabili i Boncompagni-Ludovisi. Di più non si chiese; cinque anni più tardi Eugen Petersen, il direttore dell’Istituto Archeologico Tedesco, rivelò che egli aveva appreso da due persone “che erano presenti al momento della scoperta” il luogo esatto: il blocco tra via Piemonte/via Boncompagni/via Abruzzi/via Sicilia ma
….era una domenica in estate e per questo nessun ispettore era presente.
Fig. 8a – Trono Ludovisi, fronte
Fig. 8 b,c – Trono Ludovisi, lati sinistro e destro
Bisogna crederci? L’archeologo Lanciani riferisce che questo “trono” fu offerto in vendita al conte Tyskiewicz, un intraprendente protagonista nel mondo antiquario di allora, per 300.000 lire ma, per fortuna dei romani, questa preziosa scoperta andò ad arricchire la famosa collezione di antichità che era stata fondata dal cardinal Ludovico Ludovisi nel secolo diciassettesimo e che forma l’oggetto di un prossimo capitolo. Questo “parapetto”, come lo chiama Visconti, è oggi noto come il Trono Ludovisi. L’opera sarebbe potuta finire a Copenaghen o Berlino ma, per fortuna, è esposta oggi al Museo Nazionale Romano (Sezione di Palazzo Altemps). L’archeologo Tedesco Wolfgang Helbig (su di lui ci sarà ancora da raccontare) aveva attratto nel 1891 l’attenzione del birraio e collezionista danese Carl Jacobsen su questo importante reperto ma Jacobsen non se ne interessò perché riteneva che la scultura sarebbe stata difficile da esporre perché richiedeva luce da tre lati. Anche Reinhard von Kekulè, direttore dei Musei Reali di Berlino, rifiutò un’offerta della famiglia Boncompagni-Ludovisi perché riteneva la scultura arcaica e non tanto interessante; ma anche i proprietari dell’opera non sapevano bene cosa farsene: nel 1891 la “balaustrata” serviva da deposito per bottiglie di vino vuote. Chi non vorrebbe avere un “trono” proveniente dai giardini di Sallustio in cantina per depositarvi le sue migliori annate!
Ma qual’era la funzione di questo “trono”? La controversia dura ancor oggi; le dimensioni della base combaciano esattamente con l’apertura della fossa votiva del tempio di Afrodite a Locri. L’ipotesi che questo parapetto sia stato trasportato da un tempio di Venere a un altro è senz’altro allettante.
Nel 1901 lo stato italiano comprò dai Boncompagni-Ludovisi i 104 pezzi più importanti della collezione – tra loro il Trono Ludovisi – che si trovano oggi a Palazzo Altemps.
Un’altra simile scultura fu trovata nella stessa zona di via Sicilia/via Puglie, il cosiddetto “Trono di Boston”. Quest’opera finì prima in Inghilterra ed è esposta dal 1909 nel Museum of Fine Arts a Boston. Se sull’autenticità del Trono Ludovisi ci sono pochi dubbi, non così per il Trono di Boston: diversi archeologi ritengono che l’opera sia un falso attribuibile al gruppo Helbig/Martinetti/Jandolo. Ci ritorneremo su.
Anche se il tempio di Venere Ericina è sparito, la dea vive ancora nella Roma di oggi: il suo specchio adorna lo stemma del nuovo quartiere Sallustiano (Fig. 9). (Più correttamente i quartieri all’interno delle Mura Aureliane vengono chiamati “rioni” – l’imperatore Augusto aveva originariamente diviso la Roma di allora in 14 “Regiones“).
Fig. 9 – Lo specchio della Venere Ericina
Nella zona di via Sicilia e via Puglie furono costruite all’inizio del 20° secolo diverse scuole. Proprio là dove sono oggi le scuole erano venute alla luce già nel 1710 avanzi di pavimenti in mosaico e importanti statue di stile egizio, come Tolomeo II e Arsinoe, oggi nei Musei Vaticani.(1)
In via Puglie è ancora la scuola elementare nel cui cortile da bambini marciavamo in circolo cantando “Giovinezza” e altre canzoni fasciste. In via Sicilia è situato il Liceo-Ginnasio Torquato Tasso, dove io, subito dopo la guerra, ebbi i primi contatti con la lingua latina e con il tedesco e proprio nella zona della scuola si trovava la proprietà Vacca, dove nel 1551 venne alla luce quello che fu identificato come il tempio di Venere Ericina.
Dopo la guerra, a causa del poco spazio disponibile le lezioni al ginnasio erano organizzate su due turni: una settimana la mattina e la seguente il pomeriggio. Venivano insegnate tre lingue straniere: francese, tedesco e inglese. Gli allievi vennero distribuiti, secondo qualche arcano criterio, in una delle tre sezioni A, B e C e a me toccò la sezione B col tedesco. Non pochi dei genitori dei “germanizzati” corsero alla direzione reclamando il trasferimento ad un’altra sezione, la maggior parte, naturalmente, alla sezione d’inglese (si capirà che la Germania, dopo la guerra, non era tanto di moda). I miei genitori non se ne interessarono e per me la cosa era anche indifferente. Non c’è bisogno di dire che la mia sezione, quella del tedesco, era la più piccola di tutte.
La nostra insegnante di tedesco era una cinquantenne dai modi bruschi e il suo aspetto corrispondeva un po´ all’idea che ci eravamo fatti delle donne tedesche: durante la guerra avevamo conosciuto soltanto soldati tedeschi e nelle nostre teste si era formata una certa immagine delle loro donne. Questa signora era stata prima della guerra in Germania e ne era tornata con una grande ammirazione per le conquiste della società germanica. Molto spesso dovevamo condividere la sua ammirazione per il sistema di trasporto di una qualche grande città (Amburgo? Berlino?): c’era un sistema di ferrovia sotterranea, anche tram come da noi ma, in più, una ferrovia che correva al di sopra delle strade. La cosa più interessante era naturalmente la descrizione delle scenette familiari che s’intravedevano dai finestrini del treno che passava “così vicino” alle abitazioni.
Tra di noi abbiamo mormorato che la cara signora era forse un’ammiratrice di Hitler. Se era così, non l’ha mai dato a vedere; non sarebbe stata neanche una buona idea.