Читать книгу Nella vita - Salvatore Di Giacomo - Страница 5
III.
ОглавлениеAndava, andava, senza fermarsi, con la testa bassa. In «Piazza dei Giudici», ove metteva il primo tratto del Corso, da un globo enorme si diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d'una pioggerella fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano disertata la piazza: vi rimanevano de' soldati d'artiglieria, in piccoli gruppi, un crocchio di borghesi che s'avviava, per ripararvi, all'androne del palazzo municipale, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni e lo scemo del «Vico Cimino», un piccolo uomo di forme e di fisonomia scimiesche le cui membra piteciche s'aggrovigliavano al palo del lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti.
Come Letizia passò d'avanti all'«Arco Mazzocchi», una folla d'operaie del laboratorio pirotecnico ne sbucò fuori con alte voci confuse, imprecanti alla pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, trascorrendo verso «Porta Napoli» ove il Corso finisce. Letizia si mescolò a quella folla e andò avanti. Di tratto in tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare, altre strade. Presso «Porta Napoli» la comitiva s'era diradata: le tre femmine di un ultimo gruppetto che Letizia seguiva a un tratto si misero a correre, rincorandosi, strillando, con le gonne raccolte, e presto sparvero nel buio. Letizia s'arrestò: si guardò attorno, cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e scomparve in un palazzetto a una delle cui finestre basse penzolava, sbattuta dal vento, l'insegna tarlata di una locanda.
Per la scala salì a tentoni. Non v'era lume, ma ella conosceva il numero dei gradini e il posto della porticina alla quale picchiò, con la mano spiegata, due volte.
— Viene! — fece, di dentro, una roca voce maschile.
S'aperse la porta e un fiotto di luce dilagò sul pianerottolo. L'uomo che aveva aperto reggeva il lume nella destra e stringeva gli occhi cercando d'affisar bene la sconosciuta e traendosi addietro per lasciarla passare.
— Bè — disse ancora, dopo aver chiuso l'uscio, cautamente — In che vi devo servire?
Levò il lume fino al volto della donna e con l'altra mano fece visiera alla fiamma.
Ma com'ella si liberava dello scialle, raccogliendolo sul braccio, e gli si rivelava, immobile, ritta di contro a lui e muta e tutta illuminata nella pallida faccia, l'uomo esclamò:
— Letizia! Ah, tu sei, dunque?
E annunziò, voltandosi a una porticina socchiusa, dietro la quale una voce borbottava.
— È Letizia di «Riva Casilina». Letiziella. Quella del furiere.
Letizia si coperse la faccia. Cessò il borbottìo dietro l'uscio socchiuso. Una voce chioccia, mentre l'uomo riponeva il lume sulla mensa dalla quale s'era levato, salutò:
— Buona sera. Ora vengo.
— È Chiarina — disse l'uomo, sedendo presso alla tavola — Ha le gambe enfiate, con rispetto, e le unge con certa pomata che ho preso a Napoli. E, per giunta, ha un'emicrania da cavallo. Sarà lo scirocco.
Indicò una seggiola. Soggiunse:
— Non siedi? Vuoi crescere?
— Devo parlarvi — disse Letizia.
— Meglio. Dunque siedi. Che mi dici? Il furiere che fa?
— Il furiere m'ha lasciata, don Placido.
— Ah! — fece l'uomo, battendo la mano aperta sulla tavola — Possibile? Senti, Chiarina — e si girò sulla seggiola, parlando forte all'uscio socchiuso — Dice che il furiere l'ha lasciata.
— Vengo — rispose ancora la voce.
Don Placido, un grosso uomo rossastro, quasi calvo, animalesco, tese la mano a un piatto ov'era della carne d'agnello e se ne recò un pezzo alla bocca, strappandogli, co' forti molari, fin l'ultime cartilagini. Si versò del vino. Sotto il lume, stretta al collo della bottiglia, la sua mano tremava come per impeto di sangue; sul dosso vi rigurgitavano le vene enfiate e le dita vellose ed unte, terminate da unghie, corte e schiacciate, lucevano del recente contatto della vivanda. Un alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un fiato di anime e di materie corrotte: alle nari di Letizia, dal mensale chiazzato da larghe macchie di unto e di vino, saliva un lezzo disgustoso. Il lume a petrolio, per la vampa troppo viva, fumava, e il fumo, in sottile spira nerastra, si levava, interrottamente.
— Don Placido, — disse Letizia, vincendo il suo turbamento — io non posso restar più a Capua. Capite, don Placido? Sono rovinata, e la rovina mia non la posso nascondere.
L'uomo la guardò fisamente e gli occhi suoi piccoli e vivi, trascorrendole addosso, s'indugiarono, interrogandolo, su quel piccolo corpo palpitante e raccolto.
Letizia arrossì e raggruppò in grembo lo scialle e vi stese su le pallide e piccole mani.
— Ho capito — disse don Placido.
E si grattò in capo con l'indice della sinistra; con quel della destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levò la testa e parve interrogare il soffitto. Poi disse ancora:
— E a casa tua?
— Ne sono fuggita.
— Quando?
— Ora.
— Sei andata da lui?
— No: sono venuta qui.
— Parla più basso.
Vi fu un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido moderò la fiamma del lume, si levò, fece, pesantemente, due o tre passi nella stanzuccia e Letizia lo udì borbottare, due o tre volte:
— Evviva il furiere!
All'improvviso le si piantò di faccia presso alla tavola, e le domandò brutalmente e bruscamente:
— E ora che vuoi fare? La vita?
Ella aperse le braccia e chinò la testa, rassegnata. Meglio delle parole rispondeva l'atto e Don Placido ne comprese tutta la muta disperazione. Ma rimase indifferente, senza pietà, come abituato a cose somiglianti.
— Andresti a Napoli? — chiese, dopo un momento.
— A Napoli? — balbettò Letizia.
— Vi ho un amico. Ti raccomanderò. La città è grande, vedrai: e qualche altra vi ha fatto fortuna.....
S'interruppe. Un colpo di tosse suonava in un'altra stanza la cui porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa. Letizia trasalì e l'uomo si mise a ridere.
— È la bionda — disse, guardando a quell'uscio — Una di Caserta. Parte a momenti per Napoli e io l'accompagno alla stazione.
La breve tossicina risuonò un'altra volta. Don Placido, senza badarvi, — soggiunse:
— Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace vi andrete assieme. Ora deciditi. Sai, grande città, gran gente, gran romore, gran vita. Mica questi sordomuti di Capua, bella mia.
Tese l'orecchio: pioveva ancora, e il borbottio della grondaia era superato dal crepitar della pioggia sulle lastre del cortile.
— Se vuoi veder la bionda è di là, in cucina. Quando hai picchiato vi s'è nascosta: si vergogna. Intanto io vado per un affare mio, fino all'Annunziata. Parla con mia moglie, con Chiarina: tra femmine v'intenderete meglio.....
E aggiunse, alto, cercando il mantello e il cappello in un cantuccio della stanza:
— Chiarina, io scendo.
La voce chioccia rispose dall'oscurità:
— E il treno?
— Parte alle dieci — disse l'uomo, aprendo la porta delle scale — V'è il tempo. Torno subito.
Sulla soglia, voltandosi, disse a Letizia:
— La casa la conosci: accomodati pure. Parla con Chiarina.
Uscì. La porta si chiuse, Letizia rimase sola. Si guardò attorno, guardò l'uscio socchiuso dietro del quale era donna Chiara e per un attimo, tra un nuovo terrore, ebbe la visione dell'orribile vecchia, gigantesca come il marito, quasi calva all'occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di carne molle e ondeggiante dal petto enorme sul ventre.
L'uscio si mosse, difatti: Letizia si levò impiedi, spaventata. Ma non v'apparve la vecchia. Un gatto rossiccio uscì, sbadigliando, da quella penombra. Avanzò nella camera, si fermò a guardare per un momento Letizia e s'allontanò, scomparendo. Risuonò un'altra volta la tossicina dall'altra parte. Letizia si volse. Macchinalmente spinse l'uscio della cucina ed entrò.
La bionda era seduta a una tavola, presso al focolare: un fagottino era davanti a lei sul quale ella poggiava le mani aperte e la faccia. Un alito inclinava la fiammella del lume ad olio, posto pur sulla tavola, tra le bucce di un'arancia.
Come la porta s'aperse la bionda levò la testa.
— Marta! — urlò Letizia.
Dio! Dio! La donna che il furiere aveva amata dopo di lei, quella per la quale l'avea lasciata, forse! Marta! Marta era lì, per lo stesso orribile destino! Una volta sola l'aveva vista, alla fiera di Santamaria e mai più s'era scordata di quella gran giovane fulva, rosea, piena di salute, piena di schietto sangue rurale. Ma che strani avvenimenti seguivano, dunque, nella vita? Marta! Come lei, come lei, dunque! Destinata alla medesima sorte?
Di su il fagottino la bionda la guardò, senza sorpresa. Sorrideva, anzi, benevola.
Disse, piano:
— Tu sei Letizia di «Riva Casilina». Ho udito tutto. Dammi la mano, perdonami...
Sorrideva, incertamente: ma il pianto era nella sua voce dimessa ed ella s'adoperava invano a soffocarlo. Stese una mano, e con l'altra appressò una seggiola. Letizia vinta, atterrita, vi cadde.
La bionda le passò la mano sulla testa reclinata, la carezzò e quasi se la trasse in grembo, mormorando:
— Io non t'odio... Non t'odio, no... Guarda, pensaci: or avremo la stessa sorte. Bisogna farsi coraggio... Non piangere....
E fra tanto ella stessa piangeva: la sua voce si velava. E con le mani di Letizia nelle sue, con quasi poggiata alla testa di costei l'umida sua gota calda, Marta seguitava a balbettare:
— Non piangere... Non piangere...