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II.

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Un mattino io mi chiedevo che risoluzione si sarebbe presa circa il proseguimento dei miei studi, poi che avevo terminata la quinta classe, quando il babbo rientrò in casa un’ora prima del consueto, seguìto dal fattorino dell’ufficio che portava una cassetta sulle spalle. Congedato l’uomo, mio padre mi alzò un istante fra le braccia fino al suo viso, poi mi posò, e alla mamma che l’interrogava collo sguardo ansioso, disse: «È finita.... ho troncato tutto. Finalmente respiro!»

Da parecchio tempo i due soci si sopportavano a vicenda con sempre minor buona volontà. I due temperamenti opposti non riuscivano a conciliarsi, poichè l’uno provocava iniziative ardite, l’altro badava a stringere i freni. Il babbo d’altronde si annoiava in quella vita d’ufficio, metodica, che non gli dava neppure compensi materiali ragguardevoli. Un piccolo incidente aveva, quel mattino, provocata una scena vivace fra i due cognati, decisiva.

A trentasei anni mio padre si trovava a ricominciare la vita per la seconda volta, e ancora per la sua sete di emozioni nuove e di indipendenza.

Quel mattino stesso usci con me a passeggiare lungamente: ho confusa la visione dell’immensa Piazza d’Armi che attraversammo sotto una leggera nebbia autunnale; il babbo parlava, quasi a sè stesso; io sentivo il mio piccolo essere esaltarsi tacitamente. L’America, l’Australia.... Oh, se veramente il babbo ci portasse pel mondo! Egli accennava anche a probabilità meno avventurose: tornare all’insegnamento, impiantare qualche azienda; ma sempre fuori di Milano. La città che fino a quel giorno avevo amata, pur senza dirmelo, ora mi appariva insopportabile: chi sa quali altri incanti mi attendevano altrove! E mi sembrava d’essere all’improvviso cresciuta d’anni e d’importanza. Non mi prendeva il babbo forse a sua confidente? I progetti sul mio prossimo avvenire di studentella svaporavano. Forse avrei dovuto lavorare anch’io, aiutar la famiglia.... Figgevo in viso a mio padre gli occhi, nei quali doveva correre una fiamma d’entusiasmo.

A casa, la mamma era invece come smarrita, Di che cosa temeva? Era giovane anch’ella, più giovane del babbo; noi bambini eravamo tutti sani e forti.... Anche il babbo certo avrebbe voluto vederla più ardimentosa!

Ella non apparve sollevata neppure qualche settimana dopo, allorchè un signore che voleva stabilire un’industria chimica in una cittaduzza di Mezzogiorno, offrì la direzione dell’impresa a mio padre. Certo, questi osava molto accettando un genere di lavoro al quale era affatto nuovo. Ma il suo bel sorriso sicuro aveva sedotto il capitalista. Le condizioni dell’impiego erano ottime; il paese, laggiù, pieno di sole. Per qualche anno. Mio padre non amava guardare molto innanzi nell’avvenire. Pel momento si sentiva felice del rischio. E non curando i timori della mamma, decise la partenza per la primavera.

Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese dove io giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo. Che cos’erano i prati verdi della Brianza e del Piemonte, le valli e anche le Alpi intraviste ne’ miei primi anni, e i dolci laghi ed i bei giardini, in confronto di quella campagna così soffusa di luce, di quello spazio senza limite sopra e dinanzi a me, di quell’ampio e portentoso respiro dell’acqua e dell’aria? Entrava ne’ miei polmoni avidi tutta quella libera aria, quell’alito salso: io correvo sotto il sole lungo la spiaggia, affrontavo le onde sulla rena, e mi pareva ad ogni istante di essere per trasformarmi in uno dei grandi uccelli bianchi che radevano il mare e sparivano all’orizzonte. Non somigliavo loro?

Oh la perfetta letizia di quell’estate! Oh la mia bella adolescenza selvaggia!

Avevo dodici anni. Nel paese, che si decorava del nome di città, non esistevano scuole al disopra delle elementari. Un maestro chiamato a darmi lezione fu presto congedato perchè incapace d’insegnarmi più di quel che sapevo. Nelle ore calde del meriggio, sola nella stanzuccia della vasta casa, che avevo eletta a mio studiolo, gettavo, ma senza entusiasmo, qualche occhiata sui grossi manuali di fisica e di botanica e sulle grammatiche straniere datemi dal babbo; uscivo sull’alto balcone, guardavo giù nella piazza gli sfaccendati presso la farmacia o dinanzi al caffè, qualche contadina oppressa da pesi inverosimili, qualche ragazzo sudicio che inveiva contro qualche altro in un linguaggio sonoro ed incomprensibile. In fondo alla piazza il mare luceva. Due ore avanti il tramonto si disegnavano, lontane lontane, le vele delle paranze di ritorno dalla pesca: s’avvicinavano, si colorivano di rosso e di giallo, arrivavano una dietro l’altra, e il tumulto delle voci dei pescatori giungeva spesso fino a me; distinguevo il grido ritmico di quelli che traevano la barca alla riva.

Scendevo, mi recavo nel vasto recinto presso la strada ferrata, dove lo stabilimento andava sorgendo con rapidità sorprendente e dove il babbo passava quasi tutte le sue ore. Egli mi dava talvolta dei piccoli ordini che eseguivo trepidando, con scrupolosa esattezza. «Mi aiuterai anche più tardi, quando tutto sarà sistemato; sarai la mia segretaria, vuoi?...» Lottava in me l’antica timidezza con un nuovissimo impulso di audacia indipendente. Forse il babbo voleva compensarmi dell’aver troncati gli studi. Una specie d’orgoglio anzi, inavvertito, mi penetrava, la vaga coscienza di prender contatto colla vita, d’aver dinanzi uno spettacolo, più vario e più interessante d’ogni libro.

Degli operai, de’ bei contadini abbronzati che venivano dalla campagna ad offrirsi come manovali, delle ragazze che salivano agili sui ponti di costruzione coi secchi di calce sul capo, mi sorridevano, ed io sentivo verso di loro una curiosità piena di simpatia; ne ripetevo ai fratellini i pittoreschi soprannomi, e mi chiedevo se avrei mai osato essere per loro una padrona, come ero colla donna di servizio.

Il babbo, sì, si palesava uomo di comando, inflessibile e onnipossente, meraviglioso d’attività e d’energia. Quando certe sere, dopo il pranzo, uscivamo un po’ con lui, la mamma e noi figliuoli, per lo stradone maggiore del paese, la gente ci osservava dalle soglie con un misto di ammirazione e di timore. Trovavano alla mamma un viso da madonna, e voci femminili le mormoravan dietro benedizioni per i suoi bambini. Ella ringraziava col sorriso mite, piccola e fino nel vestito quasi dimesso. Mi sembrava contenta anche lei, in quei momenti: era ne’ suoi occhi come una riverenza verso il compagno rivestito così d’un nuovo fascino.

Ricordo una mia fotografia dell’anno dopo. Ero già in fabbrica come impiegata regolare. Indossavo un abbigliamento ibrido, una giacchetta a taglio diritto, con tanti taschini per l’orologio, la matita, il taccuino, sopra una gonnella corta. Sulla fronte mi si inanellavano, tagliati corti, i capelli, dando alla fisionomia un’aria di ragazzo. Avevo sacrificata la mia bella treccia dai riflessi dorati cedendo alla suggestione del babbo.

Quel mio bizzarro aspetto esprimeva perfettamente la mia condizione d’allora. Io non mi consideravo più una bimba, nè pensavo di esser già una donnina: ero un individuo affaccendato e compreso dell’importanza della mia missione; mi ritenevo utile, e la cosa mi dava una illimitata compiacenza. In verità, portavo nell’esecuzione dei lavori che il babbo m’aveva assegnato una lealtà assoluta e una forte passione. M’interessavo quanto lui alle piccole e grandi vicende dell’azienda, e mentre non mi annoiavo allineando cifre per ore e ore sui registri, mi divertivo come ad un giuoco stando fra gli operai, osservandoli nelle aspre fatiche e chiacchierando con loro durante gl’intervalli di riposo. Eran molti, più di duecento; una parte, che veniva dal Piemonte, si alternava ai forni giorno e notte, e gli altri, del paese, si agitavano continuamente nei vasti cortili e sotto le tettoie. Tutta quella gente non mi amava forse, ma certo sentiva piacere nel vedermi comparire all’improvviso col mio piglio un po’ brusco; un piacere che si traduceva in atteggiamenti più spigliati, più conformi all’ideale del lavoro giocondamente accettato. Mi trovavano giusta, assai più di mio padre, e cercavano accaparrarsi la mia benevolenza con ingenue adulazioni, perchè io influissi a loro vantaggio su l’uomo che li faceva tutti tremare. Ma io sapevo che inutilmente avrei tentato di modificare la disciplina ferrea del babbo; ed ero inoltre persuasa ch’essa fosse necessaria. Non badavo quindi che a render accetto quel padrone, anche coll’esempio della mia obbedienza. E forse il babbo se ne avvedeva. Pel breve tratto fra la fabbrica e la nostra casa, egli mi parlava con un’inflessione di voce ch’io sola gli conoscevo, non dolce, non tenera, ma esprimente il riposo, l’attimo di sosta e di abbandono. Mi confidava: «Bisognerà tentare questo e quest’altro.... Allora potremo aumentare un poco i salarî....» Pareva anche domandare il mio avviso. Ed io pensavo alla felicità di trovar pur io qualche cosa di nuovo da suggerirgli. La fabbrica diventava per me, come per lui, un essere gigantesco che ci strappava ad ogni altra preoccupazione, che ci teneva perennemente accesa la fantasia e saldi i nervi, e si faceva amare;—angolo di vita vertiginosa, da cui eravamo soggiogati, mentre credevamo di esserne i dominatori.

Rientrando in casa provavo, centuplicato, il senso di malessere che sorgeva già in me da bimba al ritorno dalla scuola. Mi vi sentivo spostata, e accentuavo con dispetto i segni di quel mio isolamento morale. Ero simile al giovinetto appena emancipato che si lagna arrogantemente del servizio domestico; rilevavo con lo stesso tono di superiorità le negligenze delle sorelline e di mio fratello, la loro svogliatezza per lo studio, la mancanza nella mamma d’una severità calma che li disciplinasse.

Le donne di servizio dovevano riferire in paese cose orrende sul mio conto: non prendevo mai un ago in mano, non badavo alle faccende di casa.... E le mie escandescenze senza motivo! Non potevano paragonarsi se non a quelle di mio padre! Si allentava in quei momenti, forse, la tensione troppo acuta de’ miei nervi. Forse si palesavano i sintomi d’una crisi di crescenza. Io non ne sapevo nulla. Bisognava che uscissi, che mi dessi a qualche folle corsa lungo il mare e mi sentissi alitare intorno la buona aria libera, per tornare calma, per cancellare pur la memoria del mio malumore. Ed allora obliavo anche l’espressione di pena profonda che solcava la fronte della mamma durante quelle scene.

Mia madre! Come, come ero così incurante a suo riguardo? Quasi ella era scomparsa dalla mia vita. Io non riesco a determinare nella mia memoria le fasi della lentissima decadenza avvenuta nella sua persona dal nostro arrivo in paese. Ella non aveva saputo sin dai primi giorni liberarsi da una certa timidezza che le impediva di andar sola o coi bimbi per la spiaggia o pei campi. Il paese non offriva altri svaghi: le donne dei maggiorenti non uscivano quasi mai di casa, ignoranti, indolenti e superstiziose; le contadine lavoravano più che i loro uomini; gran parte della popolazione viveva sul mare e del mare, riparando la notte nelle catapecchie che si ammucchiavano a cento metri dalla riva.

Neanche alla fabbrica la mamma s’interessava, attingendone motivi di distrazione. È vero che di questo ero quasi lieta, dicendomi che ella forse non avrebbe visto di buon occhio le mie imprese. La sentivo, ancor più che a Milano, troppo diversa di gusti e di temperamento da mio padre, e per conseguenza da me. E anche sentivo, confusamente, che questa differenza era sempre più la causa dei malumori che i miei genitori non riuscivano a nascondere. Ma non me ne preoccupavo, o, per meglio dire, mi liberavo tosto dalle impressioni fastidiose senza cercar di approfondirle. Forse era un istintivo timore di scoperte troppo gravi per la mia età? Non so. Soltanto un piccolo fatto mi diede il sospetto che mio padre non volesse bene alla mamma come a me.

Era sul finire del primo inverno che passavamo colà. Si doveva, la mamma, il babbo ed io, recarci al vicino capoluogo, invitati a pranzo e a teatro dal proprietario della fabbrica e dalla sua signora, la quale s’era degnata salire a casa nostra l’estate innanzi. Scendeva il crepuscolo e l’ora della partenza del treno si avvicinava. Io ero pronta, allorchè entrò a casa il babbo per cambiare d’abito; egli in un batter d’occhio fu all’ordine. La mamma invece indugiava dinanzi allo specchio, dubbiosa della sua toeletta che non indossava da molto tempo: passava sul viso il piumino della cipria, allorchè mio padre, infastidito dell’attesa, si affacciò di nuovo all’uscio della camera.

Rivedo la stanza, lo specchio, l’alta finestra da cui sembrava entrare, più che la luce del tramonto, il riflesso del mare grigio, torbido. Ed all’orecchio mio si ripercuote, colta a volo, una frase: «.... devo dire dunque che sei una civetta?...»

Mezz’ora dopo, in treno, tremavo ancora nel mio intimo, incapace di formulare un biasimo pel babbo, una discolpa per la mamma, e m’avvidi tra la penombra, che sul volto di questa, inclinata verso lo sportello, scorrevano delle lagrime. Riviveva ella pure il momento amaro? O molti altri uguali? Pensava ch’io ero stata testimone dell’offesa? E per la prima volta ella mi era apparsa come una malata: una malata cupa che non vuol essere curata, che non vuol dire neppure il suo male.

Poi.... Io leggevo nei libri vicende d’amore e d’odio, osservavo simpatie e antipatie nella gente del paese, credevo di saper già molte cose sulla vita, ma ero incapace di penetrare la dolorosa realtà della mia casa. Passavano i mesi, cresceva la tristezza della mamma, si diradavano le attenzioni del babbo per lei, le passeggiate in comune, ed io che non ero già più una bimba, continuavo nella mia vita come se nessuna minaccia si addensasse intorno. Perchè? M’assorbiva, sì, come nell’infanzia, l’ammirazione per mio padre; ma ciò non basta a spiegare la mia cecità. Forse la mamma stessa, in un doloroso pudore del suo male, evitava una confidente troppo immatura, troppo esclusivamente dedita a colui che le causava dolore, e lasciava che il tempo scorresse, nell’attesa vaga e stanca di qualche occasione provvidenziale.

In paese ella doveva suscitare una certa simpatia per la gentilezza dei modi e l’aspetto soave, benchè avesse cessato per imposizione del babbo ogni pratica religiosa, e ciò facesse mormorar le più beghine.

Chi sa se fin dai primi tempi la immaginarono poco felice con un marito e con una figlia quali eravamo io e mio padre? Perchè verso quest’ultimo s’era ben presto accesa una sorda ostilità. Non c’erano, di ricchi, nel paese, che il capitalista proprietario della fabbrica, quasi sempre residente a Milano, e un conte, padrone di quasi tutte le terre, il quale faceva rare apparizioni colla sua signora, un grosso idolo carico di gioielli, al cui passaggio donne e uomini si curvavano fino al suolo. Una decina d’avvocati, annidati in un circolo di civili, suscitavano e imbrogliavano lunghe liti fra i piccoli proprietari dissanguati dalle tasse. Se si aggiungono alcuni preti e mezza dozzina di carabinieri, ecco tutta la classe dirigente del luogo. Mio padre non solo non aveva dato segno di accorgersi di loro, ma aveva respinto con impazienza un banchetto che avevano voluto offrirgli, insieme alla presidenza di non so quali istituzioni antiche e pompose e senza fondi. La cosa era inaudita, come inaudito e quasi offensivo era il fatto ch’egli rinviasse sistematicamente quanti gli portavano regali. Quante volte delle donnicciuole uscivan da casa nostra stupefatte e disperate, perchè il babbo non aveva accettato i polli coi quali esse volevano intenerire il suo cuore in favore dei loro figliuoli!

Ma nella sua estrema ignoranza e indolenza il popolo era ancora la parte migliore del paese, non mancava di una certa bontà istintiva; rimproverava soltanto al «direttore», come mio padre veniva chiamato, il rigore inaudito verso i dipendenti, esagerato di bocca in bocca.

Nei primi tempi il babbo aveva riso di questa antipatia diffusa. Poi, pian piano, aggiungendovisi la conoscenza più esatta dei lavoratori del luogo, un rancore amaro principiò ad invaderlo. Sopratutto l’ipocrisia dominante l’irritava. L’isolamento favoriva in lui la critica spietata, senza misura: il confronto fra quella razza quasi orientale che gli si premeva intorno sordidamente, e i suoi compaesani, si esagerava. Reagiva così, forse senza addarsene, al pericolo di acclimarsi o di veder acclimarsi i suoi figliuoli? Ma perdeva, anche inconsapevolmente, l’equilibrio del giudizio, esagerava la sua superiorità, il suo sprezzo fino alla provocazione. Avrebbe voluto adoperar nella fabbrica soltanto operai piemontesi, fondare una vera colonia, ma vi si opponeva il proprietario per economia e per prudenza. La maestranza nondimeno era composta tutta di nostri conterranei che colle famiglie costituivano un gruppo isolato e guardato dagli indigeni con diffidenza.

Io mi esaltavo in cuore misurando la distanza fra noi e «tutti quegli altri». Quando rientravo a casa dalla fabbrica, col berretto di lana rossa sui miei capelli corti e colla andatura rapida di persona affaccendata, udivo dei susurri dietro di me: in faccia al caffè i soliti scioperati mi guardavano sorridendo; sentivo che da una parte destavo la loro curiosità, dall’altra offendevo la loro abitudine di veder le fanciulle passar timide, guardinghe e lusingate dai loro sguardi. Il paese mi veniva in uggia, e se non l’aborrivo era unicamente a causa delle bellezze naturali che non mi stancavo di ammirare. Una strana nostalgia, strana in me che non avevo sentito alcun dolore lasciando Milano, mi s’era venuta insinuando nell’anima silenziosamente, non esternandosi che nelle lettere alle amiche. Il mio settentrione, attraverso le nubi del ricordo, m’appariva ora desiderabile, pieno d’incanti: la città sopratutto, l’immensa città col suo formicolìo umano, con la sua esistenza vibrante, la città che rivedevo talora in certi suoi aspetti più tipici, che mi risorgeva all’improvviso, in scorci, per cui avevo la momentanea illusione d’essere ancora là, piccola, a mano del babbo, sotto la nebbia o nel sole polveroso; la città della mia fanciullezza già circonfusa d’un rimpianto senza nome mi dava a volte nel ricordo brividi di passione....

Quando, in premio del mio primo inverno «di servizio», il babbo mi portò a Roma e a Napoli, questa vaga nostalgia di centri «viventi» mi si illuminò. Dopo due anni rivedevo la folla, m’incontravo con visi su cui erano segni d’intelligenza superiore o tracce di vita intensa; mi risentivo piccola, insignificante, sperduta, anelante ad apprendere da tutti e da tutto intorno. Ciò mi produsse una emozione forse maggiore di quella che mi destarono i monumenti e i paesaggi meravigliosi. E nelle lettere alla mamma e nel diario che per incitamento di mio padre scrissi durante il viaggio, questo senso intimo faceva capolino assieme ad osservazioni ingenue, a note ammirative, a velleità critiche.

Fu quel viaggio come il coronamento della mia adolescenza balda, temeraria, trionfante. Me ne rimase una memoria indistinta, circonfusa di luce troppo vivida. Le impressioni si eran sovrapposte nel mio spirito quali sillabe d’un’ignota parola che riassumesse la vita; e io le avevo accolte con un grave stupore, sentendomi nelle vene serpeggiare una soavità nuova, un languore di cui non sapevo definire la causa, una brama di tenerezza, d’espansione.... Il presente non era dunque che letargo, io andavo dunque incontro ad una nuova fase d’esistenza?

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Una Donna

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