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IV.

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Appartenevo ad un uomo, dunque?

Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome. Ho di essi una rimembranza vaga e cupa.

D’improvviso la mia esistenza, già scossa per l’abbandono di mio padre, veniva sconvolta, tragicamente mutata. Che cos’ero io ora? Che cosa stavo per diventare? La mia vita di fanciulla era finita.

Il mio orgoglio di creatura libera e riflessiva spasimava; ma non mi permetteva d’indugiarmi in rimpianti e discolpe, mi spingeva ad accettar la responsabilità dell’accaduto.

E tentavo giustificare affannosamente ciò che ancora mi riempiva di stupore. Quell’uomo, da quando lo conoscevo? Da due anni circa. Lo avevo visto quasi ogni giorno, m’era stato compagno ed aiuto di lavoro. L’avevo guardato sempre con una franca compiacenza fanciullesca; le sue goffaggini stesse m’avevano divertita. Poi, un giorno, egli aveva tranquillamente disonorato ai miei occhi mio padre.... Perchè non avevo dubitato neppure un istante che mentisse? Io non sapevo nulla della vita, e subito la sua esperienza m’aveva infuso una specie di rispetto. E mi sorrideva con pietà. Aveva assistito all’angoscia terribile della mia anima improvvisamente sperduta. E m’era apparso diverso da quel di prima, un essere nuovo, dotato di tutto ciò che veniva a mancare a mio padre. Come lo giudicava con dignità, con sdegno, e com’era commosso difendendo la mia povera mamma! Un solo momento ne avevo ricevuto un’impressione fastidiosa: quando, chiestogli se mi avrebbe sostenuta colla sua testimonianza, allorchè io avessi affrontato mio padre, m’aveva scongiurata di tacere, di tacere....

E da quel momento m’aveva avviluppata coll’onda delle parole carezzevoli; il mio cuore s’era intenerito. Non avevo dubitato un solo istante della sua devozione; avevo accettato, con la superbia non per anco estinta della mia superiorità.

Sapeva egli della stanchezza che m’avea vinta? M’aveva tenuta fra le braccia, m’aveva detto di amarmi, ed io avevo ascoltato....

Non potevo concepirmi vittima d’un calcolo. L’amore doveva aver fatto tutto questo. Ed io com’ero impreparata ad accogliere il misterioso ospite! Ah, che davvero non sapevo nulla, in fondo, della vita, per aver troppo ed esclusivamente contemplato mio padre! Non mi ero mai raffigurato il mio avvenire di donna. E donna, ecco, ero divenuta subitamente, proprio quando non potevo più confidarmi a mio padre, quando tutto il nostro passato perdeva ogni valore ai miei occhi, quando la stessa mamma mia non era più in grado di ascoltarmi e di illuminarmi.

Neppure un istante ebbi la tentazione di svelare alla disgraziata il mio terribile segreto. Ella soffriva già abbastanza, chiusa nel suo dolore!

Mio padre, come lo sentivo lontano, staccato ormai dalla mia vita! E che strazio aggiunto a strazio, questo di celargli la tempesta che mi travolgeva!

Sola, in silenzio, mi lasciavo invadere da una specie d’autosuggestione, di follia lucida. Era l’influsso dell’improvvisa scossa fisiologica? I ricordi che serbo sono come quelli della febbre.... Quando mi dissi per la prima volta che dovevo, forse, ricambiare la passione di quell’uomo, accettar da lui, per tutta l’esistenza, l’appoggio, il rifugio ch’egli mi offriva, separandomi da tutto ciò che aveva costituito fin allora la mia vita? Non so, non vedo più chiaramente. Avevo cominciato a pensare che forse io amavo il giovane da tanti mesi senza saperlo, che forse qualcosa, sotto le umili apparenze, m’aveva sedotta, d’inesplicabile. Poi avevo soggiunto che forse, in quell’avvenire di amore e di dedizione non mai prima intraveduto, era la salvezza, era la pace, era la gioia. Sua moglie.... Non l’ero di già? Egli m’aveva voluta, egli m’era destinato, tutto s’era disposto mentre io credevo seguire una ben diversa via.... Quello sposo delle leggende, che m’era sempre parso un puerile personaggio, esisteva, era lui!

L’uomo s’accorse subito che la sua causa trionfava, e forse non ne fu neppure molto sorpreso. Aveva però tremato. Adesso, più sicuro, pieno di speranza, secondava le effusioni ch’io esalavo in lettere e in parole alte e puerili insieme, e per arrestarmi sulle labbra ogni domanda di esplicazioni, ogni interrogazione su l’accaduto, riprendeva a baciarmi le mani e i capelli, fugacemente, e mi ripeteva con un poco di solennità che tutta la sua esistenza non sarebbe bastata a ringraziarmi del dono della mia, e tentava impadronirsi di nuovo della mia persona. Ma l’iniziazione era stata troppo atroce, e mi rifiutavo. Come molte fanciulle, alle quali le letture dei romanzi suscitano immaginazioni informi che nessuno illumina, io supponevo che la realtà non fosse tutt’intera in quella che mi aveva colpita disgustosamente: immaginavo un compenso avvenire di ebbrezze ineffabili che avrei goduto da sposa. Il pudore in me quindicenne era troppo embrionale ancora, perchè potesse profondamente soffrire; forse anzi un’oscura fierezza mi spronava e sosteneva, nella volontà d’amore e di dedizione che andavo coltivando con ostinazione disperata.

Ma il babbo notava le mie distrazioni e i miei turbamenti; d’improvviso mantenne la parola e m’impose di non tornare in ufficio.

Nella brusca separazione mi esaltai maggiormente e credetti di passare i giorni più orrendi della mia vita; poi, riuscita a corrispondere col giovane, fui incitata da lui a dichiarare a mia madre il nostro amore: e la mamma, triste, affranta, china verso il precipizio della sua ragione, parve come bere ad una fontana di giovinezza ascoltando la figliuola innamorata. Erano i suoi vent’anni ch’ella rievocava? Era la felicità invano sognata per sè che si illudeva di veder risplendere per la sua creatura? Qualcosa di lei palpitava in me, in quell’ora, per la prima volta: lo sentiva inconsciamente? La sventurata non poteva immaginare il dramma che aveva troncata la mia adolescenza; pensò, anch’ella!, ad un sentimento magicamente sbocciato nel mio cuore per salvarmi da un’esistenza ibrida; e raccolse tutta l’energia di cui disponeva perchè le mie lagrime cessassero, perchè il suo sogno di dolcezza trionfasse una volta nella sua figlia....

Io la osservavo con tenera mestizia, con un senso vago di timore per me stessa, riconoscendomi fragile come lei, chiedendomi se veramente io avessi maggior fortuna e non m’illudessi fidando nell’amore, com’ella s’era illusa.

Quando il babbo seppe, parve non dare importanza, non credere quasi. Ma, per iscritto e a voce, io e il mio tristo eroe cercammo di persuaderlo che unico scopo della nostra vita, ormai, era quello d’unirci. La sua collera scoppiò tremenda. Tuttavia neppure egli sospettò il vero: come avrebbe pensato alla delittuosa audacia, egli che si sapeva tanto temuto da chiunque lo avvicinava? L’idea di uno sciocco infatuamento della figlia preferita, educata a disprezzare ogni fantasmagoria e a contare su di sè sola per le battaglie della vita, lo esasperava. Non riconosceva certamente la sua parte di colpa, per l’attenzione affettuosa che m’era venuta a mancare nell’epoca in cui più ne avrei avuto bisogno. Soffriva. Complicato e primitivo insieme, non giungeva a farsi un concetto preciso di quanto avveniva intorno a sè, nè a porvi rimedio. Comprendeva d’esser solo, a sua volta, d’essersi alienata l’unica riconoscenza. E dall’addensarsi del biasimo generale sul suo capo, dal presagio d’imminenti catastrofi, traeva una disperata smania di tirannia e di vittoria ad ogni costo.

La mamma lo fece stupire insistendo nel difendermi. Dopo quella sera avevano sempre evitato di parlarsi; ora, l’una sembrava imporre all’altro, come patto di pace e di acquiescenza, il mio bene. Pareva dicesse: «Sì, sono vecchia, sarò nonna, la tranquillità entrerà nel mio spirito se non nel mio povero cuore: troverò ancora la vita un po’ bella, purchè nostra figlia sia contenta e io possa pensare ai suoi bimbi!...»

Egli non mi parlò. Compresi ch’io ero morta per lui, ch’egli dava l’addio a tutto il sogno che aveva costruito sul mio capo nel tempo remoto.

Disse al giovane che non era il caso di pensare al matrimonio, per allora: avevo quindici anni e mezzo; ne dovevano passare alcuni altri. Ma egli poteva frequentare la nostra casa, la sera, e accompagnarsi qualche volta a passeggio con la nostra famiglia. Che cosa contava fare? Trovarsi un impiego altrove, più conveniente, tentare una carriera governativa? Lo avvertiva che non m’avrebbe data alcuna dote. Intanto, continuasse pure a prestar servizio in fabbrica....

Avevo immaginato che colui si sarebbe dimesso, si sarebbe procacciato subito un altro lavoro, anche fuor del paese. Nulla invece accadde; egli non pensava affatto che fosse poco dignitoso il restar nella dipendenza d’un futuro suocero, e d’un uomo di cui egli biasimava la condotta. Per contro, era ben certo che mio padre doveva darmi un assegno quando fossi maritata.

Venne dunque da noi alla sera, come un fidanzato regolare. Col babbo non vi si incontrava mai, poichè quegli usciva senza fallo appena finito di pranzare. Attorno al tavolo i ragazzi giocavano o leggevano, la mamma ed io c’indugiavamo in qualche ricamo; e il giovine si divertiva a farmi indispettire, contraddicendomi sistematicamente nella conversazione. Ogni tanto mi dava un bacio all’impensata, senza curare le proteste di mia madre e le risa dei bambini. Allora mi rabbonivo. Ci lasciavamo verso le dieci, dopo esserci abbracciati nell’anticamera buia ove io sola l’accompagnavo: a volte, le sue mani mi afferravano, un po’ febbrili, alle braccia, un istante, risuscitando ne’ miei sensi il brivido, ormai lontano, di terrore.

Le prime settimane s’era fatto in paese un gran discorrere della nostra relazione; il mio brusco allontanamento dalla fabbrica era stato interpretato dai più maligni come la conseguenza di una scoperta da parte di mio padre. Non avevano, circa un anno prima, le stesse lingue sussurrato che l’affetto di mio padre per me fosse più che paterno, non s’erano compiaciute in invenzioni odiose e mostruose? I miei genitori non sapevano quel che ora si andava dicendo. Dinanzi alla sicurezza ignara de’ miei, avevo sentito in me crescere un senso di vergogna. Almeno il mio fidanzato fosse insorto contro i diffamatori! Pareva invece aver preso un contegno speciale di fronte ai suoi compagni, come se fosse tutto ad un tratto salito in dignità. Questi lo invidiavano e insieme sembravano esser contenti che uno del paese avesse umiliato l’orgogliosa famiglia forestiera. Passando dinanzi al solito circolo, m’avvedevo dei sogghigni con cui mi guardavano e la mia fierezza non osava più reagire. Egli rideva, mi dava della sciocca. Rise anche quando gli riferii una diceria sul suo conto giuntami solo allora all’orecchio: che egli avesse disonorata la ragazza la quale poi aveva tentato di uccidersi per lui. E non si curò di difendersi nè di giustificarsi.

Una Donna

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