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III.
ОглавлениеEra il terzo settembre che passavamo in paese. La stagione balneare non aveva differito dalle precedenti, e nessun distinto particolare, di essa m’è rimasto nella memoria: mi pare soltanto che per mio conto alternassi il piacere di nuotate sempre più lunghe e audaci con quello di letture ugualmente eccessive, da cui uscivo col capo stanco e con un confuso malcontento di me stessa.
Della mamma, dei fratellini, dei conoscenti, di mio padre stesso non riesco a ricordar nulla, in quell’estate. Come fu che una sera si diede in casa nostra una specie di ricevimento ad alcuni villeggianti e ad alcune famiglie del luogo? L’iniziativa era venuta dal babbo. Tre stanze del nostro appartamento, trasformate e adornate da piante e da lumi, avevan raccolto una quarantina di persone, signore di Napoli e di Roma a cui guizzava negli occhi l’ironia per le provinciali, uomini gravi che consideravano mio padre curiosamente nel suo aspetto intimo di buon ragazzo, qualche impiegato, le maestre e i maestri del paese con le lor famiglie. Una piccola orchestra invitava a ballare grandi e piccini. Nella mia qualità di padroncina di casa non avevo potuto rifiutare di far qualche giro anch’io, a malincuore, perchè la danza non mi piaceva e mi produce va mal di capo. Ero osservata: i giovani mi si avvicinavano con una specie di timidezza che mi divertiva. Ma fra un ballabile e l’altro io m’ero sorpresa a riguardare il babbo e la mamma, involontariamente. L’uno, appassionato ed eccellente ballerino, pareva ritornato giovinotto, ed esercitava intorno con la spontaneità della sua natura un vero fascino: l’alta persona, volteggiando fra le coppie, mi significava ancor una volta la semplicità, la gioia, la forza della vita. Mia madre era contenta di quell’ora di svago? Anch’ella, avvolta in un abito di pizzo nero scintillante di perline, mi evocava fuor della memoria anni lontani, serate in cui l’avevo vista partire a braccio del babbo per qualche spettacolo, timida ma non impacciata nell’abbigliamento elegante. Il suo viso conservava la grazia dei tratti; non pareva, quella sera, ch’ella avesse più di trent’anni.
Ma mi sembrava ch’ella non pervenisse a nascondere una nervosità di cui ignoravo la cagione: notavano gli ospiti e il babbo lo sforzo che ella faceva su sè stessa per seguire le conversazioni e i giuochi?
Verso le otto del mattino seguente, appena alzata, passando accanto alla camera della mamma e supponendola ancora in letto, bussai per domandarle ordini; la voce di lei, fievole, mi disse d’entrare. Scorsi il profilo del babbo addormentato, vòlto verso l’uscio; il viso materno non si distingueva bene fra i cuscini e le coltri: rinchiusi la stanza, raggiunsi i fratellini che facevano già colazione.
Quanti minuti scorsero? Un grido, indi parecchi altri, poi un gran susurro nella piazza sottostante mi fecero trasalire. Non m’ero ancora avvicinata alla finestra, che il rumore si portò ai piedi dello scalone di casa, facendomi correr verso la porta, seguita dalla donna e dai fratelli. Esclamazioni di sorpresa e di dolore salivano dal basso, con uno scalpiccìo come di persone che recassero un peso: la cameriera, precipitatasi contro la balaustra, gittò un urlo, si ritrasse, per coprirci lo spettacolo, per respingerci in casa. E io vidi il corpo di mia madre portato da due uomini, un corpo bianco seminudo su cui una mano aveva lanciato un cencio che penzolava, come penzolavano le braccia, i piedi, i capelli. Uno stuolo di gente seguiva. Pensai d’esser impazzita.
No! Era la mia mamma veramente, gli occhi chiusi, bianca nel viso come una morta, con macchie rosse lungo un braccio ed un fianco. Il babbo si avanzava fuor della stanza semivestito senza comprendere. Si strinse le tempie; il volto gli si scompose, e io dovetti non vedere e non sentir più nulla, poichè non ricordo altro.
Mi riscosse un vocìo di donne. Raccontavano. Avevano visto affacciarsi al nostro balcone la figura bianca, scambiata così al sole per una di noi bambine, le avevan fatto cenno di rientrare. La figura s’era sporta, indi abbandonata, piombando di fianco sul terreno.
Entrò il medico. Penetrai con lui nella camera. La mamma era sul letto, senza moto; il babbo a’ suoi piedi, lo sguardo perduto, si torceva le mani. Mi vide, e un gran singhiozzo, il primo ch’io sentissi salire da quel petto, lo abbattè su una sedia, mentre mi traeva fra le ginocchia e nascondeva la faccia sulla mia spalla.
Oh lo smarrimento che mi prese! Il tumulto che scoteva mio padre mi atterriva; ed insieme m’invadeva l’oscuro presagio d’altri momenti atroci come quello....
Non avrei voluto più sciogliermi da quell’abbraccio: per la prima volta provavo la volontà di chiuder gli occhi e di sparire. E non formulavo alcun pensiero, neppur questo: «Vive ancora?»
Viveva. Il capo, il tronco erano stati miracolosamente illesi: solo il braccio sinistro era spezzato. Non riprese conoscenza che dopo tre giorni. Non seppe o non volle dir parola del tragico accaduto: ho il confuso ricordo d’una sera in cui il babbo, a ginocchi, la scongiurò invano, non ottenendo che questa risposta: «Perdonatemi, perdonatemi....» Erano nella stanza anche i bimbi. Il babbo piangeva, e io non so ancora se fossero più strazianti le lagrime di lui o le fioche parole dell’inferma, che uscivano come dall’ombra....
Era stato un momento di pazzia? Volevo crederlo e insieme mi spaventavo di pensarlo. Nella voce del babbo era l’accento appassionato della sincerità, quando chiedeva a sè stesso, sommesso e tremante, nella penombra della camera, che cosa poteva aver provocato quell’accesso di disperazione. La mamma lo guardava silenziosa: avevo il senso strano che ella ne attendesse la spiegazione da lui.... E insieme avevo la certezza intima che mio padre non sapeva che cosa rimproverarsi.
Rimase in letto due mesi in un alternarsi di febbri che minacciavano la congestione cerebrale; presente come non mai, e insieme assente, come dopo una suprema rinuncia.
Qualcosa di sinistro s’andava aggravando sulla casa, oltre all’ansia per le vicende della malattia e malgrado la stessa forza di resistenza, ch’era in tutti noi. I bimbi non comprendevano, subivano semplicemente la tristezza dell’ambiente; io notavo con disagio, poi con spavento, nel lentissimo risveglio di lei, certi torpori insistenti, certe lacune della memoria, certi eccessi nelle manifestazioni d’affetto o d’antipatia per i circostanti. Ma avendo preso il governo della casa e continuando in certe ore ad occuparmi del mio impiego, non tralasciando le mie letture e la mia corrispondenza, ero occupata in modo da non poter troppo indagare le sensazioni nuove e varie che si alternavano in me. Compiangevo mio padre, prodigavo alla mamma una tenerezza vigile, quasi a scongiurare le manifestazioni che temevo dalla sua anima malata. Ero certa ora d’amarli entrambi, ma con una nuova inquietudine e con la sensazione, che sempre più mi penetrava, di essere ormai sola, sola con la mia anima, e ignorando due anime che amavo, che compiangevo e che temevo di giudicare.
Alla fine dell’inverno la mamma era quasi del tutto ristabilita. Solo il braccio rotto, che aveva dovuto venir ricomposto due volte per l’inabilità del chirurgo, restò infermo, colle articolazioni della mano impacciate. Invecchiata, estenuata, aveva un’aria ancor più dimessa e avvilita, con quella mano che la più piccola delle mie sorelline baciava ogni poco teneramente, facendo splendere d’una lagrima gli stanchi occhi di lei. Pareva tornata bimba, una bimba timorosa che non sa liberarsi dal ricordo di un suo errore.
Il babbo, passate le settimane del pericolo, aveva vinto lo smarrimento, appariva di nuovo padrone di sè. E non osando interrompere i lunghi silenzi in cui s’immergeva, io pensavo.... Per la prima volta cercavo nel passato, scoprivo degli indizî, li collegavo. I dissensi che avevo intuito nella vita de’ miei cari mi apparivano ora diversi da quelli che talvolta avveravansi tra il babbo e me; capivo che doveva esserci qualcosa di ben più profondo, qualcosa di fatale e d’invincibile come mi pareva che fossero le mie antipatie contro certe persone e certe cose.... Il babbo doveva averla amata tanto quella povera cara, e ora ne’ suoi isolamenti, silenziosi egli rievocava chi sa quali ricordi; ma sentivo che dovevano essere soltanto ricordi.
E non riuscivo a veder nell’avvenire stabilirsi un amore nuovo e più forte fra loro e in tutta la famiglia.
Egli era colla mamma pieno di riguardi, condiscendente, quasi carezzevole; evitava le antiche sfuriate; ma io percepivo una punta di rassegnazione nel modo con cui accettava la melanconia persistente di lei, di lei che scoprivo oppressa dai desiderio timido e accorato d’un ravvicinamento.
Un giorno, la nostra casa era piena di sole, essi restarono chiusi più d’un’ora nella stanzetta ove adesso il babbo dormiva solo: quando ne uscirono, mia madre aveva il volto soffuso d’un color roseo che da tanto tempo non le vedevo, e insieme d’un sorriso vago, un sorriso di fanciulla felice. Mi guardò come se non mi riconoscesse. Il babbo invece s’annuvolò, evitando il mio sguardo.
Altre volte la vista della mamma appoggiantesi stanca sulla spalla del babbo, mi turbò, nelle settimane seguenti. Il babbo sfuggiva di trovarsi solo con lei, me ne persuasi; sfuggiva noi tutti, la casa, quasi insensibilmente.
La primavera scorreva lenta: nei crepuscoli tepidi ed avvincenti io mi sentivo talora invadere da un bisogno torturante di pianto, di dissolvimento: che cos’era? Dov’era andata la mia balda adolescenza? Perchè mio padre si allontanava così dalla mia anima? Non mi sentiva soffrire, non mi amava, ah, certo non mi amava più! Stavo io per dubitare di lui, di me stessa, della vita?
Pure la giovinezza inconsciamente reagiva. Continuavo a lavorare, a scrivere lunghe lettere, piene d’una strana austerità, alle mie amiche; a sorridere con una punta di civetteria ingenua agli operai piemontesi di cui qualcuno mi destava una simpatia esagerata, per contrasto forse coll’uggia che mi davano persone e cose del paese.
E la mia personcina si trasformava, perdeva certe asperità di linee e di movimenti, e il viso sopratutto pareva farsi più luminoso, più espressivo. Fu mio padre che mi fece gettar la prima volta gli occhi sullo specchio con interrogazione un poco ansiosa: una sera sentii, con un misto di gioia e di stupore, ch’egli diceva come a sè stesso, dopo avermi considerata alquanto in silenzio: «Diventerà bella....» Non lo credetti, ma provai una compiacenza inesprimibile.
Altri notava la mia metamorfosi. Era nell’ufficio della fabbrica, impiegato da un anno, un giovine del paese, figlio di piccoli proprietari, piacevole d’aspetto, con modi spigliati, ch’io trattavo da buon camerata, scambiando barzellette o disputando cordialmente negl’intervalli del lavoro, sopratutto quando si rimaneva soli nel vasto stanzone ove entrambi avevamo il nostro tavolo. In quella primavera l’ossequio leggermente ironico ch’egli aveva fin allora usato verso di me lasciò il posto ad una più spontanea attitudine di ammirazione, che non mi sfuggì e mi divertì. Mi raccontava del paese, di quello che i suoi compagni dicevano di me. Lo interrogavano sul mio conto con grande curiosità; mi descrisse uno d’essi, che si diceva innamorato di me e parlava di rapirmi: questo era un uso non raro in quei luoghi e al ratto seguiva il matrimonio. Io ridevo e accennavo a mio padre, il cui nome incuteva terrore. Più d’una volta infatti incontrai gli occhi di quel sedicente innamorato, non senza noia.
Il giovane mi diceva anche che l’arciprete aveva fatto più volte accenno a noi in chiesa, attribuendo la disgrazia di mia madre a castigo di Dio. Affermava che alcune vecchie facevano il segno della croce quand’io passavo. Mi chiamava «demonietto» e pareva guardarmi come un oggetto curioso dal congegno ignoto e forse pericoloso. In breve ardì manifestarmi delle lodi che secondo lui si facevano dai signori, di questo o quel mio pregio fisico. Ripeteva tutto ciò con compiacenza. Le sue parole come il suo sentimento mi lasciavano tra offesa e lusingata, ma mi pareva di sentirvi un fondo di sincerità, e nella incipiente soddisfazione del mio rigoglio trovavo scusabile che colui, al quale non celavo d’altronde la coscienza della mia superiorità, dimenticasse talora ch’io ero la figliuola del suo principale. Gli rispondevo scherzosamente, per fargli comprendere tuttavia che non davo alcuna importanza al gioco; talvolta mi compiacevo a cambiar improvvisamente il discorso, a trascinare il giovine, sprovvisto di coltura e con opinioni abbastanza grette e convenzionali, in discussioni nelle quali ben presto egli restava battuto: allora ridevo, d’un riso alto, squillante, e così fanciullesco in fondo, che colui finiva per rider con me, non senza lasciar trasparire sulla faccia uno stupore un po’ ingenuo.
Una seconda vittima delle mie bizzarrie era una vecchietta che frequentava la nostra casa per assistere la mamma. Chiacchierando, ella alludeva talora al mio avvenire, al tempo in cui sarei divenuta sposa e madre e avrei riso delle attuali mie funzioni d’impiegata; tranquilla io replicavo che non mi sarei mai maritata, che non sarei stata felice se non continuando la mia vita di lavoro libero, e che, del resto, tutte le ragazze avrebbero dovuto far come me.... Il matrimonio.... era un’istituzione sbagliata: lo diceva il babbo sempre.
La vecchietta s’indignava. «Ma allora il mondo finisce, non nascon più figliuoli, non comprendi?»
Restavo interdetta. Mia madre, già da qualche anno, mi aveva parlato delle funzioni misteriose dell’organismo femminile, pur senza soffermarsi sui rapporti fra uomo e donna. Certo, se mio padre propugnava la sparizione del matrimonio, voleva dire che i bimbi avrebbero potuto nascere ugualmente: il babbo non voleva la fine del mondo. Ed io, dopo tutto, non sentivo questa responsabilità verso il futuro.... No, non mi sposerei.
La mamma assisteva a questi dibattiti senza parteciparvi: ella era sempre più assorta, chiusa come in un deserto interiore. Alla fine della primavera il babbo le propose di andar a passare un mese a Torino, dai parenti, con me. Ella accettò. Che senso di responsabilità penosa, accompagnandola io sola! Sempre, latente, era il terrore di vederla ripresa dalla necessità d’un qualche folle e fatale atto. E ancora, più triste che mai, il dubbio di non amarla quanto avrei dovuto e voluto, di essere impotente di fronte alla sua infelicità!
Ma col viaggio parve le ritornasse veramente un poco di speranza e una certa serenità, insieme ad un maggior vigore fisico. In quanto a me il tuffo inatteso nelle memorie dell’infanzia valse a far dileguare alquanto gli oscuri timori, a restituirmi parte della mia baldanza.
Una volta ancora tornò l’estate. Io compivo i quindici anni. Alla spiaggia dove la colonia bagnante si riuniva e invitava talora a’ suoi passatempi, mi vedevo osservata con curiosità da tutti, guardata con insistenza da uomini di varia età, e un giovane prima, malaticcio e motteggiatore, poi un altro quasi ancora adolescente, dal corpo forte ed agile e dalla testa ricciuta che mi ricordava certi bronzi visti nei musei, mi occuparono per qualche settimana la fantasia senza farmi battere il cuore nè destarmi istinti di civetteria. A me stessa ridendo chiedevo: «M’innamorerei?...» e il giuoco mi piaceva, pareva dare un sapor nuovo alla vita che vivevo con tanta foga. Facendomi cullare dall’onda per ore ed ore sotto il sole ardente, sfidando il pericolo coll’allontanarmi a nuoto dalla riva fino a non esser più visibile, io mi unificavo con la natura e sfogavo insieme l’esuberanza del mio organismo. Ero una persona, una piccola persona libera e forte; lo sentivo, e mi sentivo gonfiare il petto d’una gioia indistinta.
Ma in casa la tristezza ritornava, più paurosa. Nella mamma il carattere s’inaspriva, e questo rendeva più palese il progrediente squilibrio del suo spirito, che il babbo non si peritava di far rilevare a lei stessa, crudamente. I ragazzi erano più che mai abbandonati. Come lontano il tempo in cui nostro padre si faceva bimbo per giocar con noi! La stanchezza, l’indifferenza verso tutta la famiglia erano ormai evidenti in lui. Sopraggiungendo l’autunno, pretestò di dover fermarsi fino a tarda ora di notte in fabbrica, ed in casa non lo si vide più che durante i pasti, taciturno. Più che mai esigente coi suoi operai, neppure a me risparmiava i rigori della sua disciplina, con una durezza spesso glaciale.... Stupita, sgomenta, cercavo....
Il mio compagno d’ufficio non mi lasciò cercare a lungo. Restavamo spesso soli nello stanzone grigio ove s’allineavano scaffali e tavoli ricoperti di carte e registri, ed in mezzo al quale una grossa stufa a carbone ardeva rendendo l’aria spesso intollerabile. Un altro impiegato sopraggiungeva soltanto nelle ore del pomeriggio, un quarto faceva frequenti assenze. Fra un lavoro e l’altro continuavamo a scambiarci frasi più o meno scherzose, o ad intrattener discorsi più serî, che venivano interrotti e ripresi ripetutamente lungo il corso della giornata. Egli aveva venticinque anni, la persona maschia e snella, il viso olivastro animato da due larghi occhi neri: parlava con facilità ed abbondanza. Molte cose in lui mi urtavano, quotidianamente. Non tutte gliele celavo; ma egli non badava alle osservazioni di una ragazzina, stupito soltanto, abituato com’era a considerar la donna un essere naturalmente sottomesso e servile, della mia indipendenza. Non sapevo nulla di lui, soltanto avevo udito dire vagamente che una ragazza da lui amata prima che andasse soldato, aveva tentato di uccidersi quando al ritorno egli non l’aveva più curata. A mio padre non piaceva: lo tollerava perchè era un lavoratore; ma mi rimbrottava seccamente ogni volta che ci sorprendeva a chiacchierar insieme.
Fu per rappresaglia? Questi mi narrò ciò che in paese ormai molti sapevano: che mio padre aveva un’amante, una ragazza stata qualche tempo operaia nella fabbrica; che la cosa doveva essersi iniziata in primavera, durante il viaggio mio e di mia madre; che quasi ogni sera il babbo andava a trovar colei, alloggiata e mantenuta a sue spese con tutta la miserabile e numerosa famiglia in una casa fuor del paese....
Il babbo!... Mille piccoli incidenti mi si illuminarono: non m’era possibile non prestar fede alla terribile rivelazione.... Mi sentii curvare a terra, afferrare dalla smania di mordere il suolo, nel dolore e nella vergogna....
Mio padre, l’esemplare raggiante, si trasformava d’un tratto in un oggetto d’orrore: egli, che mi aveva cresciuta nel culto della sincerità, della lealtà, egli nascondeva a mia madre, a noi tutti un lato della sua vita. Oh babbo, babbo! Dove era la nostra superiorità, di cui andavo così altera fino a ieri? Mi pareva che piombassimo più giù di tutte quelle creature intorno, di cui avevo indovinato il lezzo istintivamente! E i miei fratelli innocenti! E mia madre, mia madre, sapeva qualcosa? Mi sentivo ora attratta verso la sventurata, col cuore pieno, fino a scoppiare, pieno di rimorsi e d’ira contro me stessa....
Forse quando ella aveva tentato di morire, mio padre la tradiva già? Allora io avevo respinto il dubbio con tanta sicura e serena persuasione! Anche oggi lo respingevo. Era troppo orribile! Ma intanto l’infermità fisica e morale che teneva la mamma non era una scusa per mio padre dinanzi a’ miei occhi.
Oh se fosse possibile far rinsavire il babbo, opporre alla sua la mia volontà audace e fremente, salvare tutti noi dalla rovina!
Ma chi, con perfidia od incoscienza, m’aveva portato il tremendo colpo, badava ad insinuarmi l’inutilità d’ogni reazione, e a dipingermi nello stesso tempo un fosco avvenire. Mi prodigava una pietà che in tutt’altre circostanze m’avrebbe offesa. Non gli badavo: mi sentivo stringer le mani, accarezzar i capelli, e il mio essere cedeva inconsapevole alla dolcezza di quel contatto, mentre tremavo d’ira e di disperazione.
Che cos’era, che cos’era quella forza oscura che mi si rivelava così d’un tratto, quell’amore di cui le mie letture m’avevan dato un concetto chimerico? Era dunque una cosa nefasta, degradante, e pur formidabile se aveva potuto vincere ed avvilire mio padre!
E la vita, che ignoravo, ma in cui avevo sempre creduto fosse riposto un fine di bontà e di bellezza, m’appariva incomprensibile, deforme....
Quanti giorni vissi con l’atroce tumulto nell’anima? Non so più. So soltanto che negli istanti di depressione succedenti al parossismo, una voce calda e giovanile, insistente, al mio fianco, mi sussurrava parole di ammirazione sempre meno velata. In certi momenti mi sentivo atona, istupidita, e quell’unica voce continuava, m’investiva coll’accento della passione. Ed incominciai a rispondere, con una incredulità che persisteva in me, e insieme una speranza che mi s’imponeva ardentemente: divenni dolce, remissiva. Non gli dicevo di volergli bene, non lo dicevo neanche a me stessa, ma c’era un uomo a cui ero cara.
Come seppe la mamma la sua sventura? Una sera eran venuti a trovare il babbo dopo cena, non so più per qual motivo, alcuni individui, fra gli altri un notaio, creatura insignificante e melliflua che mio padre doveva aver preso a confidente, e il mio compagno d’ufficio: si chiacchierava. Mia madre scoppiò ad un tratto in una risata convulsa, domandando al notaio: «È vero, dica, che lei accompagna mio marito a passeggio la notte dalla parte del fiume? Mi racconti un po’ di che cosa parlano...!»
Gli uomini si scambiarono un’occhiata, esterrefatti. Pallida, ora, la mamma s’alzava con un tremito, accusava un malessere, si ritirava. Rimanemmo in sala il babbo, io e gli ospiti. Vedevo sul volto di mio padre un’ira repressa, terribile. A voce lenta, quasi mormorando, egli dichiarò:
«Quella donna impazzisce!»
In un impeto proruppi: «Anch’io impazzirei, papà!» E gli piantai gli occhi in viso, con disperata ribellione, sentendo montarmi al capo uno spasimo terribile.
«Taci, tu!» urlò l’uomo colpito a sangue, slanciandosi quasi per stritolarmi; e indietreggiando d’un subito con un supremo sforzo: «Esci!»
Non ricordo come passassi quella notte. Il mattino seguente, la mamma in camera sua con la febbre attendeva invano una visita del marito, certo per chiedergli perdono; io mi sentii annunciare che alla fine del mese sarebbe cessato il mio impiego! Era la risposta alla mia frase della vigilia.
Quando fui nell’ufficio non potei rattenere il pianto: quella vita di lavoro fra gli operai io l’amavo intensamente, non potevo pensare di abbandonarla, non ne immaginavo alcun’altra così conforme ai miei gusti, alla mia natura! Lo dissi al mio compagno, che mi si era avvicinato.
«E a me non pensa? Che farò io?» mormorò egli. E ritornò al suo tavolo, nascose la faccia fra le mani, con un sussulto nervoso alle spalle. Gli andai accanto, dimentica della mia pena; mi afferrò, mi strinse, piccola, contro il suo petto.
«Com’eri bella, iersera, com’eri fiera, come avrei voluto baciare le tue ginocchia....»
Chiusi gli occhi. Era vero? Tutta la mia anima voleva una risposta. Rimasi ferma qualche minuto: le labbra di lui scesero sulle mie. Non mi svincolai. I miei sensi non fremevano, ancora sopiti; il cuore attendeva se qualche grande dolcezza stesse per invaderlo.
Un rumore che sopraggiungeva mi fece allontanare bruscamente. Il giorno dopo, in un istante di solitudine, mi rifugiai di nuovo accanto al giovine, che mi disse di volermi bene, e m’impedì di parlare, soffocandomi con brevi baci sulla bocca, sul collo. Mi scostai un po’ infastidita. Ma nei dì seguenti la compagnia di lui mi parve necessaria. Dimenticavo in quei momenti il dolore che portavo meco dalla casa, che mi si incrudeliva ogni volta che incontravo lo sguardo di mio padre. E non chiedevo altro, paralizzata.
Egli comprendeva la mia incoscienza, constatava la mia ignoranza, la mia frigidità di bambina quindicenne. Velando con gesti e sorrisi scherzosi l’orgasmo ond’era posseduto, con lenta progressione mi accarezzò la persona, si fece restituire carezze e baci, come un debito di giuoco, come lo svolgimento piacevole d’un prologo alla grande opera d’amore che la mia immaginazione cominciava a dipingermi dinanzi.
Così, sorridendo puerilmente, accanto allo stipite d’una porta che divideva lo studio del babbo dall’ufficio comune, un mattino fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: delle mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire in urlo, quando l’uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano. Udii un passo fuggire e sbattersi l’uscio. Barcollando, mi rifugiai nel piccolo laboratorio in fondo allo studio. Tentavo ricompormi, mentre mi sentivo mancare le forze; ma un sospetto oscuro mi si affacciò. Slanciatami fuor della stanza, vidi colui, che m’interrogava in silenzio, smarrito, ansante. Dovevo esprimere un immenso orrore, poichè una paura folle gli apparì sul volto, mentre avanzava verso di me le mani congiunte in atto supplichevole....
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