Читать книгу Delitti Esoterici - Stefano Vignaroli, Stefano Vignaroli - Страница 7

CAPITOLO III Aurora Della Rosa

Оглавление

Larìs non aveva paura di attraversare il ponte sospeso. Cercò con lo sguardo gli occhi azzurro verdi di Aurora, che le trasmisero tutta la forza e l'energia di cui aveva bisogno. Era poco tempo che la conosceva, ma si fidava di lei e dei suoi poteri esoterici.

Larìs Dracu era originaria della Transilvania, una regione della Romania, che alla fine degli anni '80 era ancora governata da un dittatore comunista. Già a diciotto anni si era guadagnata la fama di strega anticomunista e, per non cadere nelle mani della polizia segreta del generale Ceausescu, con non poche difficoltà aveva raggiunto l'Italia. Si era spinta fino a un paesino della Liguria, dove sapeva vivesse un'adepta della sua stessa setta, che l'avrebbe aiutata e l'avrebbe guidata nella prosecuzione del suo cammino verso il livello più alto, quello oltre il settimo, quello della conoscenza universale. Quando giunse a casa di Aurora, il giorno dell'equinozio di primavera, all'ora media, notò che la sua ospite la stava aspettando sulla soglia con la porta aperta. Non ne fu sorpresa, in quanto conosceva i poteri veggenti della maga. Si sentì osservare da lei con compiacimento. Larìs si presentava come una bellissima ragazza, dai capelli neri lucidi, tirati indietro e raccolti in un corto codino, gli occhi scuri, quasi neri, i lineamenti del viso delicati. Le linee sinuose del corpo lasciavano immaginare, sotto vestiti attillati, una perfezione di seni, glutei e gambe rari a vedersi. La maga le appariva come una sessantenne in ottima forma, dai capelli biondi leggermente striati di bianco, gli occhi che cangiavano colore dall'azzurro al verde, a seconda della luminosità dell'ambiente. Il suo corpo aveva ancora il vigore di una quarantenne e la sua pelle era liscia, tirata e non solcata da rughe evidenti. Il suo sguardo era magnetico e, quando i suoi occhi incontrarono quelli di Aurora, Larìs provò un forte impulso sessuale nei confronti della maga. Aurora pronunciò alcune parole in una lingua incomprensibile ai comuni mortali. Non si era espressa in lingua occitana, tipica di quella zona di confine tra l'Italia e la Francia, ma la giovane era stata in grado di capirla, per averla appresa da bambina, quando sua mamma l’aveva iniziata alle pratiche magiche ed esoteriche. Il Semants era l'antica lingua degli adepti, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi, un idioma conosciuto già all'epoca dell'Egitto dei Faraoni da maghi e sciamani, ma che aveva origini anche più antiche. Larìs fu invitata da Aurora a entrare in casa e fu condotta in un salone quadrato. Una delle pareti del salone era occupata per intero da una specchiera, per cui si aveva l'impressione che la stanza fosse molto più ampia di quanto in realtà non era, mentre nelle altre tre pareti vi erano scaffalature, in cui trovavano posto molti libri e manoscritti e alcuni vasi di porcellana, del tipo di quelli usati in tempi andati nelle farmacie e nelle erboristerie.

Larìs fu attratta soprattutto dal pavimento, in marmo lucidissimo di diversi colori, giallo, turchino, verde smeraldo. Con le piastrelle colorate, come fosse un mosaico, era stato realizzato il disegno di uno dei principali simboli esoterici, un pentacolo, una stella a cinque punte, inscritto in un cerchio, a sua volta inscritto nel perimetro quadrato della stanza.


Il simbolo dello spirito, una specie di asterisco, disegnato sulla piastrella pentagonale centrale, delimitata dalle linee dalla cui unione prendeva origine la stella a cinque punte, indicava il centro esatto della stanza. In ognuno degli altri settori in cui il pavimento era diviso dalle linee e dagli archi di cerchio si potevano riconoscere alcune figure, ognuna legata alla simbologia esoterica: la luna crescente e la luna calante, la luna piena, la congiunzione del sole con la luna nell'eclissi parziale e nell'eclissi totale, e altri ancora. Larìs era allo stesso tempo affascinata e imbarazzata.

«Nella casa in cui sono vissuta, in Transilvania, c'era un salone identico a questo» disse rivolgendosi ad Aurora nella stessa lingua in cui poco prima aveva parlato la maga. «La piastrella centrale indica il punto esatto in cui in passato è accaduto un evento importante, che sia esso un fatto meraviglioso o di estrema negatività. La mia mamma adottiva, Cornelia, raccontava che, in corrispondenza della mia dimora, tanti secoli or sono, un principe sceso dai Monti Carpazi, in una notte di luna piena, aveva amato una bellissima fanciulla e dall'accoppiamento era nata la bambina che avrebbe dato origine alla nostra progenie. Ma, a parte questa leggenda, sono anche a conoscenza del fatto che, provocando l'abbassamento della piastrella centrale, scatta un meccanismo di apertura di una sala segreta, nascosta dietro la specchiera. Cornelia sfilava dal collo una catena d'oro in cui era infilato un anello, dove era incastonata una pietra a forma di pentacolo, che si adattava alla perfezione a una serratura, nascosta dietro uno scaffale. Poi faceva abbassare la piastrella pentagonale, cosicché la specchiera si spostava e lasciava accesso alla stanza segreta. Lì erano conservati libri, manoscritti, pergamene, anche molto antichi, che le sue ave le avevano tramandato e che era il sapere a cui concedeva di avere accesso a coloro che aspiravano a divenire adepti del settimo livello.»

«Da come parli, e da quello che percepisco con i miei poteri, so che tu hai già potuto prendere visione di quei documenti e possiedi, come me, i poteri e la sapienza del settimo livello, pertanto è inutile che apra a te la stanza segreta. Insieme, invece, potremo affrontare il cammino che ci porterà al livello più alto, quello del Sapere Universale.»

Mentre parlava, Aurora aveva preso del tabacco da un prezioso contenitore di porcellana e lo aveva messo in due cartine, per arrotolarle con abilità a formare due sigarette. Ne offrì una a Larìs, poi accese un fiammifero, avvicinandolo prima alla sigaretta della giovane, poi alla sua.

Aspirando un'ampia boccata di fumo, Larìs capì che al tabacco erano state aggiunte sostanze stupefacenti ed eccitanti, ma lei era già abituata a fumare quel tipo di miscela. Se non lo fosse stata, sarebbe caduta preda del volere della maga, come in un'ipnosi provocata sia dalla droga che dai poteri occulti di Aurora. La droga stimolò invece in lei il desiderio sessuale, si avvicinò ad Aurora e si lasciò baciare e carezzare. Spente le sigarette, le due si spogliarono e giacquero insieme sul nudo pavimento, fino a che Larìs raggiunse l'orgasmo.

«Adesso che abbiamo unito i nostri corpi, uniremo le nostre menti e le nostre anime» disse Aurora alla ragazza ancora ansimante per il piacere provato. «Oggi è un giorno particolare, unico, e dobbiamo sfruttare i nostri poteri, uniti, per evocare lo spirito di Artemisia, la mia ava bruciata al rogo giusto quattro secoli fa.»

Larìs seguiva incuriosita il discorso, mentre osservava che la luce che entrava dalla finestra stava diminuendo e già la luna piena era evidente nel cielo ancora azzurro del tardo pomeriggio.

«Il 21 marzo 1589, quattrocento anni fa esatti, Artemisia fu legata al palo, conficcato nel terreno proprio lì, dove ora vedi la piastrella pentagonale contrassegnata dal simbolo dello spirito. Oggi è l'equinozio di primavera, la luna piena fra qualche ora verrà oscurata dall'ombra della terra in un'eclissi totale. É una congiunzione astrale molto rara a verificarsi. Notte ideale per un Sabba, ma non è questo che ci interessa. Tu sei arrivata qui in queste ore, perché io da sola non avrei avuto la forza di fare quello che stiamo per fare.»

Prese delle forbici affilatissime e si tagliò accuratamente i biondi peli pubici, fino a rendere la zona genitale del tutto glabra. Li raccolse dentro un calice dorato e la stessa cosa fece poi con i peli pubici di Larìs, molto più scuri dei suoi. Quindi prese da alcuni contenitori delle erbe essiccate, compresa un po' di quella miscela che avevano fumato in precedenza, e amalgamò il tutto, aggiungendo dell'olio, dopo di che depose con cura il calice al di sopra della piastrella centrale. Preparò altre due sigarette, che avrebbero fumato, ancora nude, fino a raggiungere un certo grado di oblio, fin quasi alla trance. Intanto si era fatto buio e in cielo risplendeva il grande cerchio della luna, che lentamente veniva oscurato dall'ombra della Terra, in quel raro momento magico di allineamento dei tre corpi celesti. Nel momento in cui la luna fu completamente oscurata e la sua posizione era evidente solo come un alone rossastro, le due donne, nude, sedute sul pavimento unirono le mani e i piedi a formare un cerchio intorno e sopra il calice. Aurora pronunciò una formula magica: «Has Sagadà, Artemisia.»

La finestra si spalancò, una saetta entrò nel salone e andò a incendiare il contenuto del calice. Si levò un fumo grigiastro, dal cattivo odore di carne bruciata, che ricordava l'odore della strega messa al rogo quattro secoli prima. Il fumo si modellò e prese le sembianze di una donna che, volteggiando e danzando, raggiunse Aurora e si fuse con il suo corpo. Adesso Aurora era Artemisia e Artemisia era Aurora. Larìs assisteva inerme a questo fenomeno. Quando l'ultimo filo di fumo scomparve assorbito dal corpo di Aurora e il contenuto del calice si fu dileguato del tutto, le due donne caddero in un sonno profondo ed ebbero la visone di ciò che era accaduto quattrocento anni prima. Aurora viveva la visione in prima persona, nei panni di Artemisia, mentre Larìs la viveva come spettatrice, mescolata alla folla che assisteva al supplizio della strega.

Artemisia era legata al palo, sotto i suoi piedi erano state sistemate fascine derivanti dalla potatura degli olivi, e poi ciocchi più grossi di legna resinosa di pino e di abete. Il tutto era stato anche cosparso di olio per lampade. Agli altri quattro pali, che erano stati disposti a semicerchio dietro il suo, rispetto agli spettatori, erano state legate le sue quattro compagne: Viola, Emanuela, Alessandra e Teresa. Quest'ultima detta anche "il maschiaccio", in quanto era stata sorpresa più volte mentre giaceva con altre donne, era stata addirittura tacciata di essere un ermafrodita, persona in cui convivevano organi sessuali maschili e femminili. Era una donna dal clitoride talmente sviluppato da simulare un piccolo pene, capace anche di raggiungere l'erezione. Queste ultime quattro donne non sarebbero state bruciate, anche se qualche fascina era stata deposta ai loro piedi. Avevano confessato le loro colpe e avevano indicato Artemisia come loro “guida spirituale”, pertanto erano state legate ai pali, sia come monito alla popolazione locale, che per assistere da vicino al supplizio della loro ispiratrice. Come mai stava per aver luogo l'esecuzione, dal momento che il Doge di Genova aveva messo il veto agli Inquisitori della Chiesa, assicurando alle donne che non avrebbe permesso, in quei tempi moderni, una condanna a una morte così atroce? Il Doge andava fiero del fatto che un suo concittadino avesse scoperto, neanche un secolo prima, una nuova terra, l'America, mettendo fine a quel periodo buio che era stato il Medioevo. Non avrebbe pertanto mai permesso che la Chiesa, tramite l'Inquisizione, facesse bruciare vive queste donne, anche se erano state giudicate colpevoli di stregoneria, eresia, commistione con il diavolo, delitti contro Dio, contro la Chiesa e contro gli uomini. Il tutto era cominciato un anno e mezzo prima, nell'autunno del 1587, quando il Podestà, Stefano Carrega, e il parlamento locale, avevano indicato le streghe abitanti alla Ca Botina come principali responsabili della grave carestia, che da qualche tempo si era abbattuta su tutta la zona, e avevano chiesto al Vescovo di Albenga di istituire un processo alle presunte streghe, affinché fosse messa fine alle loro malefatte con una punizione esemplare, la condanna al rogo. Erano giunti in paese due inquisitori, due frati domenicani vestiti di nero, uno era il Vicario del Vescovo e l'altro il Vicario dell'Inquisitore di Genova. I “corvi”, come li chiamava la gente del luogo, fecero arrestare le cinque streghe abitanti alla Ca Botina, le quali, sotto tortura, accusarono molte altre donne del paese, non solo di origini contadine, ma anche appartenenti alle famiglie più nobili. A un certo punto gli inquisitori erano arrivati ad arrestare circa duecento presunte streghe e il Consiglio degli Anziani, considerato anche che già due donne erano morte, una per le torture inflitte, un'altra caduta da una finestra in seguito a un tentativo di fuga, decise di rivolgersi al Doge di Genova, perché ponesse fine al processo e facesse sì che venissero condannate solo le vere streghe, quelle della Ca Botina, il gruppo legato ad Artemisia, in tutto tredici donne e una fanciulla di 13 anni. Il governo genovese, quindi, non del tutto convinto della regolarità del processo a Triora, decise di interessarsene più da vicino. Passarono alcuni mesi in cui, mentre il Doge di Genova e il Vescovo di Albenga non trovavano un accordo sulla competenza per procedere, le donne rimanevano in prigione alla mercé di carcerieri che non risparmiavano loro umiliazioni e ne abusavano anche sessualmente. Nel successivo mese di Maggio, giunse a Triora l'Inquisitore Capo, per visitare le donne in carcere e accertarsi della situazione. Dopo averle di nuovo sottoposte alla tortura del fuoco, confermò le accuse per le tredici donne e lasciò libera la ragazzina. Le donne furono processate con le accuse di reato contro Dio, commercio con il demonio, omicidio di donne e bambini. Ad Agosto si giunse alla conclusione del processo, con la condanna a morte per Artemisia e le altre quattro donne più unite a lei: Emanuela Giauni, detta Emanuela la Capricciosa, Viola e Alessandra Stella e Teresa Borelli, detta Teresa il Maschiaccio, per la sua abitudine di portare i capelli corti, vestire abiti maschili e giacere con altre donne. Quando sembrava che ormai l'esecuzione della condanna delle cinque donne, per impiccagione e incenerimento dei resti, fosse imminente, intervenne il Padre Inquisitore di Genova, chiedendo che fosse rispettata la sua carica, fino a quel momento estromessa dal processo. Spettava a lui, infatti, in quanto rappresentante dell'Inquisizione di Roma, giudicare i crimini delle streghe. Così le cinque condannate vennero trasportate a Imperia e da lì, a bordo di una nave, fino a Genova, dove furono rinchiuse nelle carceri governative, in quanto l'Inquisizione non aveva posto sufficiente, andando a far compagnia ad altre presunte streghe di altre cittadine della zona. Tutto sembrava andare per il meglio, in quanto il Doge aveva promesso che avrebbe fatto in modo, ora che erano sotto la sua protezione, di salvare loro la vita. Le avrebbe tenute in carcere per un periodo, poi, quando la popolazione si fosse dimenticata di loro, le avrebbe rese libere, col patto di non fare ritorno al loro paese di origine. Ma il maligno, sotto le spoglie mortali del Podestà e del capo del Consiglio degli Anziani di Triora, ci mise lo zampino. Non fu difficile, per gli scagnozzi assoldati dai due illustri personaggi, corrompere i carcerieri con poche monete d'argento, sostituire le cinque streghe con altrettanti cadaveri di povere donne, morte per malattia o per gli stenti dovuti alla carestia che ancora imperversava tra i monti dell'alta Valle Argentina, e riportare le cinque streghe a Triora per un'esemplare esecuzione pubblica.

Legata al palo, Artemisia ripercorreva con la mente le principali tappe della sua vita, a partire dalla sua iniziazione, quando, poco più che tredicenne, si ritrovò al centro del cerchio magico, creato da sua mamma, sua nonna e altre adepte della setta, nei pressi della Fonte della Noce, una fontana situata sotto un grande albero di noci. Già allora aveva percepito la forte presenza del Maligno, una forza negativa all'esterno del cerchio, che voleva le sue vittime per assimilarne i poteri e diventare impareggiabile nella sua malvagia potenza. Gli insegnamenti trasmessi dalla mamma e dalla nonna, l'acquisizione dei poteri della veggenza e dell'uso del tatto e della vista per percepire e guarire i mali del corpo e dell'anima, erano stati da lei sempre utilizzati a fin di bene. Aveva appreso i poteri curativi delle erbe,diventando abile nel produrre pozioni che abbassavano la febbre, che toglievano i dolori, che aiutavano le donne partorienti durante il travaglio. Aveva imparato a usare, nelle giuste dosi, spore di funghi velenosi, da applicare su ferite infette per far regredire le secrezioni purulente. Aveva imparato a fabbricare talismani, a recitare le formule magiche di rito, a eseguire incantesimi di invisibilità, a formare i cerchi magici protettivi. Ma non aveva mai usato i suoi poteri per scopi malvagi, mai. Eppure, alla fine, era stata additata come strega e, insieme alle sue quattro compagne più fidate, Emanuela, Viola, Alessandra e Teresa, era stata imprigionata e torturata con la corda, con il fuoco e con l'acqua. All'inizio dell'estate del 1588 era giunto nella sua cella il Podestà, Stefano Carrega, che era colui che aveva iniziato la caccia alle streghe e, in quel momento, Artemisia aveva capito che era lui che rappresentava il male, la grande minaccia che incombeva su di lei e sulle sue amiche. Già indebolita dalle torture, fu denudata e legata mani e piedi a due pali di legno disposti formare una croce di Sant'Andrea, cosicché avesse braccia e gambe divaricate. I carcerieri le rasarono i peli della zona genitale, poi la lasciarono sola con il Podestà che le si avvicinò sollevando la tunica e mostrando un grosso membro già in erezione. Non c'era possibilità per Artemisia, legata com'era, di sottrarsi alla violenza sessuale, ma era conscia di dover essere forte in quella situazione, di non dover cedere al piacere, altrimenti, con l'atto sessuale, l'uomo le avrebbe sottratto tutti i suoi poteri e le sue conoscenze, assumendole su di sé. Ne uscì vittoriosa. Mentre sentiva il caldo eiaculato penetrare nelle sue viscere, dispose la sua mente a essere il più lontano possibile da lì, a vagare per i boschi a lei cari, e il suo corpo a non provare neanche un fremito, neanche un sussulto. Il Podestà, non essendo riuscito a raggiungere i suoi scopi, divenne furibondo.

«Peggio per te, strega! Morirete sul rogo, tu e le tue compagne, e la forza delle fiamme trasferirà su di me i vostri poteri.»

Il fatto di aver vinto quella battaglia le aveva dato un barlume di speranza e quando, nonostante la condanna degli inquisitori, lei e le sue quattro compagne vennero trasferite a Genova, pensò che il pericolo si fosse allontanato. Certo, dopo il rapporto col Podestà non le era più venuto il ciclo mensile. Era evidente che portava in grembo un figlio, o meglio, come poteva percepire, una figlia. Si rifiutava di ammettere che fosse figlia del maligno. L'avrebbe comunque iniziata alle pratiche magiche ed esoteriche, proprio come era stato fatto con lei da sua madre e da sua nonna, anzi, sentiva in cuor suo che quella figlia avrebbe avuto dei poteri soprannaturali davvero forti, in grado di contrastare qualsiasi potenza maligna e portare avanti nel bene la sua stirpe. Ma, dopo qualche mese, il maligno era rientrato in attività, si era alleato con il Consiglio degli Anziani e aveva inviato a Genova degli uomini incappucciati per riportare lei e le sue quattro compagne a Triora, dove sarebbero state giustiziate. Nel mese di Marzo Artemisia era quasi a termine gravidanza. Quando giunse a Triora, il capo del Consiglio degli Anziani, Giulio Scribani, volle accertarsi di persona del suo stato, in quanto non poteva permettere che, insieme alla strega, fosse bruciata sul rogo una creatura innocente. Artemisia usò tutti i suoi poteri per penetrare nella mente dell'anziano, in cui inculcò il concetto che lei si sarebbe sacrificata sul rogo, purché il suo sacrificio fosse servito a salvare sua figlia e le sue compagne. Il Podestà aveva fatto allestire i cinque roghi e già pregustava lo spettacolo di quella sera, in cui, per una rara congiunzione astrale, in quel giorno di equinozio di primavera, giorno di plenilunio, si sarebbe verificata un'eclissi totale della luna. Ma Giulio impose il suo volere.

«Non voglio assistere a una barbara strage. Ho mandato una levatrice da Artemisia, conosce i sistemi per procurarle un parto anticipato. Il neonato sarà affidato a una nutrice. Solo Artemisia, che è la più potente delle streghe, sarà bruciata. Le altre, legate ai loro pali, assisteranno alla sua esecuzione, poi saranno marcate in modo tale che chiunque le incontri le riconosca come streghe e le eviti. Ognuna di loro ha già uno strano tatuaggio sulla gamba destra, nella parte interna del polpaccio. Vi sono raffigurati tre tomi, che rappresentano i libri che hanno consultato e che hanno studiato per diventare adepte della loro setta. Faremo completare il tatuaggio con delle fiamme che avvolgono i libri e lo stesso tatuaggio sarà fatto a ogni primogenito femmina nella discendenza di queste streghe!»

Il Podestà lanciò lampi di odio nei confronti dell'anziano, ma non poteva contraddirlo. Almeno avrebbe potuto assumere la parte dei poteri di Artemisia. Ma questa, legata al palo, in attesa che le fiamme fossero appiccate alla sua catasta, rimaneva concentrata e formava una barriera protettiva nei confronti delle sue amiche, che erano in contatto telepatico con lei. La posizione a semicerchio degli altri patiboli dietro il suo favoriva la protezione. Così, quando dalla folla degli spettatori si levarono grida «Non le risparmiate, bruciatele tutte!» e un uomo, con una torcia accesa in mano, riuscì a scavalcare la barriera delle guardie e avvicinare la fiamma al rogo di Teresa, due armigeri lo presero sottobraccio e lo rispedirono in mezzo al pubblico con un calcio be assestato nel sedere. L'uomo rotolò a terra e si fermò proprio ai piedi di Larìs, che gli lanciò uno sguardo di disapprovazione.

Pochi istanti dopo, il boia prese una torcia da un braciere, prima la sollevò in alto per mostrare a tutti le fiamme, poi la avvicinò alla catasta di legna ai piedi di Artemisia, che si incendiò.

Artemisia, prima che le fiamme cominciassero ad avvolgere il proprio corpo, rivolse lo sguardo alla luna, che in quel momento era oscurata dal fenomeno dell'eclissi e percepibile solo come una sfera rossastra circondata da un alone, e lasciò andare il suo spirito. Doveva evitare che i suoi poteri e la sua sapienza si trasferissero a Carrega, indirizzandoli invece, con l'aiuto telepatico delle compagne, alle quali il suo sacrificio aveva salvato la vita, verso la bambina che aveva da poche ore partorito e che si sarebbe chiamata Aurora, la prima luce del mattino. In breve, le fiamme ebbero ragione del corpo di Artemisia e lo avvolsero, la donna si trasformò in torcia umana, i capelli bruciarono, i vestiti si incenerirono, lasciando scoperta la carne, che diventò prima rossa, poi nera. La sagoma di Artemisia, che ancora si torceva, era ormai solo intuibile in mezzo al muro di fuoco, che ardeva rombante. Alla fine Artemisia, con un ultimo prolungato grido di dolore, spirò, mentre le fiamme continuavano a svolgere il loro crudele lavoro. Al termine, al suolo sarebbe rimasto solo un mucchietto di ceneri.

Quando Aurora e Larìs ritornarono alla realtà erano ancora nude, distese sul freddo pavimento di marmo, con i corpi imperlati di sudore per la tensione dell'esperienza appena vissuta. Aurora, ancora stordita, afferrò un kimono di seta, lo indossò, e ne offrì uno simile alla ragazza, che era in preda ai brividi e fu ben felice di indossarlo. Quindi Aurora andò in cucina a preparare una tisana rilassante, tornando dopo qualche minuto con due tazze fumanti, che spandevano un aroma di menta nel salone.

«Perché abbiamo avuto questa visione? Qual è il significato?» chiese Larìs, cominciando a riprendersi.

«Credo di aver capito che il maligno, che è rimasto quiescente per quattro secoli, stia riprendendo vigore e voglia sacrificare delle vittime per aumentare la sua forza e la sua potenza. Dobbiamo fare attenzione, perché quelle vittime potremmo essere io, tu o le altre nostre sorelle, discendenti di coloro che quattrocento anni fa scamparono alla morte tra le fiamme.»

«Come possiamo prepararci ad affrontarlo? Abbiamo abbastanza forza per farlo?»

«Mia cara Larìs, tu e io dovremo affrontare un lungo e periglioso viaggio fino al tempio dove vive il Grande Patriarca, che ci offrirà l'accesso al sapere universale, di cui egli è custode. Ci saranno date la forza e la sapienza necessarie.»

Passo dopo passo, reggendosi alle corde laterali, erano giunte circa a metà del ponte che oscillava a ogni loro movimento, quando una folata di vento più forte fece gelare il cuore di Larìs, che cercò di nuovo gli occhi di Aurora per sentirsi rassicurata. Con cautela, le due sfilarono gli zaini dalle spalle, indossarono le giacche a vento e proseguirono fino a raggiungere la radura erbosa al di là del ponte. Da lì iniziavano almeno cinque sentieri, che si dirigevano in direzioni diverse. Quale poteva essere quello giusto da seguire? Aurora vide due rami incrociati con della terra smossa intorno, cercò un lungo ramo e, facendo attenzione a non andare a calpestare la terra smossa, distrusse la croce poi, con lo stesso ramo, disegnò un cerchio in terra, recitando delle parole che Larìs riconobbe come quelle di un contro incantesimo. Qualcuno aveva messo in atto un sortilegio, per metterle in difficoltà sul cammino da seguire. Ma Aurora aveva molta esperienza. Completato il cerchio e rivolte le parole verso il cielo, fu evidente che dalla radura aveva inizio un solo sentiero, che era quello da seguire. Attraversata la lingua di un ghiacciaio, il sentiero volgeva in discesa, fino a che le praterie d'altura lasciavano il posto a un bosco, sempre più fitto man mano che si scendeva. Ad ogni bivio, ad ogni biforcazione del sentiero, le due, d'istinto, sapevano sempre quale direzione seguire.

Il bosco offriva frutti e bacche mangerecci e ogni tanto si rinveniva una fonte d'acqua fresca per cui, anche se i viveri di scorta cominciavano a scarseggiare, non c'era modo di dover soffrire la fame o la sete. Anche le temperature si erano fatte più gradevoli e non vi era più necessità di avere indosso le giacche a vento. Il quinto giorno di cammino, uscendo dal fitto bosco, si ritrovarono in un'amena vallata, in fondo alla quale videro la loro meta.

Il tempio era una costruzione antichissima che si era mantenuta intatta nel corso dei secoli e dei millenni, costruito com'era sulla solida roccia in un luogo non accessibile ai comuni mortali. Ciò che destò lo stupore delle due donne fu la centrale idroelettrica che si intravedeva sul retro del tempio. Una cascata, con la forza di un salto di alcune centinaia di metri, alimentava le turbine che fornivano energia elettrica all'antico edificio. Accanto alle turbine, una serie di pannelli solari provvedevano a fornire acqua calda e contribuivano anch'essi a generare elettricità. Un antesignano impianto fotovoltaico, non ancora in funzione, completava la centralina, che rendeva quell'oasi del tutto autonoma dal punto di vista energetico.

Giunte all'ingresso del tempio, furono accolte da due uomini dall'aspetto fisico statuario.

«Siate benvenute al tempio della Conoscenza e della Rigenerazione. Il Grande Patriarca vi sta aspettando e, appena possibile, vi riceverà. Nel frattempo saremo le vostre guide, vi condurremo ai vostri alloggi e faremo in modo di rendere piacevole la vostra visita in questo incantevole luogo. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, chiedete e cercheremo di accontentarvi. Io sono Ero e il mio compagno è Dusai.»

I due uomini, vestiti solo con corte tuniche colorate, erano alti e possenti, i muscoli evidenti sembravano scolpiti, richiamando alla memoria antiche statue greche. Ero aveva capelli biondi, ricci, piuttosto lunghi, carnagione chiara, anche se lievemente abbronzata, e occhi azzurri del colore del cielo, Dusai moro, i capelli neri corti, gli occhi scuri e la carnagione del colore dell'ebano. Mentre Dusai si prendeva cura di Aurora, Ero si inchinò avanti a Larìs e prese il suo bagaglio. I quattro, attraversato un cortile quadrato, si addentrarono nell'edificio e camminarono lungo corridoi decorati. Gli affreschi alternavano scene di caccia a scene di guerra e di accoppiamenti tra animali. Arrivarono, infine, in un chiostro, al centro del quale vi era una piscina. Sotto i portici si aprivano le porte delle stanze degli ospiti. Qui le decorazioni rappresentavano accoppiamenti tra uomini e donne, in tutte le posizioni possibili e immaginabili tratte dai più impensabili manuali di Kamasutra. Le due donne furono invitate dai loro ciceroni a entrare ognuna in una stanza, dove furono aiutate a spogliarsi e a rilassarsi con un lungo e accurato massaggio tonificante. Dopo un paio d'ore le due donne e i due uomini si ritrovarono insieme all'interno della piscina per godere dei piaceri di un buon bagno nell'acqua tiepida della vasca, e del sesso offerto in maniera spontanea e sensuale da Ero e Dusai. Spossate dai giorni di cammino, ma rigenerate nello spirito, Aurora e Larìs furono rifocillate. La tavola imbandita offriva montone arrosto con contorni di saporite verdure e un'incredibile varietà di succulenti frutti. Al termine del banchetto, si ritirarono nelle loro stanze per sprofondare in un meritato sonno ristoratore.

L'indomani, di buon mattino, i ciceroni portarono a ognuna delle due donne una profumatissima tazza di tè, accompagnata da dolcetti a base di uva sultanina e mosto, dicendo loro di prepararsi per essere ricevute dal Grande Patriarca. I loro compagni del giorno precedente le accompagnarono fino ai piedi di una scalinata, che conduceva ai piani superiori. Da quel momento sarebbero state accompagnate da una guida ben più anziana e molto meno attraente, in quanto a Ero e Dusai non era concesso salire al cospetto del Patriarca. Hiamalè, così si chiamava la nuova guida, era una persona che dimostrava almeno un'ottantina di anni, ma si diceva che ne avesse molti di più. Una lunga barba grigia ornava il suo viso e i capelli lunghi e argentei erano raccolti dietro la nuca in una lunga treccia. Salutò le donne nell'antica lingua e le invitò a salire. Nonostante l'età, l'anziano affrontò con agilità la scalinata, ramo dopo ramo, fino ad arrivare al quinto livello. Aurora e Larìs si resero conto di essere su una specie di torre che sovrastava il tempio e che, dalle finestre, si poteva ammirare la costruzione in tutta la sua magnificenza. L'anziano Hiamalè si inginocchiò avanti a una porta in legno, decorata con stupendi intarsi, e invitò le due donne a fare altrettanto. Come se qualcuno avesse avvertito la loro presenza, anche se non annunciati, la porta si spalancò e le due donne si trovarono al cospetto del Grande Patriarca.

«Non c'è alcun bisogno che vi prostriate avanti a me» disse, congedando l'anziano e invitando le due donne a entrare nella sua stanza. «Siete le benvenute. Vi stavo aspettando da tempo, la percezione del vostro arrivo era forte dentro di me. Mi presento a voi, fedeli adepte, che aspirate al sapere universale. Da quando sono in questo luogo mi faccio chiamare Roboamo, anche se questo non è il mio vero nome, in onore del figlio del Re Salomone che così si chiamava. La tradizione vuole che questo tempio sia stato fatto edificare proprio dal saggio Re in questi luoghi inaccessibili, tra queste che sono le più alte montagne della Terra, per fare da scrigno e da protezione al libro di magia più antico e più esatto, scritto proprio di suo pugno, “La chiave di Salomone”. Le leggende narrano che tale libro sia stato ritrovato, dopo qualche secolo dalla morte del famoso Re, all'interno della sua tomba, conservato in un contenitore in avorio insieme a un anello recante il suo sigillo. In molti cercarono di tradurre quello scritto prima in Latino, poi in Francese, ma nessuno riuscì appieno nell'intento, in quanto quello era solo un falso e Re Salomone aveva fatto in modo di renderlo incomprensibile. L'originale “Chiave di Salomone” è invece conservata nel Sancta Sanctorum di questo tempio e solo poche sagge persone, nel corso dei millenni, vi hanno potuto avere accesso. Forse tu, Aurora, potrai entrare a far parte di quei pochi eletti, ma non precorriamo i tempi. Voi siete qui per accedere al sapere conservato in questo luogo così come, prima di voi, sono giunte persone desiderose di consultare importanti testi, che sono stati raccolti qui da tempo immemorabile. Sono giunti sacerdoti di qualsiasi tipo di religione, ma anche importanti uomini di scienza, grazie ai quali questa costruzione è stata dotata di moderni comfort. Avete visto voi stesse l'impianto per la produzione di energia elettrica. Non è semplice far arrivare qui materie prime per la costruzione di tali impianti. L'ultimo scienziato che ci ha fatto visita era un Italiano, la cui idea era quella di trasformare l'energia dei raggi solari, ma anche quella insita nella luce stessa, in energia elettrica, per mezzo di microcelle, che lui chiamava celle fotovoltaiche, in onore del suo compaesano Alessandro Volta. Ma, mentre in voi vedo delle aure positive, intorno a lui aleggiava un'aura scura, tendente al nero, indice di malvagità e perfidia d'animo.»

«Come si faceva chiamare?» chiese Aurora, incuriosita e intimorita. «Ha avuto accesso al sapere, anche se avete dubitato di lui?»

«Mia cara Aurora, tu hai un'aura di un azzurro intenso, come il cielo limpido, e quindi hai il cuore puro, ma sei molto sensibile agli influssi esterni, perché ti fidi di tutti. Ed è per questo che sei accompagnata da Larìs, che ha un'aura rossa come il fuoco e che rivela il suo carattere impulsivo, determinato, pronto a sacrificare anche la sua stessa vita per aiutare chi le è vicino. Non posso rivelarti il nome di quella persona. Chiunque arrivi qui ha accesso ai testi e ai manoscritti che vi sono conservati. Poi sta a lui decidere come usare il sapere acquisito, se nel bene o nel male. Vedi, ogni religione tende a identificare il bene con Dio e il male con un'altra divinità contrapposta. Che poi Dio venga chiamato Javhè, Vishnu, Odino o Allah e il diavolo Satana, Lucifero, Seth o Sehuet è indifferente. Il bene e il male è dentro ognuno di noi e l'eterna lotta tra di loro si consuma nel nostro animo. In alcuni prevale il bene, in altri il male.»

«Grande Patriarca, rivelaci il percorso per accedere al Sapere Universale» riprese Aurora, «e ti saremo grate e ti onoreremo per il resto della nostra vita mortale.»

«Vedete, ci sono due vie per raggiungere l'obiettivo, una più rapida e una più lenta. Larìs, che è giovane seguirà questa seconda via, avrà tutto il tempo di consultare i testi, assimilare quanto contenuto in essi e imparare a usare, con l'aiuto dei Maestri, il suo Terzo Occhio, quello della saggezza, quello con cui riuscirà a percepire l'aura delle persone che le stanno intorno e penetrare i loro pensieri, entrando in contatto con la loro mente. È un percorso lungo che io stesso a suo tempo ho intrapreso, e che richiede costanza, concentrazione e applicazione. Per te, Aurora, che hai invece premura di assimilare tutto in fretta e tornare alla tua patria per combattere le forze maligne, ho in serbo una strada più breve.»

Battendo le mani, chiamò Hiamalè, che condusse Larìs fuori della stanza, mentre da un'altra porta entrarono due giovani ancelle con una tisana fumante per l'anziano patriarca. Roboamo bevve con cura poi, da un vassoio che gli veniva porto da una delle due ancelle, prelevò un astuccio e ne estrasse una siringa. «Papaverina. Inoculata nel corpo cavernoso del pene, consente un'erezione duratura per un soddisfacente rapporto, anche per una persona anziana come me. Ti trasmetterò tutto il mio sapere e la mia scienza tramite la congiunzione carnale, dopo di che avrai accesso al Sancta Sanctorum.»

Le ancelle aiutarono Aurora a spogliarsi e a coricarsi sui cuscini disposti all'uopo sul pavimento, poi si presero cura del vecchio, lo liberarono dei vestiti, gli praticarono l'iniezione, lo massaggiarono per bene, e quando capirono che era pronto a consumare il rapporto con la nuova arrivata, si ritrassero in un angolo della stanza. Il rapporto con l'anziano procurò ad Aurora un immenso piacere. Chiuse gli occhi e si abbandonò alle spinte di Roboamo. Al culmine dell'eccitazione, raggiunto l'orgasmo, capì che con il flusso di sperma stava penetrando in lei un calore che la pervadeva dalla punta dei piedi all'ultimo capello. Stava assimilando in un sol colpo tutto il sapere che l'anziano aveva accumulato in decenni di permanenza in quel luogo inaccessibile. A un certo punto, Aurora si rese conto che Roboamo era immobile sopra di lei. Aveva ancora il pene eretto, per effetto della papaverina, ma non respirava più, era spirato. Con un delicato movimento, spostò di lato il corpo di Roboamo e con non poca difficoltà si sganciò da lui. Mentre le ancelle si prendevano cura del defunto, Aurora si rivestì e venne assalita dalla paura: come raggiungere il Sancta Sanctorum senza la guida di Roboamo? Ma poi, concentrandosi, capì che, oltre al sapere, aveva assimilato tutto quello che era conservato nella sua memoria, e quindi conosceva già la strada da seguire per raggiungere la meta. Ma c'era di più, il rapporto appena consumato l'aveva trasformata, aveva la pelle più liscia, i seni più sodi, le gambe più snelle, i capelli meno sottili, insomma si sentiva ringiovanita. Cercò uno specchio, che le restituì l'immagine di una ventenne, l'immagine di lei stessa ma con quaranta anni in meno. Con le mani si toccò il volto, come per accertarsi che quello che vedeva fosse reale e non fosse una visione. Le rughe erano sparite, i suoi occhi verdi brillavano, non c'era ombra di opacità nel cristallino, i capelli erano tornati al loro color castano chiaro naturale. Ma non era tempo di soffermarsi su futili elementi. Doveva raggiungere la “Chiave di Salomone”.

Cercando di seguire i ricordi impressi nella mente di Roboamo, ridiscese le scale fino a piano terra. In un salone dalle pareti decorate, cercò una statua dorata che raffigurante un gatto. In corrispondenza del collo di quest'ultimo notò un medaglione dalla forma di un pentacolo. Lo ruotò e vide aprirsi un passaggio nella parete di fondo, l'unica su cui non si aprivano finestre. Entrò in un lungo corridoio semibuio, illuminato ogni tanto dalla fioca luce di antiche lampade a olio. Al termine del corridoio una scala a chiocciola scendeva nei sotterranei, fino a un altro salone riccamente decorato. Andò dritta verso una massiccia porta dorata, arricchita da bassorilievi in oro zecchino, raffiguranti episodi della vita del Re Salomone. Non vi era serratura per aprire tale porta, né altri marchingegni. Per accedere al Sancta Sanctorum occorreva un comando vocale, diverso a seconda dei giorni della settimana e delle ore del giorno. Aurora, calcolando che in quel momento avrebbe dovuto invocare la luna, pronunciò a gran voce: «Levanah!»

La massiccia porta dorata iniziò a scorrere all'interno del muro a doppia testata, lasciando libero accesso alla più segreta delle stanze del tempio. Al centro della stanza, sopra una colonna di circa un metro e venti di altezza, un cofanetto d'avorio custodiva il libro e l'anello con il sigillo di Salomone, il più potente talismano di tutti i tempi. Non senza emozione, aprì lo scrigno. Il libro era al suo posto, ma non l'anello. Chi era giunto lì prima di lei era riuscito a trafugarlo, assicurandosi una potenza non indifferente e difficile da combattere, qualora utilizzata per scopi malefici. Ma ora la maga non aveva tempo di pensare, aveva tutta la notte per poter assimilare quanto Salomone aveva scritto tantissimi secoli prima, cosa che non aveva ricevuto dalla memoria di Roboamo, in quanto egli, anche se aveva accesso al Sancta Sanctorum, non aveva mai avuto il coraggio di affrontare il sacro testo. Quando fu sicura di avere imparato a memoria tutte le formule e le invocazioni, ripose la Chiave nel cofanetto e uscì, percorrendo a ritroso il cammino fatto per arrivare fin lì. Quando uscì nel salone, notò che dalle finestre iniziavano a entrare le prime luci dell'alba. Ruotò il medaglione sulla statua del gatto, riportandolo alla posizione iniziale, e il passaggio da cui era appena uscita si richiuse.

Era ora di tornare a casa, in Liguria, e questa volta il viaggio sarebbe stato breve. Avrebbe usato il teletrasporto, che era una delle nuove magie che aveva appena appreso. Ma prima doveva congedarsi da Larìs. Tornò al chiostro, dove si trovavano le stanze degli ospiti, incontrò Ero e Dusai già alzati che conversavano sul bordo della piscina. A entrambi sfuggì un apprezzamento sul nuovo aspetto di Aurora.

«Accidenti! Fosse stata così l'altro giorno!» commentò Dusai.

La maga evitò di ribattere e bussò alla porta di Larìs, che era ancora immersa nel mondo dei sogni. Assonnata, Larìs aprì la porta e guardò la giovane con aria interrogativa. Quando si rese conto che era la sua compagna di viaggio, si stropicciò gli occhi pensando che ancora stesse sognando.

«Sì, sono io!» disse Aurora. «Me ne sto andando, ma rimarremo in comunicazione telepatica. Quando avrò bisogno di te, lo saprai, e avrai modo di raggiungermi nel più breve tempo possibile.»

Poi avvicinò le sue labbra a quelle di Larìs, e la baciò.

«A presto!»

Aurora uscì dal tempio e raggiunse una radura isolata, dove si sedette in terra, avendo cura di non incrociare le gambe, si concentrò sul luogo in cui doveva recarsi e pronunciò la formula magica. Come catturato da un vortice, da una specie di tromba d'aria, il suo corpo svanì per riapparire a Triora, all'interno della sua dimora.

«Eccomi a casa!»

Delitti Esoterici

Подняться наверх