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CAPITOLO 4

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Il castello di Massignano era accogliente e sicuro, ma Andrea si era davvero stancato di addestrarsi contro il Mancino e i suoi sgherri. Non che la compagnia di questi uomini rudi gli dispiacesse. Spesso la sera beveva vino e giocava a dadi insieme a loro e più di una volta si era addormentato in preda ai fumi dell’alcol sul nudo pavimento, addosso agli altri sgherri. Certo, il Mancino, nonostante avesse perso da tempo l’uso del braccio destro, ci sapeva fare, e più di una volta gli aveva fatto volar via la spada dalle mani. Più passava il tempo e più i due diventavano amici, ma Andrea era un uomo d’azione, e un nobile per di più, e spesso si chiedeva quanto a lungo avesse dovuto sopportare quella semi prigionia, per far piacere al Duca di Montacuto, a dimostrazione della sua riconoscenza per averlo salvato dal patibolo. Da un giorno all’altro, Andrea aspettava che il Duca lo convocasse e lo facesse finalmente partire per il Montefeltro, dove avrebbe messo le sue qualità di condottiero nelle mani di un potente Signore. E già, non ne poteva proprio più di continuare a trascorrere il suo tempo in quella maniera assurda. Era come se il Duca ci facesse apposta a tenerlo in quella condizione di stallo, come se godesse del fatto di tenerlo inattivo il più a lungo possibile.

«Se il Duca non ha ancora organizzato il tuo trasferimento, si vede che c’è qualche ostacolo, materiale o politico che sia. Il mio padrone è un uomo accorto, anche se all’apparenza sembra una persona più rude di noi che lo serviamo. Ma quello che ha in più, rispetto a noi, è la capacità di far ragionare la sua mente», e il Mancino si toccò la tempia con il dito indice, a sottolineare questo suo concetto. «Vedrai, a tempo debito sarà tutto organizzato, nulla sarà lasciato al caso.»

«Gesualdo, anch’io so far funzionare bene la mia testa, e capisco solo che sono quasi quattro anni che sono qui, in questo castello, e le mie membra si stanno impigrendo. Se dovessi essere a tu per tu con un nemico, non so come andrebbe a finire… Forse non bene per me!»

Il Mancino, che aveva capito l’antifona, per non far precipitare il giovane Franciolini nella malinconia, balzò in piedi, afferrò la sua pesante spada con la sinistra e invitò l’amico al combattimento.

«Coraggio, allora, vediamo quanto sei arrugginito. Secondo me, quello che ti manca di più qua dentro è una donna. Inutile continuare a pensare alla tua Lucia, chissà mai se la rivedrai! Lascia fare a me e questa notte sarai in compagnia. Un uomo ha bisogno di sfogare non solo i muscoli delle braccia e delle gambe. Conosco un paio di servette che, al bisogno, sanno quello che fare per soddisfare un muscolo che da troppo tempo è in letargo! Basta elargirgli alla fine un paio di monete d’argento, ed è fatta», e scoppiò in una grassa risata.

Andrea, colpito nel vivo, impugnò a sua volta la spada e la incrociò con violenza con quella del Mancino.

«Brutto bastardo che non sei altro, per chi mi hai preso? Per uno che va a sgualdrine? Sono fedele alla mia amata, le ho giurato fedeltà che ero quasi in punto di morte. Lei ha curato le mie ferite e io la dovrei ricompensare con un tradimento?»

Gesualdo si sbilanciò indietro, mantenendosi ben saldo sulle gambe, e fece sì che la spada del giovane si abbattesse al suolo con fragore.

«Eh, l’amore gioca brutti scherzi! Sì, oggi sei proprio distratto, combatti molto male, amico mio. Sei fortunato di avere me di fronte e non un nemico, altrimenti saresti già spacciato.»

Andrea alzò di nuovo la spada e abbatté un nuovo fendente contro quella del Mancino, che la fece roteare, provocando lo sbilanciamento e la caduta a terra del suo avversario. In un attimo gli fu sopra, il filo della lama poggiato minaccioso al collo del giovane. Quest’ultimo, con un agile balzo all’indietro, si liberò della stretta e con un calcio fece volar via la spada dalle mani del Mancino. Poi si riappropriò della sua e ripartì all’attacco. Questa volta era Gesualdo in posizione di inferiorità. Gli sgherri che assistevano non erano nuovi alle scaramucce tra i due e scommettevano chi sull’uno chi sull’altro. In breve la ressa diventò incontrollabile: i due continuavano a battersi, inveendo l’uno contro l’altro, a volte anche gridando, mentre gli astanti continuavano a scommettere somme sempre più alte e incitavano alla lotta. Fino a che, all’improvviso, tutti si ammutolirono. Andrea e Gesualdo si resero conto che c’era qualcosa che non andava e smisero di combattere. Sollevarono la testa e si ritrovarono faccia a faccia con il Duca Berengario di Montacuto.

«Smettetela di giocare, voi due, e andatevi a rendere presentabili. Stasera avrete l’onore di cenare seduti alla mia tavola», sentenziò con voce autoritaria. Poi si girò sui tacchi e sparì lungo il corridoio, nella direzione da cui era venuto.

Di rado, nel corso di quei lunghi anni, Andrea era entrato nell’ala del castello dove risiedeva il Signore, il Duca di Montacuto. Erano stanze molto più ricche, sia in mobilia che in decorazioni, rispetto a quelle che era abituato a frequentare, nella parte della Rocca dove soggiornavano soldati, armigeri e servi, e dove lui a fatica aveva conquistato una camera con un pagliericcio, grazie all’intercessione di Gesualdo con il luogotenente del Duca.

Si contavano poi sulle dita delle mani le volte che Andrea si era trovato al cospetto del Duca. Va bene che quest’ultimo era spesso lontano dal Castello, in quanto passava molto tempo in Ancona, sia per tenere sotto controllo gli affari amministrativi della città, ora che aveva spodestato il Consiglio degli Anziani, sia per seguire da vicino i lavori di costruzione della cittadella fortificata, nuovo baluardo a difesa del porto. Fatto sta che, dal momento che il Duca lo aveva salvato dal patibolo con un preciso scopo, quello di inviarlo al servizio dei Malatesta di Rimini, si era aspettato di dover abbandonare quel luogo di ozi molto prima. E invece, sembrava che il Duca ci prendesse gusto a non riceverlo, quando per un motivo, quando per un altro, e a continuare a tenerlo in mezzo a quei barbari, che nulla avevano a che spartire con lui, con la sua nobiltà, con il suo lignaggio, con la sua cultura. Non aveva trovato nemmeno un libro da leggere per poter trascorrere il tempo in maniera degna, e l’unico passatempo era quello di allenarsi a combattere, cosa che gli era venuta davvero a noia. L’unico suo conforto era l’amicizia di Gesualdo che, nonostante le umili origini, riteneva un compagno fedele e saggio nel dispensare consigli. Il fatto, ora, di camminare a fianco a lui, lo rincuorava e infondeva nel suo animo il coraggio di cui aveva bisogno per affrontare l’eventuale colloquio con il vecchio Duca di Montacuto.

«Finalmente ci siamo. È di sicuro giunta l’ora di partire alla volta dei territori del Montefeltro, di combattere sul serio, di avere ai propri ordini uomini valorosi», diceva Andrea al suo amico, percorrendo un lungo corridoio, in cui i suoni dei passi erano attutiti da tappeti disposti sopra il pavimento, e ai rumori e alle voci non era consentito rimbombare, grazie a una serie di arazzi che tappezzavano le pareti. «Farò tutto quello che mi sarà ordinato, ma su un punto, su un solo punto, sarò intransigente con il Duca. Tu, Gesualdo, dovrai accompagnarmi. Sarai la mia guida e il mio braccio destro. Non voglio nessun altro accanto a me nel tragitto da qui a Rimini.»

«Mio giovane amico, tu sei forte e robusto, mentre io sono un vecchio invalido. Non credo che il nostro Signore acconsentirà a questa tua richiesta. Anche se non mi convoca ormai da tempo e non mi ha più affidato missioni dopo quella che entrambi conosciamo, il solo sapermi lontano da qui potrebbe essere motivo di cruccio per il Duca. Dai ascolto. Stai zitto e non avanzare sciocche pretese!»

«Stai zitto, tu! Sarai vecchio e invalido, ma combatti molto meglio e sei molto più astuto di un giovane guerriero. E poi...»

Le parole gli si smorzarono in bocca, perché erano arrivati alla fine del corridoio. La porta spalancata di fronte a loro mostrava la sala da pranzo, dove una lunga tavolata era imbandita con ogni ben di Dio. Due riverenti servitori tenevano aperte le pesanti tende di velluto rosso che fungevano da riquadro all’uscio. Al loro passaggio si proferirono in un profondo inchino, poi richiusero le tende una volta che gli ospiti ebbero varcato la soglia. Andrea e Gesualdo guardarono con meraviglia gli arrosti di pavoni, fagiani e faraone, le patate arrosto e le verdure lesse. Tutti i piatti erano abbelliti da decorazioni, in un tripudio di colori raro a vedersi. Per non parlare degli odori, che giungevano alle narici di Andrea a ricordargli i profumi che solo nella casa paterna aveva a suo tempo apprezzato, e che aveva quasi del tutto dimenticato. Il vino nelle brocche era rosso, del tipico colore scuro del vino del Monte Conero. Andrea avvertì una leggera gomitata, preludio del consiglio sussurrato dal Mancino.

«Vacci piano con il vino. Per uno come te, abituato a Verdicchio e Malvasìa, il Rosso Conero può essere pericoloso. Va subito alla testa!»

«Il momento favorevole potrebbe non durare a lungo, e quindi dobbiamo agire ora a sostegno del nostro amico Sigismondo Malatesta», iniziò a dire Berengario rivolto ai suoi ospiti, mentre addentava un coscio di pollo, tenendolo per l’osso, mentre l’unto dalla mano gli scivolava lungo l’avambraccio. «Ora che Leone X è morto, Urbino e il Montefeltro vanno strappate ai Medici e alla Santa Sede! Entro breve tutti i territori delle Marche, compresa la Marca Anconitana, dovranno essere riportati ai giusti equilibri. Sottomessi sì, allo stato della Chiesa, ma pur sempre con governi civili indipendenti. Purtroppo, il Duca Francesco Maria Della Rovere sembra essersi ritirato nella sua Senigallia, rinunciando a riconquistare il Ducato di Urbino, toltogli da Cesare Borgia e poi passato al nipote di Papa Leone X. Inoltre, i territori di Jesi sono nel più totale abbandono. Dopo la morte del Cardinal Baldeschi, è stato inviato un legato pontificio, che sembra non abbia tanto intenzione di governare la città, quanto di finire di ridurla allo stremo, alla miseria, approfittando della vacanza di un governo civile.»

A queste ultime parole, il cuore di Andrea fece un balzo. Il governo civile della città di Jesi era suo di diritto. Se il Duca di Montacuto voleva ristabilire gli equilibri politici, sarebbe bastato che lo avesse rinviato nella sua città, e ci avrebbe pensato lui a mettere a posto le cose e far rientrare nei ranghi questo famigerato legato pontificio. Che senso aveva mandarlo a combattere per il Signore di Rimini? Ma forse gli intenti del Montacuto erano ben altri. Forse gli avrebbe fatto comodo mantenere la situazione di disordine nella vicina Jesi, ora che aveva fatto fuori il Consiglio degli Anziani e aveva preso in mano il governo della Città e della Marca Anconitana. Magari, all’ultimo momento, avrebbe girato le spalle a tutti e avrebbe venduto Ancona al Papa per qualche decina di migliaia di fiorini d’oro. O forse si sarebbe alleato segretamente con il Duca della Rovere e avrebbe fatto fronte comune con lui, contro il Papa e contro lo stesso Malatesta, affinché quest’ultimo non avesse esteso le sue mire espansionistiche verso Sud. Chissà! Ad Andrea non sarebbe dispiaciuto ritornare a Jesi e poter rivedere la sua amata. Ma se neanche era stato informato della morte del suo giurato nemico, il Cardinal Baldeschi, figuriamoci se fosse passato per la mente del Duca farlo ritornare in patria. Per cui Andrea decise di rimanere in silenzio e seguitare ad ascoltare il ragionamento del Duca Berengario, portando distrattamente alla bocca alcune patate e assaporando la loro delicata bontà. Solo fino a pochi anni prima non si conosceva neanche l’esistenza di questo delizioso tubero, che era stato da poco importato dal Nuovo Mondo. Un servo gli versò del vino rosso nella coppa e lui lo trangugiò per accompagnare le patate lungo il loro percorso verso lo stomaco.

«Il Papa da poco nominato, Adriano VI, è un burattino, un fantoccio in mano all’oligarchia ecclesiastica, che ha fatto sì di spazzare via la casata dei Medici, che stavano prendendo troppo potere, finanche a Roma. Non credo che durerà a lungo, prima che Giulio de’ Medici escogiti qualcosa per farlo fuori e riprendere le redini dello Stato Ecclesiastico. Per cui dobbiamo sfruttare il momento, prima che sia troppo tardi. Domani mattina di buon ora, Andrea, partirai per Pesaro, dove prenderai il comando di una guarnigione dell’esercito di Sigismondo Malatesta. Guiderai questa guarnigione verso Urbino, mentre il Malatesta raggiungerà la stessa città da Nord con il resto del suo esercito, attraverso i territori del Montefeltro. Stringerete Urbino in una morsa, da nord e da sud e, sia Medici che occupano il Montefeltro, che il conte Boschetti che governa Urbino su incarico della Santa Sede, non avranno scampo. Tu, Gesualdo, accompagnerai Andrea fino a Pesaro. La strada è lunga e rischiosa, e tu conosci le vie migliori da percorrere. Farai in modo che Andrea giunga a destinazione il prima possibile. Poi tornerai subito indietro. Che non venga a sapere che per qualche motivo, valido o meno che sia, tu abbia seguito Andrea in battaglia. Entro quattro giorni ti rivoglio qui a castello, altrimenti…», e si passò due dita a strisciare la pelle del collo, simulando quello che avrebbe fatto la lama di un coltello premuto contro la giugulare.

Anche cercando con se stesso di non ammetterlo, Andrea aveva scorto brillare una luce di tradimento negli occhi del Duca, mentre questi parlava. Non si era mai fidato di lui, e ora anche meno. Quando poi lui e Gesualdo furono congedati e, uscendo, incrociarono due brutti musi di sgherri, che non si erano mai visti prima a corte, i timori di Andrea furono ancor più accentuati. Per fortuna il Mancino, in cui aveva cieca fiducia, nelle ore e nei giorni a venire, gli sarebbe stato accanto a difenderlo a costo della sua stessa vita.

«Secondo te chi sono quei due, Gesualdo? Sicari, forse? Tagliagole?»

«Non saprei. È la prima volta che li vedo. Ma le loro facce non ispirano alcunché di buono. Ma non parliamone qui. Vieni, andiamo a scegliere i cavalli per domattina. Nelle stalle potremo parlare tranquillamente.»

Quando Matteo e Amilcare furono dentro il salone, il Duca fece sprangare la porta, poi batté le mani. Subito alcune ancelle, in abiti colorati, dalle trasparenze che mettevano ben in evidenza tutte le loro grazie femminili, raggiunsero la sala da una porta secondaria e iniziarono a danzare sulla base di una melodia suonata da invisibili musicanti, nascosti chissà dove. Berengario aveva più di sessant’anni e, in vita sua, aveva avuto ben tre mogli, tutte scomparse in giovane età e in circostanze misteriose. Qualcuno, a corte, mormorava sul fatto che le avesse fatte uccidere lui stesso, una volta che gli erano venute a noia. Era sempre stato un lussurioso, oltre che un amante delle delizie della tavola, tanto da avere dubbi su quale girone infernale sarebbe andato a finire dopo la sua morte. Ma poco importava. L’importante era godere dei piaceri che la vita offriva, finché poteva. E da questo punto di vista, in privato, non si faceva mancare nulla. Allungò il braccio verso una delle ancelle, quella che indossava una tunica di color rosso acceso, e gliela strappò via lasciandola del tutto nuda. La ragazza sapeva già cosa doveva fare, ed era bene a conoscenza del fatto che, se non avesse assolto a dovere il suo compito, l’indomani il suo corpo senza vita sarebbe stato ritrovato in mezzo al bosco da qualche cacciatore. Si avvicinò al Duca e gli abbassò le calze braghe. Poi prese il membro tra le sue mani fino a farlo inturgidire, abbassò i suoi seni prosperosi verso il basso ventre del suo signore, cercando di farlo eccitare sempre di più. Solo quando ritenne che l’uomo era sul punto di esplodere, si rigirò e si fece sodomizzare. Alla fine, il Duca cacciò un grido soddisfatto di piacere e, per ricompensa, infilò una moneta d’oro nella fossetta tra i seni della giovane, che fu abile a trattenerla senza farla cadere in terra.

«Avanti, miei cari ospiti! Ci sono cibo e donne per tutti, qua dentro. Fatevi sotto. Offro io, e oggi sono generoso. E alla fine, parleremo anche di affari.»

Le stalle del castello di Massignano erano in grado di ospitare più di un centinaio di cavalli, ma al momento ne erano presenti una trentina. Tralasciando le giumente più tranquille e docili, il Mancino guidò Andrea fino alla zona in cui erano stati realizzati alcuni scomparti in muratura, dove i destrieri più focosi erano rinchiusi a evitare che si innervosissero solo vedendosi tra di loro.

«Gli stalloni sono più difficili da montare, ma danno molte più soddisfazioni. Sono molto più veloci e possono scagliarsi contro il nemico infischiandosene delle frecce che sibilano vicino alle loro orecchie. E anche se li appesantisci con le armature, diminuiscono di ben poco il loro rendimento. Ecco qua», disse Gesualdo aprendo la porta di un ricovero, dove un cavallo tutto nero nitrì nervoso alla vista dei nuovi arrivati. «Ruffo è il mio preferito. È un murgese, un cavallo originario della Puglia, dove un tempo venivano allevati i cavalli per l’Imperatore Federico II di Svevia e per la sua casata.»

Andrea apprezzò le stupende forme del destriero, poi abbassò lo sguardo per studiarne zampe e zoccoli.

«Si vede che non è un cavallo allevato in pianure verdi e umide, ma sulle colline aride e pietrose della Murgia. Amiamo molto ricordare Federico II a Jesi, perché è la città dove egli nacque, e io ho avuto modo di avere tra le mani il suo trattato De arte venandi cum avibus, dove descrive come questi fossero cavalli adatti alla falconeria, in quanto, al contrario di altri, il Murgese non teme un falco o un’aquila che gli svolazzino intorno, specie quando essi scendono in picchiata per ritornare sul braccio guantato del padrone…»

I loro discorsi furono interrotti dall’udire voci che indicavano la presenza di altre persone. Il Mancino fece cenno ad Andrea di fare silenzio e di rimanere nascosto, acquattandosi vicino a Ruffo e accostando la porta di legno del ricovero senza chiuderla del tutto. I due sgherri poc’anzi incrociati nelle stanze di sopra avevano forse avuto la loro stessa idea, quella di venire a scegliere i cavalli per l’indomani. Convinti che non ci fosse nessuno nelle stalle, parlavano a voce piuttosto alta, cosicché era facile captare i loro discorsi. Un groppo salì alla gola di Andrea quando i tipi si fermarono proprio avanti alla porta semichiusa del ricovero di Ruffo. L’idea di essere scoperti lì dentro e doverli affrontare non è che gli garbava molto, anche perché sia lui che Gesualdo erano disarmati.

Per fortuna i due passarono oltre.

«Meglio non rischiare di cavalcare stalloni che non conosciamo», disse quello più anziano e più brutto, un tipo dal viso butterato incorniciato da una barba spelacchiata. «Prendiamo piuttosto due giovani castroni. Tanto abbiamo il vantaggio della notte. Raggiungeremo con comodo la Torre di Montignano e avremo tutto il tempo di preparare l’imboscata. Sarà un lavoro semplice e veloce e il Duca saprà ben ricompensarci.»

L’altro accompagnò le ultime parole dette dal compare con una sonora e grassa risata. Sotto gli occhi increduli di Andrea e Gesualdo, che continuavano a rimanere ben nascosti, gettarono le loro misere bisacce sui primi due cavalli che capitarono loro a tiro, saltarono in groppa agli animali e scomparvero nel buio della notte, lasciando dietro di sé la scia delle loro risate sguaiate e del loro odore pestilenziale.




La Corona Bronzea

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